Yuri N.A. Lucia

 

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Distolse subito lo sguardo dalla finestra, serrando gli occhi, come se volesse cacciare lontano da sé una visione molesta.

“Ti prego, si rivolse alla giovinetta che da qualche tempo le faceva da ancella, chiudila.”

La voce era grave, esitante, piegata da una profonda tristezza che fece stringere il cuore della fanciulla.

“Si, mia Signora.” Nascondendo meglio che poté il turbamento per la sofferenza dell’amata padrona.

Tirò la pelle di cinghiale che impediva al freddo  notturno d’insinuarsi e attutiva le voci provenienti da fuori.

Grida selvagge, piedi che pestavano a terra, mense rovesciate per fare posto alla sfrenata orgia che si consumava sulla sommità dell’Olimpo.

“Non sa più cosa sia la decenza.” Disse in un mormorio la Regina degli dei.

“Mia Signora?” Ebe non era certa d’aver capito quelle parole, anche se il senso non le sfuggiva.

La vita della Sovrana degli Olimpi era scandita dai sacri riti a cui, in quanto consorte di Zeus, doveva presenziare. Non c’era giorno in cui non si sacrificassero un cervo o un toro per inaugurare una nuova battaglia o per propiziare l’esito d’una in corso da qualche parte in quel mondo che Zeus pareva intenzionato a tenere saldamente tra le proprie mani.

“Forse ti sembrerà incredibile, fece grave la dea, ma in alcuni momenti sembrava persino capace di gentilezza. Ho voluto pensare, a lungo, che la sua brama, la ferocia di cui è capace, fossero solo le cicatrici lasciate da un padre depravato e mostruoso quale era Crono. Che errore ho commesso! Si lasciò andare in una risata, una risata di scherno verso sé stessa. Ahimè! Delle volte la gioventù sa essere una così maldestra consigliera! Il suo sorriso si raddolcì mentre i suoi occhi si posarono sulla ragazza che invitò a sedere al suo fianco, sul talamo nuziale con un cenno a cui lei, dopo un istante d’esitazione, obbedì. Zeus, piccola mia, è semplicemente figlio di Crono. Non serve dire altro e non saranno le sue belle bugie, i suoi teatri, i banchetti, il vino che fa scorrere a fiumi a nasconderlo. La fuori, gli Olimpi possono anche continuare ad illudersi, il disprezzo espresso nelle parole pronunciate fendette l’aria quasi fosse stata una spada brandita da un guerriero, e possono anche lasciare i loro sensi smorzarsi sotto l’effetto delle misture e delle pozioni a cui molti di loro sono divenuti dediti. Zeus, uccisore di Titani, è il figlio di Crono. È uno di loro. Lo è sempre stato. Lo sarà sempre e, quando arriverà il momento, quando tutti lo capiranno, avrà bruciato tutto quello che c’è intorno a sé, così come fa la folgore che corre al suo comando.”

Carezzò la guancia di Ebe. Un gesto lento, tenero in cui c’era un po’ di benevola invidia per quell’innocenza,  per la freschezza di quel volto così pulito, per quegli occhi limpidi come un cielo estivo. Sfiorò con indice e medio le piccole e carnose labbra che s’atteggiarono in un sorriso confuso ed incerto. Era incredibile pensare ch’ella fosse venuta dai lombi dello stesso dio di cui, poco prima, stava deprecando la selvaggia natura.

La porta si spalancò sotto la spinta violenta di colui il quale entrò barcollando nell’Augusta dimora della coppia reale.

Avanzò con passo incerto, l’otre che penzolava in una mano, sgocciolando quanto rimaneva del contenuto in terra, la barba impiastricciata da umori e cibo, gli occhi azzurri, dell’azzurro innaturale che si poteva ammirare solo negli occhi di chi aveva sangue divino nelle vene.

L’ancella si strinse alla sua padrona, cercando rifugio nel suo abbraccio, nascondendo il volto sulla sua spalla.

Lei, la Regina, invece non cercò riparo da quella vista, non distolse lo sguardo, decisa a non mostrarsi debole.

“Eccola qui, la mia meravigliosa sposa.” Sorrise Zeus. Il sorriso che un gatto, se ne fosse stato capace, avrebbe elargito al topo poco prima di divorarlo. Sornione e cattivo al tempo stesso.

“Sei ubriaco e rechi teco l’odore del tuo scellerato festino. Cosa vuoi? Perché sei qui? Lo rimproverò con gelido astio lei. Forse che le cosce delle tue devote puttane non ti bastano più?

O hai deciso che per stanotte hai tormentato a sufficienza quel povero, sfortunato pastorello che copri da giorni e giorni. Sei venuto qui, arrogante come sempre, per umiliarmi? Per farmi sentire la tua superiore virilità?”

Zeus poggiò l’otre in terra, piegandosi leggermente sulle ginocchia. Parve quasi non riuscire a drizzarsi ma contro ogni previsione, s’erse, schiena dritta, mento alto.

Applaudì divertito: “Moglie mia! Adorata consorte! L’eloquio non t’ha mai fatto difetto e forse questo è uno dei motivi per cui ti scelsi. Tutte erano così condiscendenti con me! Tutte erano così ansiose di compiacere il futuro Re del mondo. Tu sola, mia delizia, m’hai sempre tenuto testa. Tu sola mi sfuggivi, divenendo altera come la lontana luna nei cieli invernali. Accennò ad un inchino, in segno di verace ammirazione. Eppure solo tu, tra tutte, sai essere calda e ardente come e più del sole che nasce dal lontano oriente.” Si toccò i genitali senza nessuna vergogna e non si preoccupò di celare il turgore che cominciava a farsi evidente.

“Non osare!” Sibilò minacciosa lei.

“No? Perché? Che farai altrimenti?” La sfidò.

“Il potere in cui ti crogioli ti ha fatto dimentico della realtà? Quando le sorti della tua guerra contro Crono erano incerte, chi portò presso l’Ara Sacra gli alleati che t’assistettero nella battaglia decisiva? Io. Chi trattò con loro, persuadendoli uno ad uno a prestarti la loro forza? Io.

Chi consacrò la pietra su cui giuraste, uccidendo un toro bianco proveniente dalle lontane isole dell’Egeo? Io! E quanti di quegli uomini e donne che la fuori, adoranti, ti hanno poc’anzi giurato fedeltà, dichiarandoti amore incondizionato, t’avevano invece abbandonato? Io li ho richiamati a te! Io! E tu come mi ripagasti? Mi rinchiudesti in una gabbia d’oro da cui guardare il mondo a cui hai dichiarato guerra, che stai piagando con la tua folle bramosia. Mi hai reso lo zimbello di tutti gli dei, infilando il tuo regale batacchio, indicò la poderosa erezione con un gesto stizzito, in ogni pertugio che trovi disponibile!”

“Lo sai perché l’ho fatto. Sai perché ti tengo qui.Ruttò per liberare l’aria che s’era accumulata ma non di certo per scherzarla o sminuirne le parole. Ti proteggo dalla tua stessa, straordinaria natura. Io e te siamo speciali, moglie. Pochissimi nella nostra stirpe eletta sono stati ulteriormente benedetti come noi.”

“Ed è con questa scusa, accusò lei, che mi hai separata da tutto e tutti e che mi tieni qui, non tua sposa ma prigioniera! M’interpelli solo quando abbisogni dei miei talenti, altrimenti, per te sono poco più d’un passatempo, una bestiola domestica da tormentare.”

Zeus s’avvicinò, facendo istintivamente ritrarre lei che teneva stretta a sé la terrorizzata Ebe.

“Stai parlando troppo, donna.” Ammonì lui.

“Sono la tua prigioniera,insistette invece quella, perché sono la custode dei tuoi più oscuri segreti.”

“Ora hai parlato troppo.”

Separò le due donne e le costrinse contro il materasso imbottito di lana.

“Non farlo …” Singhiozzò lei. Non temeva quello che le sarebbe successo di lì a poco. C’era abituata. Sapeva come cacciare via il dolore e la paura. Ebe invece no. Era solo una ragazzina che ancora non aveva conosciuto l’amore e la passione ed era spaventata a morte.

“Perché no? Perché non dovrei?”

“Perché ti imploro.”

Zeus, soddisfatto per quella vittoria, prese Ebe per un braccio e la tirò a forza su.

“FILA VIA!” Le gridò e subito ella si diresse alla porta ancora spalancata. Sostò, voltandosi, e con gli occhi chiese alla sua padrona che cosa fare. Non desiderava lasciarla lì, sola.

La dea per tutta risposta le sorrise, cercando d’apparire serena, e le disse, senza emettere un solo suono, “Vai”. Riluttante, Ebe obbedì.

Zeus allargò le gambe di lei dopo aver scostato la tunica che indossava. Osservò con desiderio le carni sode e la pelle levigata della sua bellissima sposa.

La possedette per quello che rimaneva della notte, mentre lei non pianse. Mai. Nemmeno quando, in preda ad un irrefrenabile impulso, la ricoprì prima d’insulti e poi, mentre ghignava, la riempì di botte.

Nonostante tutto la Sovrana s’avvide che non erano soli. Una figura stava all’uscio, fissando entrambi con odio bruciante.

Gli sguardi s’incrociarono e a lei parve di sentire: “Te lo sei meritata”.

Serrò nuovamente gli occhi per cacciare via le visioni e per darsi l’illusione di non esser veramente lì.

 

Il trio s’avvicinò all’uomo che osservava quello che un tempo era stato un vigoroso e bell’olivo. Un tronco spezzato ed annerito era tutto quello che ne rimaneva.

“Lo sapevate che questo fu piantato da mio padre? Per celebrare la prima vittoria contro i Titani.” Fece mesto.

“Lo sappiamo.” Disse la donna che avanzava verso di lui.

“Distrugge tutto. Lo fa senza quasi accorgersene. È come il fuoco. Sembra così bello, luminoso e caldo, eppure alla minima distrazione, divora rapido tutto quello che gli sta intorno.”

“Bentornato a casa, vecchio Sileno!” Fece allegro il giovane magro, per smorzare la cupezza di quel momento.

“Grazie, mio buon Hermes.”

“Bentornato tra gli Olimpi!” Salutò la donna.

“Grazie a te, nobile Athena.”

“Sbrighiamoci! Non sappiamo quanto quel porco rimarrà addormentato, stordito dal banchetto e dall’orgia.” Tuonò Ares.

Sileno sorrise. Il dio che guidava le cariche della più potente armata di Zeus, non cambiava mai.

Ares gli ricordava pericolosamente il Sovrano degli dei. Era folle e selvaggio quanto lui ma, a differenza di Zeus, Ares aveva qualcosa che ne mitigava la natura distruttrice.

Athena toccò con gentilezza la spalla di Ares che subito parve quietarsi.

I quattro iniziarono il loro colloquio privato, lontani da occhi ed orecchie indiscrete:

“Qual è la situazione?” Chiese Sileno.

“Quella che lasciasti, fece Ares, solo più grave, se possibile.”

“Siamo in guerra con tutto e tutti, fece seria Athena, ormai è impossibile trattare pace o anche solo tregue con gli altri immortali e con gli eserciti a loro fedeli. Nessuno si fida più di Zeus. Non dopo quello che ha fatto a Sisifo.”

“Ci sono troppi fronti, si lamentò Ares, il campo di battaglia è il mondo intero! Ovunque avanziamo troviamo solo nemici ostili.”

“Ovunque passiamo, aggiunse Athena, lasciamo solo morte e distruzione.”

“Internamente, intervenne Hermes, le cose non sono migliori. La fedeltà dei mortali alla causa di Zeus è largamente dettata dalla paura che nutrono nei suoi confronti ma i loro re sono stanchi di soddisfare le sue crescenti richieste di uomini e materie prime, senza contare i sacrifici imposti per il culto della sua persona. Non hanno ancora trovato la forza di ribellarsi ma se un qualche nemico esterno dovesse far leva sul loro malcontento offrendogli sostegno e protezione, ci ritroveremmo con un bel problema nella nostra stessa casa.”

“Credevo che Ellenio gli fosse fedele.” Osservò Sileno.

“Ellenio lo è. Non può però tenere a bada l’intera terra che Zeus ha chiamato con il suo nome per celebrarne la lealtà: l’Ellade; Il più valente generale dei mortali ha vita difficile di questi tempi e deve fare i conti con lotte intestine e vecchie rivalità mai del tutto sopite.”

“Questo Impero, commentò con grande serietà Athena, ha confini assai mutevoli ed irregolari. Ogni giorno cambiano e pare quasi d’assistere all’espansione incontrollata d’uno di quei cancri che tormentano le carni dei mortali.”

Sileno assentì con gravità. Non s’era aspettato certo parole diverse anche se l’udirle l’aveva ugualmente scosso. Guardò Ares negli occhi e gli disse: “Rimani dello stesso avviso? Condividi ancora la nostra causa?” Anche da lui s’era aspettato le parole udite ma mai che sarebbero state pronunciate con tanta convinzione, senza neppure cercare lo sguardo d’Athena.

“Si”.

“Devo sapere una cosa, Ares. Perché lo stai facendo? Tutto sommato tu hai tutto quello che vuoi. Non hai mai aspirato al trono. Sei un soldato nato e puoi combattere tutte le battaglie bramate dal tuo animo inquieto. Puoi sfogare la tua forza mostruosa sul campo di battaglia, strage dopo strage. Molti militari, ti adorano in segreto, un culto proibito di cui Zeus sa ma che tollera, visto il tuo ruolo di Signore della Guerra. Allora perché? Perché assecondi la nostra causa?”

Sileno sapeva che era stata Athena a convincerlo. Era per lei, e solo per lei che si era, segretamente, rivoltato al Re degli Olimpi. O almeno così pensava.

“Perché è giusto farlo. Perché c’è una differenza tra il combattere una, dieci, cento persino mille battaglie e condurre una campagna infinita, in cui non esistono più tregue, in cui non c’è più il rispetto dell’onore, in cui soldati, vecchi, donne e bambini sono egualmente vittime.

Ho sete di sangue, Sileno. Non di così tanto sangue però.

Zeus è fuori controllo, persino più di me. Il mondo non ne può più. I campi sono coperti d’erbacce e gli armenti muoiono nelle stalle e nei recinti perché tutti gli uomini forti, anziché occuparsene, sono a morire su di un fronte che cambia ogni giorno. Gli orfani aumentano e gli indigenti sono divenuti una legione. No. Non posso essere complice di questo.”

Forse persino Athena era rimasta sorpresa da quelle parole. Hermes lo aveva osservato come se non lo riconoscesse. Sileno sorrise soddisfatto e gli dette una pacca sulla spalla.

“Sei un bravo ragazzo. Un macellaio sanguinario, si ma in te c’è del buono.

Amici, fratelli, ormai il momento è quasi giunto. Il piano sta per compiersi.”

“Andrà come tu hai stabilito?” Chiese Hermes.

“Mi stai chiedendo se usciranno ai dadi i numeri su cui hai scommesso.”

“Se uso i miei dadi, so sempre che numeri usciranno.” Sorrise malizioso il ragazzo.

“Diciamo che sto cercando di usare i miei allora. Piuttosto dovremo essere pronti per il dopo. Se l’impresa riesce, non potremo non fare i conti con quello che ci aspetterà.”

“Di quello, come d’accordo, me ne occuperò io.” Rassicurò Athena.

“Molto bene. Allora, direi che per ora è tutto. Rechiamoci in Olimpo, dove il Signore del Cielo e  della Terra tra poco vorrà consultarci, per avere il nostro cieco consenso ad uno dei suoi scellerati piani di conquista.”

Il quartetto s’incamminò per un sentiero che arrivava fino ad un ingresso segreto, ai piedi dell’Olimpo, da dove avrebbero salito la scalinata che portava alla Città degli dei.

 

 

Yuri Lucia

 

Presenta:

 

 

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3

 

I

 

Villa Athene, California – 23 Settembre

 

Tamerlano Tiger fintò un paio di volte, cercando di cogliere di sorpresa il ragazzo. Ci andò piano, non voleva esagerare. Notò con piacere che quello tentava di non perdere d’occhio i movimenti fondamentali del corpo, così come gli aveva insegnato, per non farsi distrarre e sorprendere dall’avversario. Billy Batson aveva un buon colpo d’occhio, abituato ad avere a che fare con i bulletti che, arrivato all’istituto dove aveva vissuto per due anni, avevano cercato di metterlo sotto.

Era ancora malconcio per lo scontro al Centro Commerciale, per cui sia Cee Cee che Beck s’erano presi una bella ramanzina da Simon Azam. Simon non era in villa. C’era il collaudo con i militari quel giorno.

Tamerlano aveva messo sotto Billy. Corsa, flessioni, addominali e poi gli incontri in palestra.

Utilizzavano dei guanti tagliati, per insegnargli anche le prese.

“Una buona presa, può mettere in difficoltà il tuo avversario e se sei rapido, puoi causargli seri danni e tornare ad occuparti di eventuali altri.”

Con un gancio lo mandò a terra ma Billy si rialzò determinato a non cedere.

Cercò di andargli contro, di insinuarsi nella sua guardia, portando dei veloci colpi al ventre.

Era bravo, non poteva negarlo. Aveva la giusta grinta e non si lasciava abbattere.

Tamerlano gli sferrò un calcio alla spalla, costringendolo nuovamente a terra.

“Pausa?” Gli chiese.

Billy s’alzò madido di sudore, il respiro pesante, barcollando leggermente. Erano venti minuti buoni che lo teneva impegnato in quel combattimento.

Tamerlano Tiger fissò con attenzione gli occhi di Billy. Cercò, come se volesse con lo sguardo arrivargli sin nel più profondo dell’anima. Era stato come una scintilla, meno di una frazione di secondo, troppo poco per dire se fosse stata autentica o solo il frutto della sua immaginazione.

“Continuiamo.” Chiese Billy con un sorriso entusiasta sul volto.

Tiger assentì, anche se non completamente convinto.

“Come ti trovi qui in villa?” Incrociarono i pugni un paio di volte. Teneva bene le guardie, anche se faticava. Non aveva ancora l’allenamento necessario ma stava facendo ottimi progressi.

“Benone.” Annaspò un poco nel dare quella risposta e subito tentò un affondo al plesso solare.

Cercava di raggiungere punti sensibili. Tiger se ne compiacque.

“Tra due giorni inizierai la scuola.”

“Dove andrò?”

“Los Angeles.”

“Los Angeles?”

“Non ti piace?”

“La mia prima esperienza con la città non è stata propriamente positive. S’indicò il livido sul volto.”

“La seconda potrebbe essere migliore.”

“Lo spero perché peggio di così c’è solo l’accoltellamento.”

Fece partire un veloce assalto, sfoggiando energie di cui Tiger non aveva sospettato. Cercava di agire con astuzia, risparmiando le forze e utilizzandole per attacchi veloci e mirati. Lo bloccò con un paio di colpi alla testa protetta da un caschetto. I due cercarono di afferrarsi vicendevolmente.

Billy tentò di portare delle ginocchiate ai fianchi di Tamerlano così come questi lo aveva esortato precedentemente a fare. Finì ancora una volta a terra.

“Vedrai che ti troverai bene e che dimenticherai quella brutta vicenda.”

“Lo spero.”

I due proseguirono nell’allenamento per un altro quarto d’ora buono.

 

Tamerlano sedette alla scrivania di Simon, lì nell’ufficio dove più di una volta avevano discusso dell’adozione di Billy Batson.  “È troppo piccolo.” Aveva obbiettato più d’una volta.

“Proprio perché è giovane lo possiamo modellare come con la creta.” Si era sentito rispondere.

“Il discorso fila solo se gli dai il tempo di maturare ma tu hai in mente tempi troppo brevi.”

“Ha del talento, ne sono sicuro.”

“Ne fai una questione di genetica.”

“Ho perso lei. Non lascerò sprecato il suo potenziale.”

“Lo stai condannando.”

“E che dovrei fare?”

“Chiuderla qui. Forse dovremmo chiudere tutta questa storia. Forse dovresti essere tu l’ultimo e, quando sarà il momento, deciderti ad andare a quella maledetta clinica e piazzare un proiettile in testa a quel …” avrebbe ricordato per tutta la vita quello sguardo. L’aveva fatto sentire colpevole e sporco. Non avrebbe dovuto dirgli una cosa tanto crudele. Azam gli disse solo:

“I tempi sono cambiati. Sta per succedere qualcosa. Qualcosa che va oltre le nostre capacità di comprensione. Un’era folle quanto quella in cui iniziò tutto questo sta per cominciare. Credi che tante generazioni di uomini e donne votate al sacrificio siano state vane? Credi che fossero mossi solo da vanità o desiderio? Io stesso, sono stato testimone di accadimenti straordinari.

Potremmo far finire tutto, subito, ora. Potrei fare quello che tu mi dici e poi, piazzarmi una pallottola qui, nella testa. Si picchettò con l’indice la tempia. E poi? Poi avremmo perso forse l’unica cosa che potrebbe salvare l’umanità intera dalle tenebre.”

“Oppure affondarcela definitivamente.” Rispose lì, nel presente, Tamerlano Tiger.

Guardò il telefono e pensò di chiamare Simon per parlargli ma lui era impegnato con i test.

Si disse che forse s’era ingannato. Non aveva visto davvero ciò che aveva creduto.

 

 

II

 

Deserto della California, Sito A – 23 Settembre

 

Fece un cenno d’assenso a Sivana che rispose con un ok.

“Guardi bene, Generale Stevens. Guardi il futuro.” Avvertì Simon l’alto graduato che gli stava di fianco.

Taddheus sfiorò un tasto sulla plancia di controllo lì, nella torre d’osservazione dove si trovavano.

 

L’apache cercò di inquadrare il bersaglio ma quello si muoveva velocemente nella sua corsa a zig zag attraverso il deserto.

“Non riesco ad mettermelo nel mirino e anche il computer fatica ad agganciarlo. Confermò il pilota via radio. Si muove ad una velocità approssimativa di cinquanta, sessanta chilometri orari ma cambia continuamente direzione.”

Dumso bloccò la sua avanzata e, a sorpresa, spiccò un possente balzo, appiattendosi prima a terra e poi dandosi slancio con ambo le braccia mentre si proiettava verso l’alto, balzo la cui traiettoria fu rafforzata dall’unità propulsiva montata sulla schiena. Una fiammata, quattro secondi circa che aumentarono la sua accellerazione. Arrivò lì, attaccandosi al parabrezza della cabina di pilotoggia. Aveva fatto in modo di non schiantarcisi contro e le sue dita in fibra di carbonio gli garantivano una salda presa che gli impediva di scivolare. Un piede sul cannoncino vulcan ed uno sul vetro era lì, perfettamente immobile.

“Gesù santissimo!” Esclamò il fuciliere che era seduto sul sedile posteriore. Il pilota non si fece prendere dal panico. Tentò subito di compensare il peso in eccesso che si ritrovava l’elicottero. Era un veterano ed era stato avvertito che quel mostro avrebbe tentato qualche trucco folle. Non poteva crederci. I freddi occhi della macchina osservavano i due umani all’interno. L’ordine era quello di raggiungere l’elicottero, non di distruggerlo.

Quel veicolo apparteneva allo schieramento del robot così come i due occupanti.

Non doveva danneggiarli.

Si staccò, lasciandosi cadere a terra, trenta metri più in basso, ammortando la caduta grazie alle molle in acciaio contenute nei piedi e riprese la sua corsa.

Alcuni caccia carri si erano messi alle sue costole, correndo veloci sulle sei ruote motrici. Erano più veloci di lui ma quello contava su una maggiore capacità di manovra. Tentarono di bersagliarlo con i cannoncini mobili ma i proiettili lo mancavano sempre per un soffio.

Dumso usò il suo fucile mitragliatore per spaventare gli inseguitori, ottenendo l’effetto aspettato.

Quelli ruppero la formazione e lui gli fu addosso in breve. Toccò i due veicoli, un colpo leggero alle rispettive fiancate, senza danneggiarli, e andò a fronteggiare l’ultimo ostacolo.

I droni erano stati armati con missili anti-blindato e cannoncini vulcan.

Dumso offriva uno scarso bersaglio, difficile da tenere sotto tiro. Quello era uno dei suoi elementi di forza. Uno. Il primo drone l’abbatté sparandogli una raffica che colpì nelle zone meno corazzate. Teneva fermo il fucile mitragliatore, utilizzandolo con una precisione chirurgica che un umano non avrebbe potuto sfoggiare. Lasciò cadere in terra il nastro vuoto e lo sostituì rapidissimo con uno che stava nello scomparto che s’aprì all’altezza di quella che in un uomo sarebbe stata la spina iliaca.

Fece in modo che il secondo ed il terzo drone s’abbattessero vicendevolmente, lasciandosi accerchiare. L’unità propulsiva lo portò via alla velocità di quasi 120 chilometri orari proprio prima che i missili s’abbattessero su di lui.

Volò, tornando lì da dove era venuto. Atterrò sul tetto della torre e dopo aver aperto uno sportello scassinandolo con un grimaldello contenuto nell’indice sinistro, si lasciò cadere al centro della sala, dirigendosi verso Stevenson: “DA QUESTO MOMENTO LEI È SOTTO LA CUSTODIA DEL GOVERNO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA. NON TENTI NESSUNA REAZIONE OSTILE. NON TENTI LA FUGA. EVENTUALI TENTATIVI DI SUICIDIO SARANNO SCORAGGIATI SUL NASCERE.

Stevenson alzò le mani, in segno di resa, strappando ai presenti delle sonore risate.

“Lei ed il suo Sivana siete dei maledetti geni, Azam. Lo sa che sta per diventare ricco? Intendo più di quanto già non lo sia.” Disse allegramente il Generale.

“Speravo di sentire questa notizia.” Simon fece l’occhiolino a Sivana che sorrise compiaciuto.

 

AX-1, detto Dumso, non aveva certo un aspetto pericoloso o tanto meno particolarmente inquietante. Non corrispondeva, con il suo metro e settanta, all’immagine del robot killer tramandata dai film di fantascienza e se non fosse stato per la livrea mimetica più che un’arma dell’esercito sarebbe potuto passare per un qualche stravagante giocattolo in esposizione in un centro commerciale durante le festività natalizie.

Quel genere d’attrazione piazzata all’ingresso per attirare clienti, far parlare la stampa locale e divertire i bambini.

Dumso aveva linee arrotondate, morbide, per ridurre l’attrito con l’aria specie in fase di volo, e mentre stava lì, in posizione di riposo, braccia lungo i fianchi, ginocchia leggermente piegate, aveva un aria vagamente comica con il volto inespressivo dai grandi occhi, il cui diaframma era chiuso, e quelle strane gambe, simili a protesi cheetah.

La maschera facciale era provvista di una striscia più scura che simulava una bocca stilizzata, costituita da una rivestimento a micro celle attraverso cui passava la voce di dumso.

La testa era allungata, la forma ricordava quella dei caschi usati nel ciclismo o nelle gare con il bob. Sulla schiena un rigonfiamento, una protezione che poteva essere rimossa facilmente per installare l’unità propulsiva che gli consentiva di volare con un’autonomia di venti minuti, un vero record, ad un’altezza di 700 metri e ad una velocità di massima di 250 chilometri orari.

Le mani erano forse la cosa più notevole ed impressionante del robot: sembravano quasi del tutto umane, anche se erano fatte di fibra di carbonio e titanio; con quelle mani dumso poteva accendere un fiammifero, adoperare un cacciavite, chattare se fosse stato programmato per farlo, o sparare con il suo fucile-mitragliatore Combat A1, ideato per lui, un’arma che combinava tecnologia classica ed una nuova versione di quella ad impulsi che era allo studio, capace di forare senza problemi la blindatura di un Abraham e che avrebbe staccato, per via del contraccolpo, il braccio dall’articolazione della spalla anche ad un culturista.

Stevens guardò ammirato Dumso, che se ne stava lì, come in attesa di ricevere un ordine da eseguire.

“Le dispiace se fumo?” Chiese con il tono arrochito dal tempo e dalle sigarette.

“No, faccia pure.” Concesse amichevolmente Simon Azam.

“Meno male. Per un attimo, confessò allegramente, ho pensato potesse essere uno di quegli esaltati salutisti che hanno preso il controllo del mondo. Ne vuole una? Offrì porgendo un elegante porta-sigarette in argento, un oggetto di squisita fattura che Azam apprezzò e da cui, dopo aver accettato ringraziando, trasse una sigaretta. Aspetti, gliela accendo io.”

Il Generale aveva modi affabili ed era una persona gioviale, in contrasto con l’aria burbera che i pesanti, ad antiquati, mustacci che sfoggiava, unitamente alla corporatura massiccia, gli conferivano. Entrambi, trassero una boccata di fumo che riversarono in una sottile colonnina che salì verso l’alto, verso l’impianto di areazione, lì nell’ufficio privato di Simon Azam nell’Istallazione nota come sito A, la base dove per due anni si era lavorato alla realizzazione del robot, testandone le capacità e perfezionandolo.

“Allora? Che mi dice Generale? È soddisfatto del nostro campione?” Indicò con il capo AX-1

“Soddisfattissimo. Il suo Sivana gongolava con un bambino.”

“Non posso dargli torto. È merito suo se AX-1 è una realtà e non solo un mero progetto su carta.”

“Cosa ne è stato della proposta del nome Mr. Atomic?”

“Ringraziando il cielo ho convinto Thaddeus ad accantonarla! Ha un pessimo gusto in fatto di marketing ma è un uomo intelligente e ragionevole. Mi è un po’ dispiaciuto perché si meritava di poter dare il nome che preferiva alla sua creatura ma Mr. Atomic mi è sembrato davvero troppo difficile da far digerire all’opinione pubblica.”

“Che tra poco verrà a conoscenza di AX, visto che presto ci sarà la presentazione ufficiale.”

“Abbiamo già in mente una data?” Azam si grattò con il pollice il naso, la sigaretta tra indice ed anulare.

“Un mese a partire da oggi. A Washington scalpitano, Azam. Il Governo in carica è andato su promettendo il ritiro dalle zone calde. Promesse da marinaio. Siamo ancora lì ed il numero di morti è aumentato. Succede così quando si gestiscono in maniera dilettantesca le cose serie. Non bastano gli slogan o i sorrisi vincenti. Il Presidente probabilmente non verrà rieletto ma potrebbe salvare il partito da una bella batosta se mandassimo il ragazzo qui a combattere in medi oriente al posto dei nostri soldati. Lo sappiamo che non potremo rimpiazzare completamente l’uomo e che ci vorrà del tempo per avere una presenza massiccia di dumso sul campo di battaglia ma è un inizio. Per loro è tutta pubblicità.”

“Detto tra noi, Generale, lei mi è sempre sembrato diverso dagli altri militari con cui ho trattato. Vuole bere qualcosa? Ho dei liquori per le grandi occasioni o per quando voglio dimenticare qualche guaio.”

Stevens sorrise sornione, annuendo con il capo. Azam trasse dalla spartana scrivania che aveva fatto portare lì due anni prima una bottiglia di scotch ed un paio di bicchieri. Ne teneva sempre uno in più per un eventuale ospite. Riempì generosamente entrambi i bicchieri e ne porse uno all’Ufficiale che lo alzò in segno di brindisi.

“Ad AX-1.” Esclamò. Fece tintinnare il bicchiere contro quello di Simon e poi ingollò un po’ della bevanda, assaporandola con piacere. Sono diverso, Signor Azam, perché a differenza di alcuni miei colleghi, sul campo di battaglia ci sono stato e perché, sostanzialmente, non ho ambizioni politiche. Delle volte non capisco nemmeno come ci sono arrivato al grado di cui godo attualmente. Non ci crederà ma non ho mai leccato il culo a nessuno per ottenerlo.”

“Le credo.” Simon lo scrutò. Era un uomo sincero, questo gli diceva la sua esperienza.

“Vuole sapere che cosa penso? La verità?”

“Diciamo che sono curioso.”

“Se fosse per me, riporterei subito a casa tutti i nostri ragazzi. A chi abbiamo fatto guerra? A gente che non ha nulla, Azam. Gente che vive nella polvere e tra la sabbia da generazioni, che in mezzo a quella polvere e sabbia riesce a sopravvivere con un goccio d’acqua scovato chissà sotto quale sasso. Non sono come noi. Non come me e lei. Non sono come gli occidentali. Il loro mondo è completamente diverso. Parlarci, dialogarci è una stronzata da radical chic, si dice così credo, da quattro soldi. Non c’è dialogo. Non c’è possibilità di ragionarci. Se gli dai un fucile in mano, anche quegli scarti che hanno loro, diventano invincibili a casa loro. Tu gli corri a presso per prenderli a schiaffi ma quando sei entrato nel loro territorio, sei tu a prenderli gli schiaffi. Pensi solo a quello che gli afghani hanno fatto passare ai russi. Santo Cielo! I russi non erano certo gente che scherzava e non ci sono andati leggeri con quelli lì! Eppure non sono riusciti mai a piegarli. Che possibilità abbiamo noi che siamo legati da vincoli politici ed esigenze di comportamenti politcamente corretti? Zero. Non vinceremo mai. Non Afghanistan. Non in nessuno di quei fottuti scatoloni pieni di nulla che chiamano medioriente. Sa qual è l’unico modo di ottenere una vittoria? Lo sa?”

Azam vide che il suo volto s’era indurito. Lo sguardo s’era fatto cupo e triste.

“No. Mi dica Generale.”

“Dovremmo gasarli tutti. Dal primo all’ultimo. Vecchi, donne e bambini. Soprattutto i bambini perché crescendo poi cercherebbero la vendetta. Non lo abbiamo fatto in Vietnam con i charlie e non lo faremo nemmeno qui. Si versò altro liquore. Dumso non ci farà mai vincere questa guerra impossibile, perché non siamo disposti a fare tutto quel che dovremmo. Loro sono disposti a morire, dal primo all’ultimo. Noi non abbiamo il coraggio di convivere con il peso dell’unica scelta tatticamente giusta. Quello che farà Dumso sarà continuare a combattere una serie di battaglie che si risolveranno come la proverbiale battaglia di Pirro. Catturerà per noi qualche capo terrorista, tamponerà qualche iniziativa ostile qui e là e basta. Quello che mi interessa, che mi interessa veramente, è che potrò mandarlo a combattere al posto dei miei ragazzi. Posso chiedere loro di morire per una ragione ma per una guerra persa in partenza no. Non me ne frega un accidenti se sarà un costo addizionale sul groppone dei contribuenti. Sono stanco di contare il numero dei morti sui bollettini. Se cento di questi cosi potesse salvare anche solo uno dei miei, non ci penserei su due volte a rapinare personalmente una banca per procurarle i soldi necessari a costruirli.” Ingollò altro scotch.

“Ha mai esternato le sue perplessità ai piani alti?” Chiese Azam.

“Un Generale, Azam, non deve mai avere perplessità, a meno che non voglia un pensionamento anticipato e se andassi in pensione, tremo all’idea di chi potrebbero mettere al mio posto.

Sa che cosa rende gli USA una nazione?”

“La bandiera, la Costituzione e la torta di mele?”

Stevens rise di gusto battendosi il ginocchio con la mano.

“Non ci avevo mai pensato alla torta di mele, sa? Agitò l’indice verso Azam, quasi a dirgli vecchio briccone, la sai lunga. Prese un altro sorso. Forse la torta di mele sarebbe la risposta giusta ma non era quella che avevo in mente. La bandiera? È un pezzo di stoffa. Colorato, bello e ci associamo tante belle idee quando lo vediamo. La Costituzione? Ci sarebbe molto da discutere.

Quando un manipolo di Stati pensò che fosse stata disattesa cercò la via dell’indipendenza.

Se lo ricorda vero?”

“Mi pare che si sia chiamata Guerra Civile la parentesi storica che sta citando.”

“Si. La storia gli ha dato torto, facendoli passare dalla parte dell’errore ma se ci si riflette a mente serena, non avevano forse ragione? Non erano forse state tradite le premesse della Costituzione con il rafforzamento progressivo dello Stato Centrale e la prevaricazione della autorità locali? Unica ed indivisibile sotto Dio ma ogni Stato, ogni singolo Stato doveva essere libero nelle sue decisioni locali. Non è stata una questione di pro o contro lo schiavismo. Molti sudisti in realtà erano anti-schiavisti ma era una questione di principio. Il principio della libertà. Il mio bisnonno, era un colonnello della cavalleria confederata. Non lo dica a nessuno però!”

Risero entrambi. “Manterrò il segreto.” Promise Azam.

“No, mio caro. Né la costituzione, né la bandiera ci rendono una nazione. Chi vive in Florida, non si sente un cittadino degli USA, tranne quando deve mostrare il passaporto da qualche parte. Così come chi vive a New York City o a Los Angeles non sente certo di appartenere a chissà quale superiore realtà nazionale. Azam, ci sono contee, città a statuto speciale, regioni dove chi ci vive non si cura troppo dei propri vicini. I telefilm e le sit-com ci fanno vedere gente che si sposta da uno stato all’altro come se nulla fosse, che va a vivere di continuo in altre città dal capo opposto del territorio rispetto a dove vive ma è fasullo. Si, ci sono le persone che si spostano è vero ma quante sono rispetto a chi, da generazioni, vive nello stesso luogo senza essersi spostato mai se non di pochi chilometri? Sa cosa ricucì lo strappo tra gli Stati Uniti e quelli Confederati? L’Esercito nordista. Riconquistò il sud, lo occupò militarmente e si curò che s’insediassero governi fantoccio. Ed eccoci qui, un'unica Nazione. È la forza che tiene insieme gli USA, Azam. È l’Esercito, oggi come allora. È la necessità di avere una difesa comune. Perciò di nuovo a Dumso! Alzò il bicchiere verso la macchina. Che ci porta in una nuova era. Un’era in cui forse qualche bravo figlio o padre di famiglia, o figlia e madre di famiglia, sarà risparmiato dal dover compiere l’estremo sacrificio.”

Simon Azam brindò con Stevens e gli parve di capire solo allora quanto grande dovesse essere il peso che quell’uomo si portava di continuo sul cuore e che teneva nascosto dietro i suoi modi bonari a tutto il mondo.

 

III

 

JFK School, Los Angeles, California. – 26 Settembre

 

 

“Siete impazziti!” Gli aveva detto Billy quando Tamerlano Tiger gli disse il nome della scuola. In realtà gli ci vollero dieci minuti per ricordarsi dove l’aveva già sentita nominare e quando l’associò al pazzo che l’aveva aggredito al centro commerciale ebbe un sussulto.

“Mi dispiace ma la scuola era stata già stata scelta. Non avevamo idea che fosse frequentata dal tipo che ti ha dato un pugno. Ascolta, è un istituto grande, ci sono sia medie che superiori e sicuramente non lo incontrerai più. Se dovesse succedere, parleremo subito con chi di dovere.”

Tarmerlano, per la prima volta, sembrava a disagio mentre parlava con Billy.

“Certo! Dopo che mi avrà di nuovo spaccato la faccia!” Protestò mentre s’indicava il labbro tumefatto.

Non c’era stato verso di convincerli a fargli cambiare scuola. “Hai perso sin troppi giorni”, era stata la giustificazione che telefonicamente gli aveva dato Azam. Non lo vedeva da una settimana, impegnato a condurre affari con il Governo.

Respirò profondamente, cercando di mantenere la calma. Camminò lungo i corridoi, guardandosi a destra e a sinistra. Era stato colto del tutto impreparato al loro primo incontro e non voleva ripetere l’esperienza. Certo, si disse, data la differenza di stazza tra di loro anche se gli avesse mandato una e-mail per avvertirlo, avrebbe difficilmente potuto sostenere il confronto. Sarebbe finito a terra lo stesso ma forse, si disse, sarebbe stato meno traumatico. Non era la prima volta che veniva malmenato ma forse quella era stata la peggiore batosta mai subita.

Entrò in classe, salutando i presenti che lo accolsero con indifferenza. C’era abituato. Alla scuola dell’istitituto era stato lo stesso il primo giorno, tranne per il fatto che l’indifferenza s’era protatratta con gelida ostinazione per tutti e due gli anni di permanenza.

L’insegnante di Storia fu invece gentile. Era un uomo di bell’aspetto, vestito in modo sportivo, sulla quarantina. Lo invitò a prendere posto ed iniziò la lezione, l’argomento era la Rivoluzione Industriale in Gran Bretagna. Il tono era piacevole e sapeva rendere l’argomento interessante, sebbene Billy non ne sapesse praticamente nulla.

Il primo impatto era andato bene. Doveva trasferirsi di classe per seguire economia domestica.

“Hey! Tu!”

Provò un brivido alla schiena ma trovò la forza di girarsi ostentando una certa sicurezza.

La finta bionda del centro commerciale stava lì, libri e quaderno legati insieme da un elastico color verde acqua marina, stretti al petto, lo sguardo fisso su di lui.

“Hey, tu.” Salutò lui. Si chiese se non potesse sembrare un tentativo di scimmiottarla. Decise che non aveva importanza.

“Che ci fai qui?” Chiese lei.

“Sembra che ci debba studiare, fino a quando il tuo ragazzo non deciderà di ammazzarmi. Perché anche lui frequenta qui, vero?”

“Vero ma sei fortunato. Sta al penultimo anno e frequenta le lezioni che si tengono nell’altra ala della scuola.”

“Sono nato con la camicia allora.” Fece sarcastico.

“Oddio! Si vede ancora!” Disse lei guardando il segno sul labbro.

“Hai visto? Mi ha lasciato una bella firma.” Billy non poté non far trapelare un po’ di risentimento.

“Senti, è vero che nel negozio mi sono comportata da stronza, l’ammissione era franca, cosa che lasciò Billy sorpreso, ma stavo solo giocando! Gesù, lo faccio spesso! Mi diverto a fare l’acida con la gente! È un modo divertirsi idiota, lo so ma è solo un gioco! Capisci? Quelle stronze delle mie ex amiche hanno detto a Kyle che uno ci aveva provato con me! Non ti avrei mai mandato dietro quello stronzo, credimi! Hanno pensato che fosse divertente farlo ingelosire!”

“Kyle? Si chiama Kyle l’armadio che mi ha pestato?”

“Si.” Fece lei vergognandosi al pensiero di quello che era successo. Non sembrava più la ragazza spavalda del negozio.

“Kyle ha vinto qualcuna delle partite che mi parlavi contro le scuole di Berkleey?”

“Si.” Abbozzò un mezzo sorriso che le diede, per qualche istante, l’aria di una gioconda liceale.

“Hai detto ex amiche.”

“Non potevo sopportare di continuare ad uscire con delle bastarde del genere.”

“Non hai detto ex ragazzo.”

“I nostri rapporti si sono freddati ma…” Si bloccò. Si chiese come mai stesse dicendo qualcosa di tanto personale a quello sconosciuto. Era combattuta. Da una parte era come se fosse in credito nei suoi confronti.

“Non ti preoccupare, concesse Billy con un sorriso, mi va bene così. Non sono fatti miei.”

“Scusami.”

“Scuse accettate.”

“Mi chiamo Mary. Mary Bromfield.Billy s’irrigidì un attimo. Tutto bene?”

“Si. Tutto ok. Ti dispiace? Ho lezione tra pochissimo e non vorrei fare tardi.”

“D’accordo. Volevo solo sapere se…”

“Siamo pari.” La rassicurò lui prima di voltarsi ed andarsene.

Camminò lungo il corridoio, il cuore che gli batteva all’impazzata.

Sentire quel nome gli aveva fatto ripensare a sua sorella. Una cicatrice che pensava fosse chiusa aveva ripreso a sanguinare e provò una fitta di dolore che percorse la sua anima.

Si sentì stupido per aver provato paura. Paura di essere nuovamente picchiato da Kyle.

“Che cazzo di nome di merda.” Ringhiò tra i denti.

 

Kyle si piegò per bere alla fontanella, lì nel cortiletto dietro la scuola dove andava tutti i giorni a passare un po’ di tempo durante la ricreazione.

Prima ci andava con Mary ma da quando avevano litigato le cose tra loro si erano raffreddate parecchio.

“Sei una merda! ERA LA METÀ DI QUANTO SEI TU E NON CI HAI PENSATO DUE VOLTE A DARGLI QUEL PUGNO!”

Quelle parole gli risuonarono dentro la testa più e più volte. Aveva ragione. Non c’era ragione di fare quello che aveva fatto. Si era comportato da vera carogna e da vigliacco. Prendersela con qualcuno di indifeso non era da lui. Poteva magari fare il gradasso con qualche nerd o qualcuno delle medie ma non era mai arrivato a tanto. Avrebbe potuto ammazzarlo e tutto perché non sapeva controllare la sua gelosia. Si disse che, se avesse potuto, gli sarebbe piaciuto fare le proprie scuse a quel tipo.

La maglietta gli calò sulla testa subito dopo che il violento calcio alla piega del ginocchio lo fece finire a faccia in avanti, contro la fontanella da cui stava bevendo.

Sentì chiaramente un paio di denti spaccarsi, anche se non avrebbe saputo dire quali.

Qualcuno gli saltò di peso sulla schiena, facendogli sbattere la fronte contro la pietra.

Il sangue s’insinuò tra il tessuto che tirato lo avvolgeva impedendogli di vedere, scivolando lungo il volto.

Sentì una scarica di pugni contro le spalle, la schiena, un calcio sferrato contro le reni ed uno al fegato.

Quando finì a terra sentì a malapena i colpi alle gambe.

Quando lo trovarono in cortile sanguinante e pesto quasi non si accorse delle grida.

Quando lo portarono via in ambulanza gli venne persino da ridere perché non gli sembrava possibile che stesse accadendo davvero.

 

IV

 

Los Angeles – 24 Settembre.

 

Adam osservò con indifferenza Black Adam camminare a quattro zampe mentre Mr Alvin gli chiedeva ancora una volta di imitare un cane da riporto. Alvin applaudì divertito e compiaciuto per essere riuscito ad inculcare nella sua vittima un terrore così profondo da spingerlo ad accontentarlo anche nelle più assurde ed umilianti richieste.

Era un sadico, indubbiamente, un sadico psicopatico ma lucido nella sua follia e nel suo delirio di onnipotenza. Non una persona di cui fidarsi mai completamente ma un potente alleato, per via delle sue capacità, in una lotta per riconquistare il potere. Adam si versò un po’ di vino e dopo averlo fatto rimescolare nel bicchiere, osservandone i cerchi lo bevve pentendosi di non aver mai fatto un corso da somelier o qualcosa del genere. Il vino gli piaceva molto e coltivare l’arte del saperlo riconoscere era un piccolo sogno coltivato lungamente nel segreto della sua mente. Un sogno che era stato sacrificato al potere. Uno dei tanti.

“Balck Adam, vieni a me.” Il grosso nero rimase fermo a carponi, indeciso su cosa fare. Alvin lo spaventava ma l’uomo chiamato Adam lo spaventava ancora di più. Era gelido come il ghiaccio ed aveva lo sguardo di chi non fa distinzione tra vita e morte, come se fossero state un’unica inscindibile cosa. Alvin rise perché indovinò il conflitto interiore di quello e, per non fare un torto ad Adam, gli fece un cenno d’assenso con il capo, sollevandolo dalla necessità di non contrariare nessuno dei due. Si alzò un po’ a fatica, le ginocchie dolenti e s’avvio verso Adam che occupava una delle poltrone del suo salotto. Era come se fosse un trono perché quell’uomo possedeva un’innata regalità, come se il comando fosse suo per diritto di nascita.

Adam lo invitò a sedersi vicino, su una poltrona identica alla sua e Black Adam si sbrigò a rispondere al gesto.

“Cosa posso fare per te?” Chiese ansioso. Finché gli era utile, lo aveva capito, sarebbe rimasto vivo. Dopo avrebbe fatto la fine di tutti gli altri. La strage nei suoi studi di registrazione non era bastata. L’avevano costretto ad attirare in quella che era divenuta la sua fortezza altri suoi amici che erano stati sottoposti ad angherie e torture di ogni tipo. Gli avevano dato un messaggio e volevano sincerarsi che avesse capito bene. Black Adama si era fatto obbediente e mansueto, eseguendo tutti i compiti che gli erano stati assegnati. Aveva trattato con i trafficanti di coca così come gli era stato chiesto accettando di piazzare una grossa partita a Los Angeles in pochi giorni. I proventi sarebbero serviti per quella che entrambi i suoi carcerieri definivano enigmaticamente il quarto passo. Quali fossero i primi tre e quanti ne sarebbero seguiti poi non osava nemmeno immaginarlo.

“Ho visto qualcosa di sorprendente, ieri.”

Black Adam corrugò la fronte a quell’affermazione. “E che cos’era?” Una domanda stupida, forse troppo. L’avrebbe maldisposto e quello si sarebbe sfogato malmenandolo. Adam invece rimase calmo, persino imperturbabile, come un sereno corso d’acqua che attraversava una silenziosa vallata.

“Ho visto un eco. Un riflesso di me stesso la dove non credevo ne avrei visto. Ho compiuto un azzardo, ieri. Mr. Alvin non era d’accordo ma lui sa che sono un tipo a cui piace rischiare. Dovevo sapere. Dovevo vedere e capire. Ho visto me stesso, diversi anni prima. Avevo delle idee, prima di vederlo, un piano ben preciso ma ora sto riconsiderando le mie priorità. Black Adam non seguiva quel discorso che gli suonava nebuloso e criptico. Alvin ascoltava, braccia conserte, un sorriso furbetto sul volto. Voglio dire, il potere, quello famoso di cui abbiamo parlato, quello con la P maiuscola, è ancora l’obbiettivo ma, mi chiedo, una volta che l’avrò ottenuto? Un uomo non ha comunque bisogno di una compagnia? Nella sua voce metallica, Black Adam avrebbe giurato di cogliere qualcosa di simile ad amara tristezza o al rimpianto. Cos’è l’eternità se non la puoi dividere con un tuo simile? Non lo pensi anche tu?”

“Si.” Di nuovo temette di non aver dato la risposta giusta.

“Puoi andare. Vai a riposarti, domani sarà una giornata dura.” Lo congedò con un gesto della mano e quello ne approfittò subito per poter lasciare la stanza. Sapeva che tentare la fuga era impossibile se non da folli ma almeno, in camera sua, avrebbe avuto il conforto del sonno.

 

Lo sguardo di Adam pungolò Mr.Alvin come la punta d’un affilato coltello e quest’ultimo, a disagio, si voltò verso di lui facendo spallucce. “Che ho fatto?” Chiese con l’aria di chi non si rende conto d’averla combinata grossa.

“Ricordi cosa mi hai risposto quando ti ho chiesto perché non potevi mantenere a lungo quello, riferendosi a Black Adam, sotto il tuo controllo?” Il tono era pacato, misurato in contrasto con l’espressione fosca sul volto.

“Certo che me lo ricordo.” Non era però convinto che fosse quella la risposta giusta.

“Puoi ripetermelo?” La voce metallica risuonò con il suo monotono riverbero nella stanza.

“Perché le mentiripeté diligentemente, mani dietro la schiena, come un bimbo che si esibiva in una recita scolastica, tendono a reagire male quando eserciti un’influenza su di loro, soprattutto se tocchi le loro strutture fondamentali e nel tipo di controllo che opero, si toccano soprattutto quelle strutture, motivo per cui a differenza della comune suggestione ipnotica posso far, fare alle persone tutto quello che voglio, compreso uccidere o uccidersi. Ogni volta che manipolo una mente, però corro il rischio di cambiarla, magari impercettibilmente, e questo potrebbe compromettere alcune delle sue funzioni, capacità o ricordi. Più lunga e profonda è la manipolazione, più grande è il rischio.” Si chiese se Adam fosse soddisfatto. Quello accennò un si d’approvazione con la testa.

“Dunque se avessi tenuto al guinzaglio Black Adam per tutto il tempo, l’avresti ridotto ad una specie di ritardato, giusto?”

“Giusto.”

“E mi hai detto che controllare una mente danneggiata diventa difficile. Com’era il paragone che mi hai portato?”

“Come guidare una macchina senza servo-sterzo, con i freni mezzi rotti, le gomme usurate ed il motore ingolfato. Puoi essere un pilota di formula uno ma non puoi certo far miracoli.”

“L’atteggiamento del manipolato si fa rigido, artificiale, e anche fargli pronunciare semplici parole diviene un’impresa.”

“Proprio così.”

“Abbiamo così deciso, di comune accordo, di non lasciare Black Adam sotto il tuo controllo troppo a lungo, perché ci serviva che sembrasse il più naturale possibile o quando meno che non apparisse come una marionetta agli occhi delle persone con cui tratta affari, per non insospettirle.”

“Eh, si.”

“E quindi gli facciamo delle pressioni, lo spaventiamo, gli ammazziamo sotto gli occhi qualcuno dei suoi amici e soci ed il gioco è fatto. La paura può tenerla sotto controllo con altra paura, corretto? Mentre se fosse cerebroleso sarebbe un problema usarlo.”

“Verissimo.”

“Allora non eccedere.”

“In che senso?”

“Ti piace torturarlo. Ti piace umiliarlo. Ti piace fargli sentire che puoi, in ogni momento, fargli fare la fine del topo con il gatto. Se eccedi otterrai il risultato di farlo crollare e allora sarà comunque difficile da governare.” Era un avvertimento. Cortese, ragionevole ed opportuno.

E se Mr. Alvin l’avesse disatteso avrebbe dovuto guardarsi dal suo alleato più di quanto già non facesse.

Doveva ammettere che Adam lo intimoriva. Era molto tempo che aveva smesso di sentirsi impaurito dal prossimo ma quell’uomo era un’eccezione.

Era pericoloso. Molto pericoloso e se davvero avesse ottenuto il potere di cui gli aveva parlato, sarebbe divenuto l’uomo più pericoloso mai vissuto.

Tuttavia c’era un motivo per cui, quando capì chi era e con chi aveva a che fare, non l’aveva costretto a finire il lavoro avevano iniziato anni prima costringendolo ad aprirsi da solo la gola.

Adam lo affascinava. Era un uomo di parola e sapeva cosa fare. La sua intelligenza era vivace e brillante e lui lo sapeva, perché aveva carezzato quella mente. Nessun timore, rimorso, nessun dubbio. Tutti avevano dubbi, anche l’uomo più sicuro di sé, persino lui che poteva controllare le menti aveva dei dubbi. Non Adam. Mai.

Il mondo ai suoi occhi era un ribollente e caotico mare a cui solo la forza e la determinazione di un uomo pronto a tutto poteva portare ordine e pace.

Aveva intravisto, tra i meandri delle sue sinapsi, un Nuovo Ordine, fatto di equità e giustizia, dove il forte occupava il posto di comando e chi non era degno, semplicemente, veniva eliminato.

Si chiese se in quel mondo ci sarebbe stato un posto per lui e Adam gli aveva promesso di si.

Adam non aveva mentito quel giorno. La sua parola era una e sacra.

Sospirò e, chinando leggermente il capo: “Hai ragione. Mi sono fatto prendere la mano. Non succederà più.” Poche sintetiche parole. Era questo il modo di esprimersi che compiaceva Adam. Odiava a morte chi si prostrava, producendosi in pianti ed invocazioni di perdono.

“Molto bene, concluse l’argomento e la questione, ora dobbiamo prepararci per l’incontro tra due giorni. Dovresti cambiare nome.”

“Mr. Alvin non va bene?”

“Il tuo piccolo scherzo andava bene per Black Adam ed i suoi tirapiedi. Il nome è una cosa seria e quando ci sarà bisogno di fare sul serio, ne abbisognerai di uno consono a quello che sei.”

“Mr. però lo terrò. Mi piace.”

“Molto bene. Allora mantienilo e dagli un completamento.”

“Ci proverò.”

 

V

 

Villa Athene, California – 26 Settembre.

 

Simon Azam indicò a Billy, entrato con Tamerlano Tiger e l’uomo chiamato Beck alla sua destra e alla sua sinistra, una sedia dello studio sulla quale il ragazzo, cercando di apparire sicuro di sé s’accomodo. S’era sentito quasi un prigioniero in marcia sul miglio verde quando erano venuti a prenderlo nella sua stanza, dove, dal tardo pomeriggio, gli era stato di rimanere. Nessuna spiegazione. Lui non ne chiese. Tamerlano alzò un sopraciglio guardando Azam che per tutta risposta lo congedò.

C’erano diversi oggetti che sembravano provenienti da un museo in quello studio. Piatti ed anfore decorate, tele di lino dipinte con scene di lotta, guerra e caccia conservate in teche di cristallo, mezzi busti e piccole statuette votive di bronzo poste su mensole di legno o pietra, levigate dal tempo e dalle intemperie. Billy non era un esperto ma sembravano tutte greche o comunque provenienti dall’area del Mediterraneo. Le coste dei libri ordinati nelle librerie riportavano titoli in oro, argento o neretto quali: “Diritto romano, i grandi generali greci, le campagne del medi oriente, la Persia e l’Occidente”, e via dicendo.

“Non ti porrò la domanda una seconda volta. Disse secco Azam, facendo passare qualche secondo prima di aggiungere. Saprò subito se mi hai mentito quindi non farlo ed evita di prendermi in giro. Scavò dentro Billy con quello sguardo in cui c’era qualcosa di fiero e crudele al tempo stesso, qualcosa che mise a disagio il ragazzino tuttavia intenzionato a non mostrarsi debole o impaurito. Kyle, il ragazzo che ti ha aggredito nel centro commerciale e che frequenta la tua scuola, lo hai malmenato tu?”

“Mi stai facendo un processo?” Rispose serio.

“Ti rendi conto di cosa hai fatto?”

“Voglio tornarmene in istituto.”

“Non hai ben chiaro cosa sta succedendo. Kyle Sommerset è in ospedale, ricoverato con gravi levisioni, sottoposto ad un intervento d’urgenza, con danni probabilmente permanenti alle articolazioni delle gambe. Tu non torni in istituto, Billy. Per te c’è il riformatorio.”

Billy Batson rimase impassibile: “Non mi pare di aver detto di essere stato io. Non sapevo nemmeno che fosse in ospedale. Ho saputo dell’aggressione a scuola, come tutti quanti gli altri, dopo che l’ambulanza se ne era andata.”

“I giochetti con me non funzionano. Non sono un poliziotto, non sono un avvocato, non sono un giudice. Non devo essere né giusto, né imparziale. Non ho bisogno di prove ed indizi. Billy, l’ho visto sulla tua faccia che sei stato tu.”

“Solo perché mi ha aggredito non significa che sia stato io…” Disse in un sussurro.

“Perché non mi hai detto subito la verità?”

“Questo è una specie di gioco per te?” La voce tremò.

“Un ragazzo ridotto in fin di vita non è un gioco.”

“Mi hai messo nella sua stessa scuola. Lo sapevi. Perché?”

“Non è questo il punto.”

“Nemmeno ti prendi la briga di negare. Mi fai addestrare da Tamerlano a fare a pugni e mi metti nella scuola dove già sapevi avrei trovato la persona che mi ha quasi ammazzato qualche giorno fa. Cos’era? Un qualche perverso test? Ed ora mi accusi, dicendomi che non hai bisogno di prove, di aver fatto questo? Mi minacci di mandarmi in riformatorio? Credi che mi metterò ad urlare o a piangere? Credi che ti implorerò di non farlo o mi metterò in ginocchio per convincerti che non sono stato io? Se dubiti di me, della mia parola, non me ne importa niente. Mandami pure in galera se vuoi. Avanti. Non ho paura di te. Non ho paura di niente.”

Simon Azam era rimasto stupito. Billy aveva detto la verità. Non aveva paura.

“Ora torna in camera, Billy. Domani parleremo ancora.”

Il ragazzo non disse nulla. Si alzò e se andò via, lasciando Azam a riflettere sulle scelte operate di recente.

 

L’eterogeneo gruppo arrivò verso le 11 di sera, ognuno con la propria auto, guidata personalmente o da un autista. Le macchine vennero parcheggiate nel grande piazzale davanti Villa Athene ed il quintetto entrò nella grande sala al di là della portale di legno dai pannelli lavorati a mano.

Tamerlano Tiger, insieme a Cee Cee e Beck diede loro il benvenuto, invitandoli pure a dare ai suoi assistenti i loro soprabiti. La silenziosa processione lo seguì lungo le scale che portavano al piano superiore e di lì all’ala orientale dove stava lo studio privato di Azam che, nel vederli entrare, si alzò in piedi, portando il suo saluto ad ognuno di loro con l’antico gesto che, da generazioni, simboleggiava amicizia e fratellanza. Afferrò, con la mano destra il braccio che gli veniva offerto, lasciando a sua volta che l’altro stringesse il suo. Poche parole, convenevoli ridotti al minimo. Prese la chiave dal cassetto della sua scrivania e dopo aver aperto una sezione del muro premendo un contatto mimetizzato da decorazione, sbloccò l’ascensore che li condusse tutti nel seminterrato, dove percorsero un corridoio che, attraverso quello che pareva un pronaos dava alla camera semi-circolare ove ognuno prese posto.

Trovandosi vicino al mare, per evitare infiltrazioni, Azam aveva fatto spendere una fortuna per isolare adeguatamente l’ambiente così come per il sistema di condizionamento che lo rendeva confortevole.

L’ambiente, era spoglio e disadorno, fatta eccezione per lo stemma alle spalle del leggio dove  Simon prese posto. Era triangolare, bianco, il palmo aperto d’una mano circondata da una corona d’alloro come simbolo.

“Mi dispiace aver convocato d’urgenza l’Augusta Assemblea qui nell’Odeon.”

Gli auditori erano seduti su panche di legno, disposte intorno al leggio come a rappresentare una mano stilizzata. Il più anziano tra di essi, una donna i cui lineamenti testimoniavano la sua bellezza d’un tempo, prese la parola: “L’Assemblea corre se il Cerimoniere chiama. Era una frase rituale, pronunciata in occasioni come quelle. Posso, temo di immaginare il motivo per cui ci hai chiesto, con così breve preavviso, di venire qui.” C’era del rimprovero in quelle parole. Azam lo sapeva. Era il modo della donna di dirgli “ te l’avevo detto.” Non poté far altro che incassare, chinando lievemente il capo come a rispondergli “lo so”.

“Onorata Sorella, purtroppo i tuoi timori potrebbero trovare fondamento ed è perché il cuore mio è gonfio di dubbio che vi ho chiesto di accorrere qui. Solo voi potete darmi il consiglio di cui bisogno in questo momento.”

“Momento che, a prendere la parola era stato il più giovane del gruppo, a cui la donna a cui poco prima s’era rivolto Azam, scoccò un’occhiata di eloquente fastidio per il modo in cui, senza rispettare la tradizione, era intervenuto, abbiamo già vissuto, se non erro o meglio, che visse il mio predecessore e di cui voi mi metteste a conoscenza. In quell’occasione il mondo visse forse la sua ora più buia e allora, come oggi, è stato un errore di valutazione tuo, Cerimoniere, a portarlo sull’orlo dell’abisso.” Parole dure, spietate, che esprimevano il disprezzo che il giovane uomo aveva da sempre nutrito nei confronti di Simon Azam, disprezzo noto a tutti i presenti ma che fino a quel momento era stato mitigato dalla necessità e dal contegno richiesto dal ruolo.

Simon ingoiò la rabbia che per un attimo lo percorse. “Non nego l’addebito di quanto accaduto in passato. Mi lasciai guidare troppo dai sentimenti al punto che non riuscii a vedere la verità finché non fu dolorosamente manifesta, ammise, per poter fare alfine quello che era il mio dovere, a dispetto di quegli stessi sentimenti che m’avevano indotto nell’errore. Ricordò. Ho commesso uno sbaglio di valutazione ma dettato dalla necessità di trovare chi potesse farsi carico del fardello, perché il tempo in cui il mito irromperà nuovamente nelle vite dei mortali forse è giunto e perché, ricordo, l’Assemblea allora votò favorevolmente alla mia proposta.”

“Con riserva.” Puntualizzò l’uomo.

“Ma pur sempre favorevolmente. La candidata morì, gettando nel caos i nostri piani, e sapevamo che mantenere ancora in vita il vecchio candidato era pericoloso.”

“Candidato che, fece il giovane che si era ormai apertamente schierato contro il Cerimoniere,è fuggito. Se non sbaglio avevamo già convocato un’Assemblea d’emergenza proprio per questo motivo. Tentò di dare un tono canzonatorio alle parole pronunciate, per porre in ridicolo Azam agli occhi degli altri ma quelli mantennero un atteggiamento composto e apparentemente neutrale, cosa che lo infastidì. A tutt’oggi non sappiamo dove sia.”

“I miei uomini sono impegnati in una ricerca ventiquattro ore su ventiquattro.”

“Infruttuosa. Non sappiamo neppure chi lo abbia favorito nella sua fuga.”

“Lo troveremo.”

“Così come non ci saremmo pentiti della decisione di nominare il ragazzino tuo erede? Quali erano le argomentazioni che portasti? Ah, si! Ecco: essendo il fratello della precedente candidata è adatto.” Stavolta la sua affermazione ottenne un effetto sui presenti i cui volti furono attraversati da sentimenti contrastanti, anche se solo per un istante che però non gli sfuggì e che non sfuggì nemmeno ad Azam che replicò: “ Sei ingiusto, Onorato Fratello. Citi le mie parole svincolate dal contesto e soprattutto in modo parziale. Portai anche, se ricordi, diversi episodi che i miei investigatori hanno documentato di cui William Batson è stato protagonista, prova della solidità del coraggio e della perseveranza di cui è capace.”

“Però siamo qui. Il che significa un fallimento in una delle prove.”

“Si.” Ammise non senza fatica Simon.

“E quale prova avrebbe fallito?” Chiese la donna che per prima, tra i cinque, aveva parlato ad Azam, ristabilendo così l’ordine  e provocando una fitta d’insofferenza nell’uomo che avrebbe voluto continuare nella sua accusa contro il Cerimoniere.

“La prova del controllo. Ha ceduto alle proprie passioni e al desiderio di vendetta.”

“Vista la sua giovane età, è comprensibile.”

“Onorati Fratelli, prendo la parola. A parlare era stato un signore imbolsito e dall’aria assonnata, le cui incipienti calvizie erano evidenti nonostante la pettinatura e messe ancora più in risalto dalla forma della testa. Era vestito in modo casual, nonostante lo avesse si fosse presentato in villa con tanto di autista in livrea e segretaria al seguito, entrambi rimasti in auto ad aspettarlo rispettosamente. Anche i baffi che portava da anni contribuivano ad accentuare una sorta di intrinseca comicità che quella figura emanava. La sua voce però era bassa e calda, vibrante, leggermente arrochita dal fumo e dalla passione per i buoni liquori, stranamente bella e affascinante, come quella di certi cantanti popolari negli anni ruggenti. Vorrei sottolineare che, prima di tutto non siamo qui per intentare un processo contro il Cerimoniere. L’affermazione mise in manifesto malumore il giovane e gli tagliò qualsiasi possibilità di riprendere la sua mascherata invettiva contro Azam. La donna anziana parve invece soddisfatta di quell’intervento ed indirizzò all’uomo un piccolo gesto d’assenso. Ci sono, è vero, attualmente due problemi, tenendo conto di quello i cui particolari dobbiamo conoscere e quello, invece, i cui particolari ci sono ben chiari. Su quest’ultimo dirò solo che confido che il Cerimoniere agisca per il meglio con la lealtà alla causa che ha dimostrato a suo tempo di avere. Ora sarei curioso di sapere, però, il motivo per cui siamo qui. Voglia il Cerimoniere avere la compiacenza di spiegarcelo e, Onorati Fratelli, invito voi tutti a non interromperlo.” Detto questo invitò Azam a proseguire e questi, grato per quelle parole, lo accontentò, spiegando loro nei dettagli cosa era successo.

Una donna d’aspetto piuttosto ordinario, d’un’età indefinita, tra i trenta ed i quarantanni, dopo aver chiesto la parola, espresse la sua opionione al termine del racconto di Azam: “Dovevi aspettarti, oh stimato Cerimoniere, che il ragazzo avrebbe potuto fallire nelle prove. Lo hai preso in un momento critico della sua vita: non è stato preparato sin dal che era un bambino, come prescriverebbe la tradizione, o tanto meno è un adulto formato, come lo era la sorella; cosa vuoi che sappia della differenza tra bene e male? Non puoi pretendere che si comporti come il campione che dovrebbe essere, senza insegnargli. Lo hai buttato nella fosse dei leoni aspettandoti cosa? Che avrebbe trionfato? Il suo fallimento era annunciato, Cerimoniere. Ora hai solo due scelte. Una è tornare indietro sui tuoi passi e riportarlo all’istituto dove lo hai preso. L’altra è quella di continuare il suo addestramento, sincerandoti che di questo sbaglio faccia tesoro ed esperienza. Tu vedi questo accadimento, con giusta preoccupazione ma corri il rischio di perdere di vista una cosa importante. Quando accadde il disastro, l’allora candidato non aveva mai dato un segno di cedimento ai propri istinti così evidente e nessuno avrebbe mai potuto crederlo capace delle malvagità di cui si macchiò. Hai visto il bene, nel ragazzo e quel bene è ancora lì ma ora sai anche di cosa è capace se privo di una guida.”

Simon Azam riflettè su quelle parole.

“Onorata Sorella, parli con saggezza, come sempre. Bene, allora con la benedizione di questa Augusta Assemblea io …”

 

 

VI

 

Jack of Spade Hotel, Berklee, California – 29 Settembre.

 

Simon Azam riattaccò al telefono e si lasciò cadere a sedere sul letto.

“I militari sono ansiosi di organizzare nei dettagli la presentazione ufficiale di Dumso.” Disse stancamente. Si massaggiò una tempia.

Tamerlano Tiger si accomodò su di una poltrona antistante. “ Dovresti dedicarti a loro, altrimenti potresti scontentare i tuoi clienti e non è il caso, proprio ora che stai per raggiungere il compimento del piano che hai perseguito per tanti anni.”

Simon rise tristemente. “Per tanti anni. Forse tanti anni sprecati, vista la sequela impressionante di fallimenti che ho collezionato.”

“Non essere troppo severo con te stesso.”

“No? Del ragazzo non c’è traccia. Lo stiamo cercando da giorni ma lui sembra sparito nel niente.”

C’era un’allarmata preoccupazione nella sua voce.

“È intelligente, sa che saremmo andati a guardare nei posti che hanno a che fare con lui ed il suo passato. Prima o poi però ci passerà. Abbiamo fatto mettere della sorveglianza ed è stata una buona mossa.”

“E lui è ancora là, con il braccio descrisse un arco, in qualche posto, magari gli è successo qualcosa, ha incontrato qualcuno.”

“Billy non è così stupido.”

“Il mondo è abbastanza feroce da mangiarsi anche un ragazzo sveglio come lui.”

“Non è successo.” Insistette Tamerlano.

“Lo dice il tuo sesto senso?” Rispose stizzito Azam.

“Lo dice la speranza.”

“E se lo avesse trovato lui?”

“Pensi che sappia della sua esistenza?”

“Certo. Perché sarebbe scappato proprio ora? Se lo ha fatto era sicuramente in grado di farlo già da un po’ di tempo ma non ha mai fatto le sue mosse a caso. Cosa è cambiato ora rispetto a solo pochi mesi fa? Billy Batson. Sa che c’è un nuovo candidato e che se lo avessi battezzato la sua vita sarebbe finita.” Gli tremolò leggermente la voce nel dire l’ultima parola.

“Lo avresti fatto?”

“Si.”

“Anche se nel farlo ti saresti praticamente strappato il cuore da solo?”

“Si.” Ripeté con ferma convinzione Simon Azam.

“Concordo. Ne sei di certo capace.”

“Il problema ora rimane trovare Billy e assicurarci che stia bene.”

“Che farai dopo?”

“Dopo averlo trovato?”

“Dopo averlo trovato.”

“Che dovrei fare secondo te? Riportarlo all’istituto?”

“Non lo faresti mai.”

“Cosa te lo fa credere?”

“Se sospetti che lui sappia della sua esistenza, lo condanneresti a morte riportandolo in istituto. Lui non lo mollerebbe mai, non lascerebbe mai in vita un potenziale altro candidato e lo ammazzerebbe alla prima occasione.”

“Perché è fuggito?”

“Un quasi tredicenne che si da alla fuga? Più che altro, tenendo conto della testa che un ragazzo ha a quell’età, c’è da chiedersi perché non l’abbia fatto prima.”

“Ci è scappato da sotto il naso.”

“Non ce lo aspettavamo.”

“Avremmo dovuto.”

“Dovresti farti una dormita. Sono tre giorni che non chiudi praticamente occhio.”

“Me lo merito.” Simon Azam si alzò e andò alla finestra. Guardò fuori chiedendosi dove fosse e soprattutto con chi fosse Billy Batson, il ragazzo designato a divenire il suo successore.

 

 

Continua.