Spider-Man Origins # 4

 

 

Le mani dell’avvocato Benjamin Parker restano al di sotto del banco del tribunale, a stropicciarsi a vicenda, ricoperte da un lieve velo di sudore, segno inequivocabile per lui dello stato di tensione in cui si trovava. Mentalmente, quella reazione del suo corpo tanto odiata ricorda a Ben una scena di “La vita è meravigliosa” e paragonarsi al ruolo di “Mr. Potter” non gli va proprio giù.

Socchiude gli occhi, in cuor suo sa bene che la sua attuale posizione giustifica ampliamente quello stato d’ansia e gli basta uno sguardo verso gli avvocati della difesa per capire che non è l’unico a comprendere la situazione. Alla fine, il momento temuto arriva.

- Avvocato Parker, - comincia a dire il giudice, osservando rapidamente i fogli che ha di fronte e rimettendoli rapidamente in ordine – se non sbaglio, oggi doveva presentare dei reperti a favore della sua tesi, non è così? –

- È…è così vostro onore. – mormora Ben, cercando disperatamente una via di fuga – Ma credo che potrebbe essermi utile un ulteriore rinvio per… -

- Questo caso è stato già rinviato numerose volte. – obietta uno degli avvocati della difesa – A questo punto, noi crediamo che l’avvocato Parker non abbia affatto la disponibilità dei reperti di cui ha parlato. –

- È così, avvocato? – chiede di rimando il giudice.

- Molti dei reperti che contavo di depositare sono andati distrutti in un attacco alle Stark Industries da parte di uno degli accusati che… -

- Obiezione, vostro onore! Il dottor Octavius non è ancora stato giudicato per questo crimine, l’avvocato Parker sembra sottintendere che il giudizio di colpevolezza sia scontato, ma non è così. –

ovviamente, quegli avvocati difendono gli interessi di Hammer, di Stane e di tutti coloro che hanno finanziato l’esperimento del ragno radioattivo. Di difendere Octavius non gli interessa affatto, nulla lega i loro clienti all’attacco alle Stark Industries. Resta il fatto che provengono da più studi legali, intere squadre di avvocati, mentre Ben è rimasto solo e tutto a causa dell’amicizia che lo lega al suo defunto fratello.

- Esistono altri reperti! – esclama all’improvviso Benjamin Parker – Il ragno radioattivo stesso non è mai stato ritrovato. Sfortunatamente, i due ricercatori che ci stavano lavorando…che sono anche…miei parenti…sono deceduti in circostanze ancora da chiarire! Questo caso deve essere rinviato, mi si deve dare il tempo di…di… -

- Avvocato Parker, - lo interromper il giudice – capisco che lei abbia bisogno di tempo per riesaminare la sua linea difensiva alla luce di questi fatti, ma intanto potrebbe produrre le analisi del ragazzo contaminato, un teste che di sicuro non si è volatilizzato nel nulla. Aveva garantito che il giovane, la cui identità è sempre rimasta celata, avrebbe deposto in questa aula. È ancora dello stesso parere? Sa dove si trovi il ragazzo, in questo momento? –

Ben Parker esita qualche secondo, prima di rispondere.

- No, vostro onore. – è la verità. Peter gli è stato affidato dalla morte dei suoi genitori, ma quel evento ha turbato il ragazzo in modo terribile. Non ha intenzione di esporlo ad altro dolore, né Peter sarebbe d’accordo a presentarsi davanti ad una giustizia in cui non crede più, in questo momento di estrema confusione, per lui – Non posso produrre alcuna analisi e non so dove si trovi il teste. – e Ben Parker non ha mentito: non sa dove sia suo nipote in questo momento. Sa che non è a casa, perché la mattina ormai esce senza dire nulla a nessuno e sa che non va a scuola, anche perché nessuno, nemmeno May, è stato in grado di chiedergli di riprendere il liceo dopo quel che è successo nella sua vita. Così, per quanto sia in pace con la propria coscienza, Benjamin sa bene che quella risposta segna inequivocabilmente la fine di quel processo.

 

- No, te lo ripeto – fa l’uomo con i capelli a spazzola, mentre le sue labbra sormontate da un paio di baffetti alla Hitler si muovono rapidamente – la notizia è la morte dei Parker. Perché? PERCHÉ? – grida, esasperato – Quei due stavano lavorando ai reperti dell’incidente di Octavius e qualcuno mette una bomba sotto la loro macchina, chiedimi di nuovo “perché” quando avrai raccolto le tue cose dalla scrivania! –

J. Jonah Jameson lancia letteralmente il telefono contro la piattaforma del cordless, già percependo come l’ira sfogata con quel gesto si plachi, nella dolce sensazione che seguiva ogni licenziamento. Dall’altra parte della scrivania, Betty Brant fissa il suo editore con terrore puro negli occhi. Se non fosse per la mano di Robbie, che sfiorandole la schiena cerca di tranquillizzarla, sarebbe fuggita a gambe levate da quel ufficio. Nei pochi secondi che seguono quella sfuriata, l’unico rumore nella stanza sono i borbottii compiaciuti che Jameson emette mentre si prepara a tagliare un nuovo sigaro.

- Jonah, - mormora Robertson, riprendendo il discorso interrotto – c’era qualcosa che volevi dire a Betty? –

- Mmm…si… - mugugna l’editore, socchiudendo gli occhi - …quanti anni hai, Brant? –

La domanda lascia la ragazza senza parole. Lei è solo l’ultima delle stagiste arrivate al Daily Bugle, aveva sentito parlare dalle voci spaventate di chi l’aveva preceduta di ogni sorta di nefandezza, a proposito del suo capo, ma non di questa…attenzione per l’età.

- V…venti, signor Jameson, ma non vedo… -

- Interessante. – la interrompe l’altro, smettendo subito di parlare per accendere il sigaro e dare qualche boccata al fine di alimentare la piccola brace sulla punta. L’odore insopportabile riempie quel locale dove, teoricamente, non si potrebbe fumare.

- Ahem…Jonah? – mormora Robbie, esasperato.

- Dicevo…interessante, perché vedi…i Parker hanno un figlio molto giovane. Quattordici…no…quindici anni e nessun giornale ha mai raccolto le sue impressioni sull’accaduto, mi capisci? – mentre parla, J.J.J. ha un tono assolutamente distaccato, nella sua mente l’argomento è solo una notizia e quindi quella parte della sua mente che riguarda l’empatia, già ben poco allenata in lui, resta dormiente.

- Immagino che fosse per non turbare ulteriormente quel ragazzo! – esclama Betty, sbalordita.

- Già…che idioti, no? – risponde il suo editore, mostrando un sorriso a trentadue denti, fra i quali l’estremità del sigaro viene torturata ripetutamente.

 

Tutto ruota intorno a Peter Parker, tutto continua a ruotare intorno a lui, fin dal maledetto giorno in cui un ragno sottoposto ad una massiccia dose di radiazioni lo morse con tutte le forze che gli erano rimaste. Nessuno ha più ritrovato neanche la carcassa di quel ragno, da dopo la morte dei suoi genitori; ovunque loro lo abbiamo nascosto per proteggerlo, là si trova la sua tomba, mentre la tomba del giovane Peter Parker, la tomba della sua anima serena e spensierata è nascosta nel profondo del suo cuore.

Con l’eco dei rumori della città nelle orecchie, sferzato dal vento, il ragazzo resta a guardare New York dall’alto del tetto dove si è arrampicato. Da quando è stato affidato agli zii, non ha passato molto tempo in quella casa. Le sue giornate scorrono in lunghi silenzi, silenzi rabbiosi e tristi. Non c’è una ragione per la morte dei suoi genitori, non c’è un colpevole. Un ordigno preparato da mani abili, ma estremamente anonime, tutto qui. Troppo poco per il dolore di Peter Parker.

Quando decide di rientrare a casa degli zii, è sera inoltrata. Già a qualche metro dall’ingresso, può percepire la voce ansiosa e lamentosa di sua zia May, un suono che se prima gli strappava un sorriso, ora non fa altro che pizzicare le corde della sua irritazione.

- Cosa faremo adesso? – sta chiedendo, insistentemente.

- Sto pensando di chiedere a Stark di affidare un ricorso al suo studio legale. – risponde Benjamin.

- Ma Richard voleva che te ne occupassi tu! –

- Richard è morto, May! – esclama suo marito – Sono morti entrambi e quel ragazzo non riesce neanche ad andare a scuola! A scuola! Io…non so come dirglielo, è un momento così… - lo zio Ben è allo stremo, quando vede suo nipote apparire sulla porta.

- Non sai come dirmi cosa? – gli chiede il ragazzo.

- Peter…ciao, ragazzo mio…è…oggi era il giorno dell’udienza. –

- Ah. –

- Non è andata bene, Peter…io…mi dispiace… -

- Non importa, zio Ben. – gli risponde il nipote, aggrottando la fronte – Non ci credo più in queste cose. –

- Di cosa parli? – gli chiede sua zia, preoccupata.

- Di tutto. – risponde evasivamente.

- Peter, è importante che tu torni a scuola. – interviene lo zio – Lo so che ti chiedo molto, ma se non riprendi una quotidianità, non supererai mai questo momento. –

- Vuoi che riprenda quotidianamente ad essere preso a calci e sputi? – gli chiede – Perché è questo che succede nel mio liceo…è questo che mi stai chiedendo? –

- Andiamo, Peter…non succederà! Anche quei ragazzi sanno che… -

- Ah, ho capito, zio. Giustamente, essendo rimasto orfano più che il loro disprezzo ora dovrei suscitare la loro pietà…ottima pensata… - il tono di suo nipote non è mai stato così aspro - …in questo caso…vado a preparare lo zaino. –

 

Ned Leeds resta in un angolo, osservando il laboratorio ingombro di attrezzature e appunti, in un disordine completamente incomprensibile per lui. Al Daily Bugle, la sua scrivania è sempre perfettamente in ordine, impiega spesso qualche minuto a decidere l’ordine delle proprie stilografiche in un cassetto, un atteggiamento ossessivo compulsivo che nasconde alla maggioranza dei colleghi giornalisti. Lo turba molto trovarsi in quel laboratorio dell’ESU, immerso in un caos sul quale non può intervenire.

- Non si preoccupi, il professore arriverà presto. – lo rassicura un dottorando, uscendo dalla stanza. Jameson insiste nella direzione dell’indagine sui coniugi Parker, così mentre si prepara a sfoderare armi ben più sottili con il giovane orfano, ha mandato Ned a sentire il parere di uno dei colleghi dei due scienziati, per l’esattezza un ex fidanzato di Mary Parker.

All’improvviso, il giornalista trasale, notando che accanto al vetro a cui si è appoggiato, qualcosa si muove rapidamente nella sua direzione. Qualcosa di verde e silenzioso.

- Non si preoccupi… - interviene una voce alle sue spalle - È solo un Cordylus Giganteus, si nutre solo di insetti e ragni…per quanto assomigli ad un coccodrillo, può di poco superare i trenta centimetri di lunghezza, non c’è nessun pericolo…e mi scusi se l’ho fatta aspettare! – aggiunge il ricercatore, entrando nel laboratorio, avvolto nel suo lungo camice bianco. Il rettile intanto, si ritira in silenzio all’interno del suo terrario.

- Non si preoccupi dottore… - Ned sta per tendergli la mano destra, ma solo in quel momento ricorda, quando vede la manica del camice vuota e richiusa su se stessa, a coprire la mutilazione del suo interlocutore. In silenzio, deglutisce e cerca di protendere più rapidamente la mano sinistra, per una rapida stretta - …Connors. – conclude, rilasciando la mano dell’altro.

- Sono rimasto sorpreso, devo dire…si accomodi… - lo invita il ricercatore - …dicevo, sono sorpreso che il Daily Bugle si interessi alle mie ricerche. –

- Beh…a dire la verità, professore…l’interesse è più rivolto verso alcune sue conoscenze. – mormora Ned, assottigliando le labbra – Mi riferisco ai coniugi Parker, recentemente scomparsi. –

- Oh… - il viso di Curt Connors si rattrista rapidamente - …una terribile tragedia. Non riesco ad immaginare chi possa aver fatto una cosa del genere. –

- Immagino. Ah…mi perdoni dottore, ma…se non sbaglio, lei in passato ha avuto una relazione con Mary Parker. –

Connors non risponde, si limita a mugugnare in segno di assenso. La piega del discorso non è quella che aveva immaginato.

- Beh…ecco…i nostri lettori si chiedevano se… -

- Le risparmio la fatica di fare le sue insinuazioni. – lo interrompe lo scienziato, osservando il cordillo all’interno della sua teca – Non ho nulla a che fare con quello che è avvenuto a Mary…e a Richard. –

- Eravate in contatto? –

- No. – la voce di Connors cerca di non tradire quella falsità. Spesso e volentieri si sentiva con Mary per delle lunghe, ma del tutto innocue, telefonate. Certo, non sapeva se Richard ne fosse stato al corrente, ma questo per la sua coscienza voleva dire poco. Per il suo ego, molto.

- Non c’è davvero nessun commento che vuole fare sulla vicenda? – insiste Ned, nel tentativo di procurarsi qualcosa da scrivere in un articolo a fondo pagina.

- Sto aspettando che la giustizia faccia il suo corso. Lo aspettiamo tutti nella comunità scientifica. – dicendo questo, Curt serra le labbra, evitando il contatto visivo con l’altro – E ora se vuole scusarmi, non ho proprio tempo per parlare di qualcosa che esuli dalla mia ricerca. –

- Oh, mi scusi professore…non le ho neanche chiesto di che cosa si occupa. –

- Medicina rigenerativa. – risponde lo scienziato rapidamente – Un’ipotesi complessa, non starò a spiegargliela dal momento che non è qui per questo. –

Il giornalista incassa quella stoccata, annuendo – Non lo trova…strano? Insomma…la possibilità che lei tragga un profitto personale dalla sua ricerca non potrebbe minare il suo giudizio in qualche modo? –

Connors esita, a queste parole, ragionando. Non è la prima volta che qualcuno gli rivolge parole del genere e il fatto che gli vengano riproposte in quel momento lo confonde, tanto che il silenzio si protrae per qualche secondo di troppo.

 

La fila di ragazzi del liceo Midtown ruggisce all’interno del corridoio, nei minuti precedenti all’inizio della lezione. Non è un suono uniforme, è un rumore causato dalla necessità dirompente delle personalità di tanti adolescenti di affermarsi su quelle degli altri per trovare una propria identità. È un rumore che qualcuno che è stato assente da questa scuola per diversi mesi, ha dimenticato.

- Flash? – mormora Liz Allen, dopo aver dato uno sguardo al suo Iphone – Mi ha appena scritto Sarah…dice che Parker è tornato. È in aula. –

- E dove pensavi che fosse quel nerd? – il ragazzo chiude di scatto il suo armadietto, rivelando la bionda capigliatura rasata quasi a zero e i vestiti firmati che hanno fatto piangere lacrime di sangue alle carte di credito dei suoi genitori – Magari è sempre rimasto lì e noi non l’abbiamo visto! –

Seguono le risate di un paio di amici e una pacca sulla spalla, rapida.

- Andiamo Flash! – mormora una ragazza dai capelli neri, alle spalle di Liz – Gli sono appena morti i genitori! Non puoi… -

- Oh mio Dio! – esclama Flash, esasperato – D’accordo, d’accordo! Lascerò il pavido Parker nel suo stupido angoletto a divorare i libri… - fa, scuotendo la testa e avviandosi verso l’aula, in silenzio, così da distaccarsi dal gruppetto. Si, deve fare il difficile, ora…con questa storia del “povero orfanello” Parker rischia di rubargli la scena, quindi sa che deve farsi desiderare e poi quando tutti si saranno scordati di…ma Flash non ha modo di terminare questo pensiero. Ha appena varcato la soglia dell’aula, e in un attimo si ritrova a mezz’aria, stretto da due mani rabbiose che lo afferrano per la maglietta di Calvin Klein e lo guidano con forza ad impattare contro la superficie di un banco. Non è quel impatto, non è la rapidità di quel che è successo che gli tolgono il fiato, ma il viso del “pavido Parker” che gli alita a pochi centimetri dalla faccia, osservandolo dritto negli occhi, con l’odio accumulato ad ogni scherzo, ad ogni battuta, ad ogni festa in cui è stato scartato o tormentato.

- Tu e io! – ringhia Peter, fuori di sé – Questa è l’ultima volta che ci parliamo, Flash! –

Dopo un attimo di sgomento, Flash prova a replicare, cercando di sollevarsi da quel banco, mentre parla – Parker…so quello che ti è successo e passerò sopra alla… - in qualche modo, le braccia di quel secchione lo tengono inchiodato al banco - …alla cosa…ma ti giuro che normalmente io te la farei…ggghhhkkk… -

La rabbia di Peter che non riguarda solo Flash, incontra quelle frasi sprezzanti di un “nemico”, mentre le dita di una mano ne incontrano solo il collo.

- Tu e io… - mormora Peter, pensando. Sarebbe facilissimo, stringere ancora, fargli male, ucciderlo magari. Se non ora, in un’occasione diversa, ma sarebbe comunque facilissimo. Così, mentre l’espressione di Flash muta in terrore, il formicolio del sollievo - …è l’ultima volta che io e te ci parliamo. – quel formicolio gelido gli invade il corpo, mentre lascia andare il suo “nemico”. Paura? Vergogna? Non lo sa, Peter non ne ha idea, ma la rabbia è sparita solo per una frazione di secondo, anche se adesso torna a montargli con forza e a fargli salire il sangue alla testa. In silenzio, si dirige fuori da quel aula, verso un’uscita di sicurezza, lontano dalle domande, dai commenti e dagli insulti dei suoi compagni di classe. Non perché abbia paura, come loro concluderanno, ma perché ora forse sa di cosa ha bisogno.

 

- Sarebbe troppo lungo spiegarle che le applicazioni dei miei studi, se possibili, sono destinate a realizzarsi molto in là nel tempo. – mormora Connors, schiarendosi la voce – E ora…se vuole scusarmi… -

Con questa mossa, si libera di Ned Leeds, che viene accompagnato verso l’uscita dal dottorando. Quel giornalista ha solo cercato di irritare lo scienziato per fargli dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. Il problema è che è sicuramente riuscito a innervosirlo. In silenzio, Curt rimane seduto a guardare il tavolo da lavoro e i suoi strumenti.

- Va tutto bene, professore? – chiede ritornando in laboratorio.

- Uhm? – mormora Curt, ragionando.

Di certo si può dire una cosa su Connors: per lui, che studia la medicina rigenerativa, il tempo non guarisce le ferite. In tutti i sensi. Non è mai guarita la ferita che Mary lasciò aperta, quando gli confessò di essersi innamorata di un altro. Richard Parker.

Confuso da quella rottura, Curt si arruolò e finì a combattere nella prima Guerra del Golfo, in quella guerra dove furono impiegate oltre trecento tonnellate di uranio impoverito. Connors era così spinto dal dolore, da riuscire a dimenticare tutto, dalla scienza alla medicina, ma non Mary.

Viceversa, la scienza e la medicina non lo avevano dimenticato. Quando tornò in patria, gli diagnosticarono un cancro alle ossa, localizzato nel suo braccio destro. L’unica soluzione possibile era l’amputazione. Fu così che incontrò Martha, l’infermiera che sarebbe diventata sua moglie e la madre di suo figlio, Billy. Se non per amore…per pietà, come spesso capita a Connors di pensare. Non il sentimento che avrebbe provato Mary, non il figlio che gli avrebbe dato Mary. E ora…anche la morte di quella donna che non ha mai smesso di amare gli testimonia che le cose dovevano andare diversamente…quindi…come può essere egoistico cercare di cambiare le cose? Anche accelerando le cose, anche saltando dei passaggi…

- Mmm…si, si Stegron…va tutto bene. – mormora Connors, rispondendo al suo dottorando, con gli occhi velati di lacrime e di speranze.

 

L’odore stantio di sudore permea sale dagli asciugamani lasciati penzolare da una panca dissestata e dai corpi dei lottatori che si esercitano sui tappeti, permeando ogni angolo della palestra illuminata dal sole newyorkese attraverso le finestre poste metri più in alto, verso il soffitto. È appunto da una di queste finestre che un ospite inatteso si intrufola silenziosamente all’interno di quel tempio dello sport.

- Andiamo, Crusher! Puoi fare meglio di così! – esclama uno degli allenatori, osservando il suo allievo – Quella presa deve sembrare più realistica, non puoi semplicemente aspettare che lui… -

Per tutta risposta, Crusher Hogan afferra di peso l’altro lottatore e lo scaraventa a terra con maggiore violenza.

- Ah! Ma sei impazzito? – protesta l’altro, atterrando alla meglio.

- Alzati femminuccia! – grida l’allenatore, sorridendo.

Crusher Hogan, calvo, centoventi chili per oltre due metri d’altezza, è sempre stato un wrestler capace di far andare in delirio le folle, ma ha costantemente bisogno di essere punzecchiato, spronato, svilito. Un po’ come se fosse un accumulatore di aggressività, si carica quando non può rispondere alle offese e scarica gran parte di quel che accumula sul ring. Ha impiegato anni ad affinare la sua tecnica, in quella palestra è forse il più anziano dei lottatori e quello più capace di dare filo da torcere agli altri. Fino ad ora, almeno.

- Ehi, grand’uomo! – esclama una voce giovanili dagli spogliatoi – Sei pronto per me? – un attimo dopo, quella figura esile, per quanto muscolosa, a torso nudo, pantaloni blu elettrico attillati e una ridicola maschera con un ragno stampato al centro della fronte, è sotto gli occhi di tutti i lottatori nella palestra. Subito dopo, una risata corale investe il giovane Parker.

- Ehi e questo chi sarebbe? –

- Non lo so, Tim, magari è lo spogliarellista che avevi chiesto! – varie battute scurrili seguono, mentre il ragazzo rimane in silenzio, con le braccia conserte ad osservare tutti.

- Ok, ok, ragazzi! Pausa finita, abbiamo riso abbastanza. E tu… - interviene l’allenatore - …esci da dove sei entrato, grazie delle risate. –

- Che significa? – chiede Peter, adirato.

- Quanti anni hai? Scommetto meno di quelli che ti servono per capire l’idiozia che stai facendo. – ovviamente l’allenatore è abituato a valutare le fisicità delle persone, gli basta uno sguardo per capire che quel ragazzo, per quanto in forma, non arriva neanche ad essere maggiorenne – Levati di torno, prima che ti faccia buttare fuori. –

Peter, in silenzio, serra le labbra e le dita, trattenendo quel tamburo battente che dalla morte dei suoi genitori è diventato il suo cuore. È lì per un motivo solo e non intende accettare un “no” come risposta.

Ciascuno degli energumeni presenti in quella palestra pesa approssimativamente oltre i cento chili. Il mingherlino che l’allenatore voleva cacciare fino ad un attimo fa, ora stringe saldamente il collo di Crusher Hogan, sollevandolo da terra di fronte a lui, senza alcuno sforzo, mentre tutti gli altri lottatori giacciono sul pavimento della palestra, o sul quadro svedese, o su qualunque altra superficie su cui abbiano impattato.

A differenza di quel che l’allenatore poteva immaginare inizialmente, Peter non è un ragazzino in cerca di gloria, abbagliato da qualche programma in tv, o almeno non lo è più. Quel ragazzo è entrato in quella palestra cercando solo un motivo per attaccare briga, non per dare dimostrazioni, ma solo per picchiare violentemente uomini che della lotta hanno fatto il loro credo, per sfogare quella rabbia che gli monta in petto, costantemente.

- Lascialo. – esclama l’allenatore, riferendosi a Crusher – Mi serve e servirà anche a te. – la mente di quel uomo galoppa in fretta. Vede in quel ragazzo mascherato la rabbia di Crusher, ma senza la necessità di ravvivarla costantemente, no…Peter sarà sempre arrabbiato, sempre…con tutto il mondo, anche se chi lo osserva non capisce il perché.

- Non se non mi pagherai abbastanza e in contanti. – risponde il ragazzo, lasciando cadere il lottatore a peso morto.

- Ti pagherò. – replica l’altro – Puoi rifare questo numero quando vuoi? –

- Certo. –

- Allora presentati in questo posto, vestito così, dopodomani. Questo è il mio numero. – gli dice, porgendogli un biglietto da visita. Fatto questo, gli volta le spalle e si avvia verso gli spogliatoi.

- Ehi! – esclama Peter, aggrottando la fronte – Non hai nemmeno insistito per vedermi in faccia. – nota, stupito dalla cosa.

- E per quale motivo? – gli chiede l’allenatore – Per vedere che sei un ragazzino? Preferisco non saperlo, mi sei più utile così. –

 

È notte, in casa dei Parker. Peter non è ancora rientrato, a stento May ha accettato di andare a dormire, mentre Ben è seduto al buio, in soggiorno. La barba di un giorno che gli prude, la bottiglia di bourbon sul tavolino di fronte a sé. Dalla scuola hanno chiamato per avvertirlo di quel che suo nipote ha fatto a quel ragazzo che lo ha tormentato da sempre. Ha passato il pomeriggio a parlare con i genitori di Flash Thompson, a spiegare la situazione, a giustificare, a chiarire. E ora…a bere. Per la prima volta, Ben Parker sente di avere a che fare con qualcosa di veramente più grande di lui. Sospirando, si versa un altro bicchiere e comincia a sorseggiarlo. Non vuole essere sbronzo quando Peter rientrerà, ma non riesce a pensare, non sa cosa fare. Può biasimare suo nipote per essere arrabbiato con il mondo? Anche lui è arrabbiato con il mondo! Anche lui vorrebbe che Richard e Mary fossero ancora vivi…in silenzio, nota sulla curvatura bottiglia, il viso di suo fratello, riflesso da una fotografia che tiene su un mobile, poco più in là. Sente le dita che gli tremano, forse per l’alcol, forse per il pianto, mentre fissa quel viso sorridente che tanto gli ricorda quello di Peter e il proprio, in fondo. Piange, Ben, piange finché quel tremore non si tramuta in rabbia, e il bicchiere non viene scagliato verso quella bottiglia, verso il viso di Richard riflesso su di essa, mandando tutto in frantumi.

- Che cosa vuoi da me? – chiede, piangendo – Dimmi che cosa vuoi da me! –

 

Continua