Spider-Man Origins #2

 

 

Ryker’s Island può cambiare profondamente un uomo, una volta che le porte del carcere si sono chiuse alle sue spalle. Il più delle volte, in peggio. Un uomo come Smythe, profondamente disturbato, nevrotico, con tendenze paranoiche, potrebbe non uscirne vivo. Facile bersaglio di violenze sessuali, considerata la sua corporatura gracile, Octavius ha fatto in modo di intercedere perché non venisse messo in isolamento, così si ritrova nella mensa, o meglio, sul pavimento della mensa, con le maniche inzuppate dal proprio pasto, il vassoio sotto i gomiti e lo stomaco dolorante per un poderoso pugno che lo ha raggiunto. Non succede altro, è solo un avvertimento, se la cosa degenerasse le guardie dovrebbero intervenire.

Smythe riesce a sedersi in un angolo della mensa a contemplare il suo vassoio vuoto con gli occhiali storti sul naso.

- Io lo so chi sei. – pronuncia una voce alle sue spalle. È un uomo a parlare, un altro detenuto che rapidamente gli poggia davanti un vassoio completo di cibo.

- Nessuno qui è abbastanza erudito da sapere chi sono. – è il commento di Smythe, che tentenna per qualche secondo, ma alla fine comincia a mangiare.

- Sei Spencer Smythe. – gli risponde l’altro – Sei un genio, ecco chi sei. –

- Come fai a saperlo? Chi sei? -

- Mi chiamo Herman Schultz. Non sono sempre stato qui. – aggiunge – Ero lo studente discolo dell’MIT, studente di ingegneria. Forse troppo discolo. –

- Questo spiega poco. – commenta l’altro, osservandolo.

- Ti basti sapere che avevo qualcosa di veramente grosso in mente, qualcosa per cui…persone importanti erano disposte a chiudere un occhio su alcuni miei…vizi. Quando è andata male…non è stato più così. –

- Grazie del cibo. – mormora Smythe, osservandolo.

- Prego, ma…non ti servirà a niente. Entro stasera verrai violentato e entro domattina…beh, non ti piacerà quello che succederà entro domattina. Non sei in grado di affrontare questa situazione, quindi hai bisogno di me. – Schultz è molto pragmatico, ha passato già alcuni anni in carcere e non era un santo neanche prima, come lui stesso ha fatto intendere.

- P…puoi evitarlo? –

- Potrei. Posso darti molte cose, in realtà, ma…vorrei qualcosa in cambio. –

- N…non ho soldi. – ammette il neocarcerato.

- Non voglio soldi. Voglio il tuo genio, quello che mi hanno fatto studiare all’MIT. Voglio che tu dia un’occhiata ai miei schemi, al mio progetto e mi dica dove ho sbagliato. – lentamente, Schultz depone dei fogli che teneva nella divisa arancione davanti agli occhi dell’ingegnere.

- C…che cos’è? – il tono di voce di Spencer Smythe cambia, affascinato da quegli schemi.

- Che tu ci creda o no, è il primo tentativo di canalizzare l’energia repulsor al mondo. Howard Stark ha solo teorizzato la possibilità di sfruttare l’energia che lui stesso ha scoperto, io stavo cercando il modo di usarla per caricare di energia cinetica le molecole di un fluido, come l’aria, e generare un’onda d’urto vibrazionale. –

- Sono…sono shockato. – ammette Smythe.

- Credi di riuscire a capire perché l’ultima volta questo apparecchio è esploso? –

Segue un breve silenzio, durante il quale l’ingegnere esamina quei progetti attentamente – Si, ma in cambio voglio…protezione. –

- D’accordo. –

- E un’altra cosa. V…voglio fare una telefonata da un cellulare. –

 

 

Richard e sua moglie siedono accanto ad Howard Stark, mentre lui gli espone le varie possibilità che hanno per fare ricorso in tribunale contro Octavius e Smythe per l’incidente avvenuto durante la loro presentazione. È un incontro che si prevede lungo e difficile, qualcosa che va fatto, assolutamente, per quanto Mary sappia quanto il marito detesti questo tipo di discussioni.

- Il problema maggiore… - mormora Howard - …è mantenere segreta l’identità di Peter. –

- È fuori discussione. Non transigiamo su questo. – replica la madre del ragazzo.

- Ti ho detto cosa ha fatto Osborn. – aggiunge Richard, incrociando le braccia – Inoltre, le modifiche genetiche che abbiamo apportato al DNA di Peter…sono illegali. O quanto meno, sono qualcosa che il nostro sistema giuridico non ha mai affrontato, esporre il suo nome e le sue analisi ad una giuria sarebbe come giocarci la vittoria alla roulette. –

- Proprio per questo…niente analisi, niente nome…sarà molto difficile che Octavius paghi per quello che ha fatto… - replica Howard – Abbiamo già tenuto nascosta la condizione di Peter agli altri dipendenti delle Stark Industries, ma i nostri avvocati…dovranno almeno sapere il suo nome. –

- A questo…ho trovato una soluzione. – ammette Richard, alzandosi dalla sedia, per andare ad aprire le porte dello studio, facendo un cenno a qualcuno che in silenzio attendeva nel corridoio. -

- Salve a tutti. -  

L’uomo che si presenta ad Howard Stark è leggermente più grande di Richard, capelli spruzzati di bianco solo sulle tempie, vagamente paffuto, con uno sguardo vivo e attento e un’energica stretta di mano.

- Howard, permettimi di presentarti mio fratello Ben. Fa l’avvocato, non è famoso come i tuoi, ma penso che sia la persona più motivata a difendere suo nipote. Gli ho rivelato l’identità del ragazzo coinvolto nell’incidente quasi subito, anche se non gli ho…completamente spiegato ogni aspetto della sua convalescenza. – una piccola nota per chiarire cosa dovesse essere omesso dalla conversazione.

- I dettagli scientifici li lascio a voi cervelloni. – ammette Ben – Io voglio spremere quei codardi che hanno fatto questo a mio nipote, giusto Mary? –

- Giusto. – risponde la donna, vagamente divertita – Come sta tua moglie? –

- Oh, sta magnificamente. Non le ho detto niente di Peter perché…beh, sai quanto può essere apprensiva. –

- Hai fatto bene. – ammette Mary, con un sorriso.

Intanto, Richard si muove verso il tavolo, afferrando una particolare penna su cui campeggia chiaramente il logo di Stark, se la rigira nella mano e fa per andarsene.

- Un momento! Richard! – esclama Howard – Non posso dire di non essere sorpreso… -

- Howard, tu mi hai dato i soldi e i mezzi per salvare la vita di mio figlio. – gli ricorda l’altro – Ora, io ti ho portato il mio avvocato, ti farò risparmiare le costose parcelle dei tuoi…e sto per andare in laboratorio a lavorare su qualche brevetto applicativo che possa ripagarti di tutto. Non chiedermi di restare qui…uno dei motivi per cui ho sposato Mary è la sua straordinaria abilità di evitarmi situazioni che detesto e le faccende legali rientrano in queste. –

Detto questo, Richard esce portandosi dietro la penna, armeggiando per qualche secondo, anche in ascensore, mentre si dirige al livello dove è tenuto Peter.

- Figliolo…se ti vedesse tua madre… - gli dice, notando che il ragazzo sta guardando la tv, su un canale che trasmette un incontro di wrestling.

- Per fortuna sei tu. – gli risponde Peter, sorridendo - Non ti preoccupare, se fosse stata la mamma me ne sarei accorto. Mi sarebbe venuto mal di testa. –

- Cosa? –

- È una faccenda lunga, ti spiegherò. –

- Spiegami il wrestling. Non ti è mai piaciuto… - nota suo padre.

- Mi fa riflettere, in realtà. – mormora il ragazzo – Violenza per dare spettacolo. Umiliazione dell’avversario, lo vedi? Vedi qui? È…umiliazione e violenza, prevaricazione, forse. Per molti è uno spettacolo, per me è…una rappresentazione di quello che succede a scuola. –

- Il bullismo intendi? –

- Si…questi incontri mi fanno venire voglia di andare lì e stenderli tutti, specie i wrestler che più provocano il pubblico e… -

- Beh, ora potresti farlo…ma non dire a tua madre che l’ho detto! – si affretta a dire Richard, guardando il figlio – Comunque, è il loro lavoro, provocare e dare spettacolo. Lo capirai. Che ne dici invece di aiutarmi con il mio lavoro? –

L’ultima frase ha il potere di attrarre completamente l’attenzione di Peter, che spegne la televisione e si volta rapidamente verso il padre. È una cosa che fanno spesso, da quando è diventato grande: Richard gli spiega dettagli del suo lavoro, ragiona a voce alta con lui e all’improvviso…l’idea viene. Probabilmente le loro menti vivaci si stimolano a vicenda, in qualcosa di leggermente diverso della solita partita di football fra padre e figlio, ma di altrettanto intenso.

- Di che si tratta? – chiede Peter, incuriosito.

A questo punto, suo padre prende a tracciare punti nell’aria con la penna con il logo Stark e dopo qualche secondo appare una rappresentazione 3D olografica di una molecola che fluttua a mezz’aria, ruotando lentamente.

- È un monomero, l’unità fondamentale di qualcosa. – spiega Richard.

- Di cosa? –

- Di un complesso polimero a cui stavo lavorando, ma che non sono mai riuscito a risolvere. Volevo semplificare il processo di sintesi, ma nelle simulazioni il processo non funziona. Non riesco a vedere la soluzione, anche se so che deve essere qui da qualche parte… - mormora lo scienziato, contemplando la struttura della molecola.

 

 

Richard Parker non è l’unico che perderà il sonno di fronte ad una formula chimica. Qualcun altro, resterà sveglio in un laboratorio costruito nel seminterrato della sua villa poco fuori New York, a riesaminare i progetti della propria azienda.

- Papà? – chiede la voce di un adolescente, spingendo la porta del laboratorio – Papà, sei ancora sveglio? –

Segue un sospiro che tradisce la stizza di Norman Osborn. Non sopporta neanche la voce di quel bambino, così privo di spina dorsale che se non fosse per la somiglianza fisica si chiederebbe se è davvero suo figlio.

- Non ti riguarda Harold. – gli risponde, senza voltarsi – Dovresti essere a letto. Non hai preso le tue pillole? –

- Papà… -

- Ti ho fatto una domanda. – solo a questo punto suo padre si volta, con lo sguardo adirato.

- N…no. Non le ho prese. –

Osborn è un uomo imponente, per un ragazzo giovane e mingherlino lo è ancora di più; Harry sobbalza quando suo padre apre del tutto la porta.

- Vieni con me, Harry. – gli dice, con un tono che non ammette repliche. Rapidamente, risalgono le scale che li porteranno nel salone della villa, il ragazzo non parla, osserva solo suo padre muoversi al buio, verso il cassetto delle medicine. Il rumore delle due pillole che escono dal blister per scivolare nelle mani di Norman risuona nel silenzio.

- Papà…non voglio prenderle…non mi fanno stare bene. –

- Ti faranno dormire e ti terranno calmo. – replica il padre, versando un bicchiere di acqua minerale. Osborn è da tempo un sostenitore della terapia psicofarmacologica sui giovanissimi, tanto che a Harry, fin da piccolo, sono state somministrate sostanze, spesso con il solo scopo di consentire a suo padre di avere una vita tranquilla, secondo il suo personale concetto.

- Ma io… -

Suo padre si sta già muovendo verso la camera da letto di Harry, portando con sé le pillole e l’acqua, senza ascoltarlo. Solo quando suo figlio lo raggiunge, Norman riprende a parlare.

- Quando eri piccolo ti dissi che se non avessi preso le pillole sarebbero successe delle cose terribili, figliolo. –

- Il…il Goblin? – chiede Harry, i cui occhi non vedono nulla nel buio.

- Il Goblin verrà e ti farà del male. Le pillole possono proteggerti. – gli ripete suo padre, come faceva quando era piccolo.

- Ma papà, io… - la frase viene interrotta da un manrovescio che nel buio incontra la guancia del ragazzo, che cade riverso ai piedi del letto.

- Le pillole sono sul comodino. – è l’ultima frase che Harry sente, prima che la porta si richiuda.

Norman sta per tornare nel suo laboratorio, attraversando il salone, quando è costretto di nuovo a fermarsi.

- Credi che sia questo che deve fare un padre? – gli chiede la voce di sua moglie, nel buio.

- Emily, non ho tempo per questo. –

- Come per tua moglie. –

Norman si ferma un secondo, osservandola nella penombra – Devo chiamare il mio avvocato? – le chiede, prima di dirigersi verso le scale del laboratorio.

- Non posso credere che tu l’abbia detto! – grida sua moglie, seguendolo verso il locale illuminato al neon – Si può sapere cosa fai chiuso qui dentro? –

- Secondo qualcuno, costruisco bombe, non faccio altro che costruire armi! – sbraita Norman, voltandosi verso di lei con rabbia – In realtà, lavoro e mando avanti un’azienda che da lavoro a centinaia di dipendenti grazie alle mie idee…e permette a te e a quello smidollato di tuo figlio di mangiare! –

- Harry è solo un ragazzo, come puoi… -

- Harry è stato traviato dalla tua debolezza, Emily. – replica Osborn, voltandosi verso due beute poggiate su un piano da lavoro, cominciando a lavorare su alcuni composti – Gli dobbiamo dimostrare che non sono solo un uomo che costruisce bombe… -

- Norman, non mi stai neanche ascoltando! – esclama sua moglie.

- No! Tu non mi ascolti! – gli risponde l’uomo, ormai esaltato, poggiando la su cui sta lavorando di fronte a lei – Parker ha riso di me, questo non può essere tollerato. –

- Almeno lui è un uomo che sa occuparsi di suo figlio! – grida sua moglie. Per un attimo, pare che suo marito voglia sfogare la sua furia su di lei, ribollendo di rabbia come la beuta poggiata sul tavolino in cui sta avvenendo una reazione chimica. La afferra, colpendola al viso con uno schiaffo e poi andando a stringere il suo collo con una mano possente. Vuole ucciderla? Sente la vita della donna sotto le proprie dita, ma proprio come una reazione chimica, improvvisamente l’atteggiamento di Norman cambia radicalmente.

- Parker è un uomo…che…ma certo! – esclama, muovendosi in fretta verso la sua scrivania, addossata alla parete, dimenticandosi completamente di sua moglie. Prende a scartabellare le carte che agenti di spionaggio industriale gli hanno procurato. Ha fotocopie di tutto ciò che riguardi i dipendenti delle Stark Industries che ha ritenuto più interessanti, dai certificati medici ai curricula. Tiene d’occhio i Parker da tempo e un particolare era sfuggito fra i dettagli: il figlio dei Parker era alla dimostrazione di Octavius ed è assente dal suo liceo da quel giorno, ufficialmente per una banale mononucleosi.

- Ma si, certo! – esclama Osborn – Ho capito! Peter Par… - non riesce a dire altro, sua moglie, alle sue spalle, si è trascinata priva di forze verso di lui, stringendo in pugno la beuta da lui abbandonata. Nel momento in cui si infrange contro la nuca del miliardario, vapori verdi si sprigionano in tutto il laboratorio, dando il via ad un incubo ancora peggiore. 

 

Passano alcuni giorni, giorni in cui Ben Parker lavora febbrilmente ad una linea da seguire in tribunale per cercare ad ogni costo di tutelare l’identità di suo nipote, ma riuscendo comunque a far pagare per le loro azioni sia Octavius che Smythe. Senza delle analisi presentabili del soggetto contaminato, è tutto molto incerto, Ben ne è cosciente, ma nonostante questo il giorno dell’udienza tiene la sua accorata arringa di fronte alle telecamere che seguono il processo. Peter segue tutto dalla televisione, gli sembra così strano vedere lo zio Ben in aula e non dietro ad un barbecue o al tavolo del ping pong, come nelle vacanze estive, ma alla fine resta rapito dalle sue parole.

- La scienza è un fuoco che arde negli uomini da secoli. – esclama, durante la sua arringa –È un fatto che l’uomo aspira a sapere e a conoscere…a controllare. La scienza è tutto questo, è sapere, controllo…è potere. Non sta a noi decidere se questo sia un bene o un male, ma è un fatto. Così come è un fatto che un ragazzo è scampato miracolosamente a questo potere che è sfuggito al controllo di Otto Octavius e Spencer Smythe. Noi siamo qui per ricordare loro che le persone si assumono delle responsabilità di fronte alla legge e al mondo…di fronte a quel ragazzo che non vuole essere al centro dell’attenzione del mondo. – detto questo, la telecamera lo inquadra direttamente, mentre termina la sua arringa – Noi siamo qui per ricordare a queste persone di potere che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. – scandisce attentamente quella frase, che rimane profondamente impressa nella mente di Peter, per il tono, la postura e l’importanza che lo zio Ben gli sta dando.

Proprio quando sembra che niente possa distrarlo, qualcos’altro attrae l’attenzione di Peter. Il sibilo di una porta a pressione che si apre, un rumore che non ha mai sentito da quando è entrato nella sua camera di contenimento.

- Ah…Peter…tua madre vorrebbe un abbraccio… - gli dice suo padre, intanto che Mary corre incontro a suo figlio, per abbracciarlo – Pare che il livello di radiazioni sia sceso sotto il livello di guardia da quarantotto ore, giovanotto. –

- Oh, Peter… - ripete sua madre, stringendoselo al petto.

- Mamma! – ride il ragazzo, cercando di non farle del male con la sua nuova forza.

 

- È nato. – mormora piano una voce nel buio della stanza densa di vapori vagamente psichedelici che vengono emanati in una ragnatela di fumi che parte da un braciere di pietra, posto alle spalle dello scranno di Madame Web.

- Lo so. – risponde la donna, alla voce maschile che viene dal buio – Anche se questo ti infastidisce, non è vero, Ezekiel? –

- Non essere ingiusta con me. – pronuncia l’uomo alle soglie dei cinquanta, mentre scivola lentamente verso il pavimento, strisciando lungo la parete con movenze aracnidi – Sai che ho a cuore il ragazzo quanto te. Sai che lo proteggerò da tutto. –

- Questo è il mio compito. – risponde la donna, con gli occhi bendati – Hai avuto accesso a questo potere in modo in modo inconsueto, per quanto tu… –

- Mia piccola Cassandra… - la ferma Ezekiel Sims, poggiando una mano sulla sua spalla, un gesto stranamente carico di intimità - …sicura di voler parlare di quel periodo? –

- Ero molto giovane, Ezekiel. – la voce di Madame Web, di solito priva di incertezze, trema per qualche secondo – Una ragazza molto sciocca e tu…tu più di me. Come ora. –

- Dimmi il suo nome, Cassandra. – mormora Ezekiel, inginocchiandosi accanto a lei e prendendo la sua mano fra le proprie – Insieme possiamo…possiamo educare il ragazzo. Siamo sempre destinati ad essere una famiglia, ti ricordi? –

- Il ragazzo ha già una famiglia. – replica la donna, scostando la sua mano. Segue un momento di silenzio che passa con estrema lentezza per entrambi.

- Condividiamo una ragnatela, Cassandra. – le ricorda Ezekiel, alzandosi – La tua malattia e le tue droghe ti consentono di vedere meglio attraverso di essa, ma anche io…anche io posso farlo. Sento le tue lacrime formarsi sui tuoi occhi ciechi, quando parli della sua famiglia e questo mi basta per capire cosa sta per succedere. –

- Quando parli della mia cecità e della mia malattia Ezekiel…mi chiedo se ti ricordi che i doni che tu hai ricevuto ne sono la causa. Forse anche queste lacrime vengono per la tua presenza. –

- Ci penso ogni giorno. – replica l’altro, saltando su una parete e cominciando ad arrampicarsi verso una finestra – Scoprirò il nome del ragazzo. Occorrerà del tempo, ma lo troverò anche senza di te. Saremmo potuti essere la sua famiglia, Cassandra. – e dicendo questo, sgattaiola via dalla finestra, lasciando la donna seduta, fra i singhiozzi del pianto e fra le sue trame di seta, che si dipanano dallo schienale.

 

- Coraggio Pete, puoi fare meglio di così! – la voce di suo padre lo incita, mentre Peter percorre l’intera palestra con un solo balzo, atterrando su una parete e ripetendo la prodezza. Allenamento, così lo chiamano, ma non ha niente a che vedere con gli allenamenti che il giovane studente faceva nel suo liceo, ore di educazione fisica che servivano solo a comprimere la sua autostima. No, ora si diverte a farsi guardare da suo padre mentre corre sulle pareti, in una posizione e ad una velocità impossibile per un essere umano.

- Pensavo a qualcosa…come il ferro! – esclama suo figlio, eseguendo un doppio salto mortale all’indietro.

- Bella pensata, ma puoi fare di meglio. – replica suo padre, mentre lo osserva stendere due sagome con un doppio calcio.

- Allora il rutenio! – suggerisce, colpendo con un pugno un’altra sagoma.

- Troppo raro. – aggiunge suo padre.

- E allora… - afferma suo figlio, afferrando l’ultimo manichino con una presa di wrestling e scaraventandola a terra - …rubidio! –

- Mmm… - suo padre lo guarda con un sorriso – Peter, forse siamo arrivati a qualcosa. –

- Che state combinando voi due? – esclama sua madre, entrando nella palestra.

- Ah…stavo aiutando papà a risolvere alcuni problemi con il suo progetto. Stiamo cercando di creare un coenzima adatto a… - cerca di spiegare Peter, sperando che non si notino i vari manichini stesi a terra intorno a lui.

- Peter Parker, - comincia a dire sua madre – tuo padre mi ha parlato di questa tua…passione per il wrestling… -

- Non è passione! – esclama il figlio - È l’esatto contrario! Io voglio… - cerca di negare, di argomentare, ma sua madre lo ferma.

- Non se ne parla. Semplicemente, non se ne parla. Chiaro Richard? Basta allenamenti. –

- Ok. – risponde suo marito – Almeno per oggi. – fa, sorridendo e cercando di schioccare un bacio sulle labbra a sua moglie.

- Piantala, cretino! – esclama lei ridendo – Dobbiamo parlare di una cosa seria e anche tu, Peter, devi sentire. –

- Cioè? –

- Tuo fratello Ben ritiene di aver preparato adeguatamente la giuria per un verdetto favorevole. –

- Bene! – esclamano quasi all’unisono Peter e Richard.

- Però…però ritiene che Peter dovrebbe uscire allo scoperto. – le sfugge un sospiro – E io credo che abbia ragione. Alla fine…prima o dopo dovrà accadere per forza, dovremo fare i conti con questa cosa e…ed è giusto. –

Seguono ore di discussioni di famiglia, discorsi che nessun genitore vorrebbe fare, sulle possibilità di lasciare lo stato, di usare un’altra persona al posto di Peter, su quali menzogne dire…ma le argomentazioni di Ben sono giuste e in effetti il segreto di Peter Parker sembra proprio impossibile da mantenere in eterno così l’idea di rivelarlo si fa lentamente strada in tutti e tre i membri della famiglia.

 

- Cosa ci fai tu qui? – è l’unica frase che balena nella mente di Spencer Smythe, quando scopre che la persona che lo voleva incontrare, nella sala del parlatorio, è in realtà Otto Octavius.

- Sono venuto a trovarti, Spencer. – mormora piano l’altro, con un sorriso falso, mentre lo sguardo di sdegno del suo interlocutore si riflette sulle lenti oscurate dei suo occhiali da sole – Che tu ci creda o no, la tua sorte mi sta molto a cuore. –

L’ingegnere, già parecchio sottopressione, si accorge solo ora che la sala del parlatorio è deserta, cosa strana dato l’orario. L’ansia aumenta in lui, il respiro accelera.

- T…tu…stai continuando i tuoi…esperimenti sulle braccia… - pronuncia, mentre il suo tono tradisce un minimo di paura.

- Come fai a saperlo? – gli chiede con calma Octavius.

- Gli occhiali d…da sole. – mormora l’altro – L’impianto wireless nella tua corteccia motoria sovraccarica il tuo sistema nervoso…stai sviluppando una fotofobia dovuta all’intenso uso dell’innesto… -

- Come tu avevi previsto. –

- Ci sono…ci sono troppi dati…troppi dati che violentano la tua mente…ti avevo detto che i tuoi nervi cranici avrebbero fatto…q…qualcosa per ridurre la pressione… - balbetta l’altro, ricordando il periodo in cui i due lavoravano insieme.

- Devo ridurre il flusso di dati. A quanto pare Stane e Hammer non sono interessati ad un esercito di soldati ciechi. – mormora Octavius, sistemandosi meglio sulla sedia, rinchiuso nel suo lungo pastrano nero – Stavi lavorando ad un adattatore, tempo fa, non è vero? Mi sarebbe utile sapere dove si trovano i tuoi appunti. – quel tono di Otto è inconfondibile per chi lo conosce bene.

In un attimo, Smythe si slancia verso la porta, per gridare alla guardia che il colloquio è finito, ma non arriva neanche a metà del tragitto che viene sollevato a forza da un tentacolo metallico che si stringe intorno alla sua caviglia.

- Povero stupido, ho pagato le guardie per farsi un giro e spegnere le telecamere, hanno detto che per uno psicopatico come te potevano farlo anche gratis, purché ti dessi una lezione. È così che funziona, Smythe…io sono il genio e tu lo psicopatico. – le frasi denigratorie di Otto si susseguono in rapida successione, mentre tutti e quattro i tentacoli si rivelano da sotto l’ampio pastrano.

- T…tu…tu…sei un ragno! – grida l’ingegnere.

- Non è difficile capire perché ti affidino il ruolo dello psicopatico. –

- Un ragno ha distrutto la mia c…carriera…un ragno… -

- Gli appunti, Smythe! Adesso… -

- …uccidere i ragni…ammazzare…i ragni… -

- Fantastico. – esclama Octavius scuotendo la testa, sbattendo l’altro contro una parete e lasciandolo cadere a terra – Non mi sei di nessuna utilità durante uno dei tuoi crolli psicotici. Facciamo così…ti do ventiquattro ore per farmi arrivare i tuoi appunti…altrimenti pagherò ancora le guardie, ma non per incontrarti da solo. – lentamente, gli arti meccanici si ritirano sotto il pastrano con le movenze dei tentacoli di una piovra – Fossi in te mi riprenderei in fretta. –

Smythe non riesce a vedere Otto che lascia la sala, ha gli occhi chiusi e si è ritirato in un angolo della stanza. È ancora sotto shock quando lo riportano in cella e per qualche decina di minuti non riesce neanche a parlare con il suo compagno di cella, Herman Schulz, che vistosi costretto, gli elargisce più di un sorso di liquore, dalla scorta buona, mantenuta sotto il letto.

- Si può sapere che ti è preso? – gli chiede Herman.

- Ragni. R…ragni, tu non puoi capire. C’è solo una soluzione. –

- Che stai dicendo? Quale soluzione? –

Per qualche secondo, Smythe tace riflettendo in silenzio – Dammi i tuoi progetti…e…e una matita… - mormora, tirandosi in piedi. Comincia così a scribacchiare rapidamente su quei fogli, correggendo i pochi errori di calcolo di Schulz.

- Amico… - esclama l’altro, con gioia, vedendo i vari problemi della sua invenzione risolversi rapidamente.

- Dovrai dotarti di una protezione adeguata. Ti consiglio una tuta integrale imbottita di un fluido non newtoniano, con filamenti di vibranio esterni e un sistema di messa a terra. – l’altro parla a raffica, la sua mente stimolata dalla paura, lavora ad una velocità incredibile.

- Geniale! Assorbirebbe le vibrazioni e mi consentirebbe di muovermi comunque… -

- Voglio il tuo cellulare. – gli dice, semplicemente Smythe – Erano questi i patti. –

- Ehi, certo amico, ma che ci…ehi! – in un attimo, Herman vede il suo cellulare aperto in due parti per mezzo della matita del suo compagno di cella – Immagino di non doverti chiedere cosa stai facendo, giusto? –

- No. – gli dice l’altro, in preda ad un’ispirazione febbrile – Anzi, so che hai rubato dei cacciaviti, dammene uno piatto, poi rompi il mio cuscino e prendi quattro pezzi di ovatta. – il suo tono non ammette repliche, così Herman si ritrova ad obbedire. Il suo cellulare, con il cacciavite ed una limetta per le unghie, viene dissezionato nei suoi componenti essenziali, mentre l’ovatta rimane inutilizzata sul tavolo di lavoro.

- Si può sapere che stai…agh! – in un attimo, Schulz si ritrova a terra, le orecchie che pulsano di dolore per un suono che neanche riesce a percepire. Solo quando le dita di Smythe infilano a forza l’ovatta nei padiglioni del suo compagno di cella, così come aveva già fatto nei propri, il dolore cessa. Tutti nel carcere stanno sperimentando invece quel effetto, le guardie non sono neanche in grado di alzarsi da terra. Herman è semistordito, ma vede distintamente l’uomo che ha corretto i suoi appunti premere i tasti di quella che un tempo era la tastiera del suo cellulare, e avviare una chiamata. Qualche secondo dopo, la porta della loro cella si apre, lentamente, tramite il sistema automatizzato. È a quel punto che Smythe si china verso l’altro e gli dice qualcosa, scandendo le parole con il movimento delle labbra, perché non possono sentirsi con l’ovatta nelle orecchie. Herman è troppo confuso per capire tutto il discorso e l’unica parola che afferra gli sembra inverosimile. Di lì a poco, Spencer Smythe evade indisturbato, passando in mezzo alle guardie con i timpani sanguinanti, e lasciando il suo compagno di cella con una domanda: che cos’è un “ammazzaragni”?