Yuri N.A. Lucia

 

Presenta

 

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“Chi è il vostro Re? Il vostro amato Sovrano? Il Signore del Cielo e della Terra?”

“ZEUS! ZEUS! ZEUS!” Gridò all’unisono il pubblico accorso ad ascoltare il discorso che dal suo trono, stava tenendo il dio padrone del mondo conosciuto.

Questi si eresse, in tutta la sua imponente statura, gonfiò il petto, battendolo con il pugno destro all’altezza del cuore, facendolo risuonare quasi fosse un tamburo.

“Chi ha dunque sconfitto i vecchi dei? Chi ha relegato i Titani tra le ombre?”

“ZEUS! ZEUS! ZEUS!” Acclamò la folla, accalorata dall’arringa e dal vino.

“Non erano forse dei selvaggi? Non erano essi feroci e spietati? Non tormentavano questo mondo come un’orrida, infetta piaga, flagellandolo per pura crudeltà? Non vivevano essi nell’empietà? Non mangiavano forse la propria progenie per l’insana brama che li animava?

Cronos stesso, mio padre, non sbranò i suoi propri figli, i miei fratelli, poco dopo che Gea li aveva partoriti? Non era l’avidità di potere e la profezia che uno tra essi un giorno l’avrebbe spodestato ad alimentare quest’immonda pratica? Quanti tra voi ricordano quei giorni bui e senza speranza? Io ricordo la sua bocca aprirsi, mise in mostra la sua chiostra perfettamente formata, sporcata dai grappoli d’uva poco prima addentati, e chiudersi di scatto sulle tenere carni non ancora completamente formate dei neonati e poi strappare con forza, serrò i pugni e mimò un gesto, estendendo le braccia poderose, come se tirasse qualcosa d’elastico, i muscoli e le arterie dalle morbide ossa! Ricordo il sangue sulla sua barba e sulle labbra sorridenti, il suo sguardo idiota e compiaciuto per l’infame pasto! IO RICORDO! Allargò le braccia rivolgendo i palmi al cielo, il corpo nudo eccezion fatta per un paio di sandali legati ai possenti polpacci, il torace imponente e arrossato per la foga del momento. I suoi sudditi mandarono gridolini d’assenso e d’ammirazione. Non fui io stesso quasi vittima di quel folle? Lesto assunse un tono dismesso, mentre indicava sé stesso con fare volutamente infantile, strappando qualche risata ai suoi auditori che subito, al suo sguardo severo, si ricomposero tentando, nonostante i fumi dell’alcool di assumere un atteggiamento consono al tono drammatico del racconto. Non stavo io stesso diventando l’ennesima, innocente vittima? Quanti ne ha mangiati? Quanti del frutto dei suoi lombi sono finiti nei suoi sozzi visceri? Quanti tra i figli avuti dalle mogli e i bastardi generati con le sue puttane? Invece mi salvai. Mi salvai per uno stratagemma della mia amata madre, girò il capo, un espressione di solenne raccoglimento, cercando ed ottenendo la commozione dei presenti, scendendo con studiata lentezza i gradini ai piedi dell’alto scranno di pietra su cui era solito sedere, una stratagemma che costò a Gea, signora tra le titane, orribili sofferenze. Abusata dai servi del marito, dagli sciacalli che venivano dalle terre a meridione che tanto amava tenere presso la sua casa, DA CHIUNQUE VOLESSE TOGLIERSI IL CAPRICCIO DI VIOLENTARE UNA TITANA! Il tono della voce crebbe fino ad ammutolire gli altri, sprofondando quell’assemblea in un irreale silenzio che Zeus nutrì ad arte con una lunga pausa. Non fui cresciuto io in una spelonca, allattato da una capra e protetto da mortali fedeli alla mia augusta madre? Non crebbi sottoponendomi alle più dolorose atrocità pur di essere un giorno pronto ad affrontare il Signore dei Titani e compiere così il mio destino?! Non feci dunque questo!?!”

“SI!!!” La risposta arrivò senza esitazione.

“E LO FECI! SI! Affrontai Cronos e ancora ricordo il volto di quel vecchio, bastardo! C’era la più assoluta sorpresa perché era convinto che i suoi scagnozzi, anni addietro, fossero riusciti ad uccidermi prima che potessi crescere e divenire un dio a tutti gli effetti! Era lì, intento a mangiare, insieme a due delle sue mogli, l’ultimo tra i suoi sfortunati figli. Le due baldracche si contendevano, come le peggiori e più selvagge delle fiere, quanto rimaneva di quel corpicino straziato mentre lui se ne stava lì, compiaciuto, a godere di quel disgustoso spettacolo, con un dito, un minuscolo, fragile dito, che spuntava da quella bocca atteggiata in quel perverso, odioso SORRISO! Agitò il pugno in aria, lì, in mezzo a loro che lo fissavano con sentimenti contrastanti. Rispetto. Timore. Invidia. Desiderio. IO SMORZAI QUEL SORRISO PER SEMPRE! Oh, non fu facile! No, no amici miei, amati fratelli. Non fu facile.Scosse la testa, il capo chino, l’espressione grave, le mani dietro la schiena. Lo costrinsi alla ritirata, con le mie sole forze ma lui si riorganizzò, chiamando all’adunata i suoi fratelli, corrotti e depravati quanto lui e le loro rispettive mogli e tutti quelli che, stoltamente, s’erano legati a lui in un’infausta alleanza: deformi, mostri, assassini, barbari! Se aveste visto quale convegno radunò ai piedi della sua nera fortezza sull’Otri. Se aveste sentito le imprecazioni! Le minacce! I volti sfigurati dalla demenza, dall’odio cieco, dalla lussuria, dal male assoluto! Ed io forse m’arresi? Forse fui tentato, anche solo per un attimo, di fuggire innanzi a quell’esercito di orrori?!”

“NO!” Nessuno pensò il contrario, nemmeno per un istante.

“Non lo feci!” Ribadì lui.

“Non lo hai fatto!” Gli gridò ammirata una giovinetta.

“No, non lo feci!” Confermò compiaciuto.

“Non lo avresti mai fatto!” Gli disse un giovane guerriero agitando il pugno.

“No, mai!” Guardandolo fisso negli occhi.

“Non fuggiresti mai, mio Signore!” Urlò tra lacrime di commozione una delle sue serve preferite.

“No. Disse quasi in un sospiro, mani ai fianchi, l’immagine vivente del virile coraggio. Mai.Il capo eretto, lo sguardo che vagò brevemente lungo la volta celeste, il mento prominente messo in risalto dalla sua barba, i folti riccioli trattenuti alla fronte da una fascia di stoffa tinta di blu. Non lo farei mai e non lo feci allora. Chiamai a raccolta tutti quanti gli oppressi, chi aveva patito per mano di quei vecchi, rozzi, selvaggi dei. Chi aspirava ad una vita diversa. Chi desiderava con tutto sé stesso un mondo governato dalla giustizia e non dalla follia. Chiamai a raccolta chi condivideva il mio sangue e desiderava un nuovo ordine, un Cosmos in terra che sostituisse il Caos portato dai prepotenti Titani! Oh, che giorno glorioso! Quale suprema, meravigliosa forza si compattò sotto il mio comando e quale battaglia, degna d’essere narrata per tutti i giorni che il Mondo vivrà, combattemmo in Tessaglia. Le fertili vallate furono arrossate dal sangue dei mortali e degli dei stessi che li comandavano! Una luce ferina brillò per un istante nei suoi occhi di ghiaccio, inequivocabile prova del suo retaggio, una luce che qualcuno vide ma a cui non osò far seguire commento alcuno, una luce che fu subito stemperata dal compiacimento. Io stesso calcai l’immenso campo di battaglia! Io stesso affrontai il mio genitore e quel giorno, a sue spese, scoprì che il figlio possedeva virtù sconosciute agli altri dei! Perché io solo, figlio di Cronos,  posso comandare alla Natura figlia del Fato! Io solo posso evocare la CELESTE FOLGORE C’OGNI NEMICO SBARAGLIA! IO! ZEUS Il tuono annunciò il lampo che aprì in modo spettacolare la strada al fulmine e giù, nella valle ai piedi del monte dove si trovavano, un ulivo venne incenerito dalla veemente potenza evocata dal dio. Un suo gesto. L’indice puntato in segno di implacabile condanna e il cielo s’era animato nel tempo di un respiro per rovesciare sulla terra la propria furia e quanto rimaneva di quella dimostrazione di potere era una colonna di fumo e fiamme che si levava da braci ardenti. Questa fu la sorte dei nemici del Signore degli dei, uccisore di titani.”

Tutti assentirono, adoranti, spaventati.

“E dopo che ebbi liberato il mondo, non fui io equo nel riconoscere agli alleati giusta ricompensa?”

“SI! LO FOSTI SIRE!” Gli fece eco un veterano di quei giorni.

“Non distribuì tra tutti i tesori che quei porci tenevano per sé?”

“Sei magnifico e generoso, mio Signore!” Non vide chi l’aveva lusingato, anche se gli parve di riconoscere uno dei suoi guerrieri più valenti.

“Portai la pace su queste terre. Persino i poveri mortali beneficiarono della mia bontà e della mia generosità. Detti loro il permesso di possedere bestie da pascere, da mungere, da macellare e terre da coltivare. Non l’ho fatto? Non ho detto loro di essere felici? Non sono stato come un padre di famiglia persino per loro?

E cosa ha fatto il vostro Re  per i suoi simili? Cosa ha fatto per tutti gli dei che hanno ripudiato i titani combattendo dalla parte giusta? Li ho dimenticati? Ho forse mancato nei loro confronti?”

“NO! ZEUS!”

“Non ho eretto su questo Sacro Monte, sede della prima adunata divina, la nostra casa, lo splendido Olimpo?!”

“Lo hai fatto!”

“Si! L’ho fatto! L’ho costruita intorno alla Sacra Ara indicò il tempio eretto intorno alla grande pietra usata come altare in quei giorni di lotta, dove giurammo tutti di abbattere gli odiosi nemici, a qualsiasi costo, e dove i miei amati guerrieri e fratelli giurarono fedeltà a me.  E non è qui che governiamo, dei giusti e generosi, questo mondo? Non è dunque questa la vera Età dell’Oro?”

“VIVA ZEUS! VIVA L’ETÀ DELL’ORO CHE HA PORTATO AL MONDO!” L’olimpico che aveva preso parola, minuto e  dai neri capelli, parve voler arringare i presenti, sbracciandosi e gridando e gli altri risposero con mugolii di gioioso assenso.

“E cosa chiede il vostro Sovrano? Cosa chiede il vostro Re? Null’altro che amore e lealtà.

Amore e Lealtà! Questo chiedo!”

“E NOI TE LI DAREMO, SEMPRE!”

“Allora dunque, miei amati olimpi! Chi è il vostro Re?! CHI AMATE AL DI SOPRA D’OGNI ALTRA COSA?!”

“ZEUS! ZEUS! ZEUS!”

Il Signore dei Fulmini era soddisfatto. “Allora, fratelli e sorelle! Amati sudditi! Godete della mia generosità!” Ad un suo gesto, una schiera di giovinetti rimasti fino a quel momento in disparte, avanzò, guidato da Ganimede, tra di essi il favorito di Zeus. Ganimede non guardò nessuno dei presenti, il capo basso quando gli si rivolgevano, così come aveva insegnati agli altri di cui era stato nominato responsabile. Il vino contenuto nelle otri trasportate sulle spalle ancora immature vene mesciuto nei crateri che gli dei porgevano, desiderosi di inebriarsi ancora di più.

Zeus staccò con una lama un pezzo di cervo arrostito poco prima e ne assaporò le fibrose carni.

“FESTEGGIAMO!” Incitò e in risposta ricevette un’ovazione a cui seguirono danze sfrenate al suono delle siringhe di altri pastorelli sottratti alle famiglie.

Ganimede si ritrovò improvvisamente di fronte il suo padrone che gli sorrideva con voglia e fu costretto ad elargire un sorriso per non mal disporlo. Intorno a loro intanto, i presenti cominciavano a cercarsi, toccandosi, sfiorandosi, baciandosi.

 

Poco distante, nei pressi del tempio sorto per celebrare la vittoria sui Titani di cui aveva parlato Zeus, tre figure se ne stavano in solitaria contemplazione.

“Questa è un’indecenza!” Disse tra i denti quello più massiccio e fisicamente imponente.

Teneva l’elmo stretto al fianco e l’asta stretta in pugno.

“ Devi ammettere, che se pur è un fanfarone arrogante, ci sa fare con gli altri e poi diciamolo, le cose non sono andate molto diversamente da come le ha raccontate.” A parlare era stato un giovine la cui ingannevole magrezza avrebbe potuto far pensare ad un fisico esile, acerbo ma sotto la cui pelle guizzavano muscoli ben formati.

“Non stiamo mettendo in discussione le sue doti da oratore,  fece la donna che componeva il terzetto, ma il suo ruolo di Signore della Mano di Dio.”

“Non ha nemmeno fatto un accenno a noi!” Il disprezzo trapelava dalle parole del guerriero.

“Non lo fa mai.” Il giovinetto sorrise con amara rassegnazione.

“Questo cambierà. Assicurò la donna. Questo cambierà.” Ripeté con gli occhi fissi all’orgia che si stava consumando.

 

Yuri Lucia

 

Presenta:

 

 

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2

 

I

 

Otto Building, Los Angeles, California – 13 Settembre

 

James Barr fissò Simon Azam con un misto di odio e timore. Dove finisse l’uno e iniziasse l’altro, nemmeno lo stesso Barr avrebbe saputo dirlo.

Simon gli si fece vicino e lo squadrò tentando di non essere troppo severo, nonostante quella visita non gli fosse per nulla gradita.

Aveva fin troppe cose che ora lo preoccupavano. La fuga del suo prigioniero dall’Istituto in cui lo credeva al sicuro era stata per lui come un colpo di scuro diretto alla sua stessa anima. Avrebbe dovuto, tra poche ore, affrontare una commissione del Governo il cui compito era decidere se Azam sarebbe stato o no il principale fornitori di armi degli USA per i prossimi 10 anni e se i suoi robot da combattimento erano stati un saggio investimento o un enorme buco nell’acqua.

Barr non era la persona che avrebbe desiderato vedere in quel momento. Per sua fortuna, Tamerlano Tiger era con Billy e questo gli permetteva, almeno per quanto riguardava tale questione, sentirsi sicuro. Tamerlano lo avrebbe protetto ad ogni costo ed era il suo uomo più fidato.

“Buongiorno, Jim. È tanto che non ci vediamo.” Tese la mano in un gesto di distensione. Quell’uomo, la barba fatta alla meno peggio, l’aria tirata e gli abiti sgualciti, un completo color crema che aveva visto giorni migliori, aveva bisogno di una tregua e tutto sommato, al di là dell’irritazione per aver chiesto quell’incontro, Simon Azam non riusciva non provare del dispiacere per le condizioni in cui versava. L’altro parve intimorito e diffidente, quasi quella che doveva stringere fosse la testa d’un serprente a sonagli. Barr non aveva dimenticato che

Simon Homer Azam sorrideva sempre con estrema e sincera cordialità persino a chi stava per togliere tutto, affondandolo nella disperazione totale.

Si fece animo e accettò di ricambiare il gesto, anche se la sua fu una stretta poco convinta ed i suoi occhi non si staccarono mai da quelli di Azam, come a cercare un segno dell’imminente catastrofe.

“Buon giorno, Simon. Grazie per avermi ricevuto.” Le ultime parole gli costarono davvero un grande sforzo e Simon se ne accorse. Avrebbe scrollato le spalle in altre circostanze ma Simon era vittima di un crollo nervoso e non voleva infierire in alcun modo.

“Tamerlano mi ha detto che volevi incontrarmi. Sono qui.”

“A proposito, cominciò a cercare intorno, preccoputa, lui non lo vedo. Dov’è?” Gli faceva paura quell’uomo, quasi quanto Simon. Tamerlano era il braccio destro di Azam, anche quando c’era da tagliare delle gole e non in senso figurato.

“Gli ho affidato un incarico. Affari. Ti saluta.”

“Risalutamelo.” Per nulla persuaso che Tamerlano gli mandasse davvero dei saluti.

“Come di certo sai, tra poco avrò un incontro con quelli dell’Esercito. Ho accettato di incontrarti per darti la possibilità di parlare, Jim. L’ho fatto perché sei stato uno dei miei migliori ricercatori e soprattutto perché sei stato mio amico. Io non ho molti amici, Jim e questo di certo lo sai. Non apro a tutti le porte di casa mia. Dunque sono qui, anche se ci siamo detti tutto quello che dovevamo, e forse anche di più, quel triste giorno, due anni fa. Ti chiedo di non fare troppi giri di parole ed andare dritto al punto.”

“Stai facendo una cazzata!”

“Per essere diretto è diretto. Forse non dovrebbe essere così diretto. Puoi spiegarmi?”

James Barr lo fissò. Aveva immaginato più e più volte quel momento ed ora, per la prima volta, si sentiva a disagio. Non era certo se avrebbe o no detto le parole giuste ma doveva tentare.

“Credi davvero che quest’idea dei robot da guerra sia buona? Cristo santo, Simon! Stiamo parlando di mandare in guerra delle macchine!”

“Scusa, credo d’essermi perso, confessò senza secondi intenti Azam, credevo che già lo facessimo.”

“Aerei militari, carri armati, elicotteri certo ma tutti hanno l’uomo al comando.”

“Ed i droni? I robot artificieri?”

“Un drone ed un robot artificiere sono un altro paio di maniche. Non si può metterli sullo stesso piano di quei cosi che stai per tentare di vendere al nostro Governo! Ti rendi conto che hai costruito delle macchine programmate per uccidere?”

“Sono programmati per uccidere il nemico.”

“E chi è il nemico? Definiscimi nemico! Un uomo con un turbante in testa? È così che AX-1 seleziona il bersaglio perché allora hai un grosso problema amico!”

“AX-1, Jim, possiede un multiprocessore ed un programma che gli permettono di identificare fino a 500 obbiettivi potenzialmente pericolosi allo stesso tempo e, credimi, i parametri scelti non sono solo i capi di vestiario, per quanto esotici possano essere.”

“Molto bene! Allora facciamo finta che AX-1 riesca ad affrontare il nemico in campo aperto con successo, cosa di cui sinceramente dubito molto, gesticolò nervosamente con le mani, distraendo per un istante Simon,però, per amore di conversazione, prenderò per buono quello che mi dici. Cosa succede quando il tuo campione di metallo entra dentro un villaggio? Cosa succede quando AX-1 deve stanare un talebano che si è annidato dentro un ospedale civile o una scuola?”

“Jim, cercò di spiegare con infinita pazienza, AX-1 è nato proprio per questo. Le bombe intelligenti hanno un limite, un limite che AX-1 supera ed è proprio l’esigenza di colpire bersagli specifici che ci ha portato a pensare e progettare un androide da combattimento multi-ruolo.

Può agire come fanteria pesante, può fungere da cecchino, da incursore e grazie al modulo CJP- 1 può anche compiere operazioni aeree.”

“Grazie a Susan, eh?”

Simon era in imbarazzo. Non avrebbe dovuto tirare in ballo, anche se indirettamente, Susan. Lei non avrebbe gradito una cosa del genere. Si diede dello stupido e tentò di rimediare sviando il discorso: “Jim, ancora non capisco il motivo di questo incontro e, francamente, il tuo tempo si sta rapidamente esaurendo.”

“AX-1 è una fregatura! Lo sai anche tu! Non ci credo che tu sia così sicuro del tuo mostro meccanico! Ti rendi conto che affiderai la sicurezza dei nostri soldati e la vita di chissà quanti civili innocenti ad un computer?! E se si surriscaldasse? Se avvenisse un guasto che gli impedisse di funzionare come dovrebbe?”

“E quando un colpo di mortaio uccide un civile? Quando ad un posto di blocco i militari sparano contro un auto, convinti che siano dei kamikaze, salvo poi scoprire che era una famiglia del tutto innocua? Credi che AX-1 alzerà i fattori di rischi che provocano la morte dei civili in guerra? O quelli che costano la vita ai ragazzi che mandiamo in Medio Oriente? Avanti, Jim! Sii realista!

AX-1non solo non aumenta quel rischio ma lo diminuisce. Certo, può esserci un malfunzionamento anche nel sistema più collaudato e sicuro del mondo! Ma l’impiego su larga scala di questi robot abbasserà complessivamente il numero dei così detti danni collaterali in guerra! Inoltre, Jim, l’esercito li vuole! Un soldato che non deve essere addestrato per mesi ma che ha bisogno solo di una programmazione di poche ore. Un combattente che non ha bisogno di mangiare grazie alla sua pila agli ioni. Un arma che non necessita di qualcuno che la impugni o la guidi perché può utilizzarsi da sola, pensando, decidendo di applicare, in caso di necessità, la strategia migliore.

AX-1 ha dei costi elevati ma può essere riutilizzato, a differenza di missili e bombe. AX-1 è stato costruito per mettere in atto manovre di disimpegno che gli consentono di prevenire danni a sé stesso e conservare al meglio le proprie funzioni per la successiva missione.

Jim, ascoltami te ne prego, era un appello accorato, sincero, hai investito tutta la tua vita nel Progetto Master Men, hai dedicato tutta la tua intelligenza e le tue risorse mentali al suo perfezionamento e alla sua attuazione ma guarda cosa è successo! Mi avevi detto che eravamo pronti per la sperimentazione sugli esseri umani. Mi avevi detto che il margine di rischio era ridotto a meno dell’1 per cento e che avevi ottenuto risultati strabilianti sulle cavie da laboratorio.

Il risultato? 10 marines morti. 10 giovani, marines, ragazzi nel fiori degli anni, stroncati l’uno dopo l’altro dal collasso di tutti gli organi. Li ricordi Jim? Ricordi come urlavano sui tavoli dell’infermeria mentre cercavamo di capire cosa gli stesse succedendo? Io lo ricordo, Jim.

Ricordo anche che, fino all’ultimo, ho cercato di difenderti agli occhi dei militari, del mio stesso consiglio d’amministrazione, salvo poi scoprire che tutti i dati che mi avevi sottoposto erano stati falsati! JIM MI HAI MENTITO! Ed è questa una delle cose che mi ha fatto più male! Ti avevo dato tutto! Ti ho permesso di portare avanti il tuo progetto, il tuo sogno, anche quando più d’una persona a Washington mi palesò la propria opinione contraria. Io ho fatto di tutto, compreso mettere in ballo il mio culo per te e poi salta fuori che mi avevi propinato un sacco di balle!

Barr era ammutolito. Non era riuscito a replicare a quello che era uno sfogo di Simon. Ed ora vieni qui, a farmi la morale su AX-1! Da non credere! Senza offesa, Jim! Tu sei l’ultima persona che dovrebbe parlare dei rischi connessi a qualsiasi cosa!”

“Tu non vuoi capire!Piagnucolò Jim Barr, tentando di ritrovare il controllo di sé stesso e riprendere il filo del discorso che avrebbe voluto fargli. Ti sei affidato completamente a Sivana! Ti sei fatto irretire dalle sue promesse, le promesse di un pazzoide squinternato che è stato allontanato da tutti i circoli scientifici degni di questo…” Jim non finì la frase. Lo sguardo di Simon Azam era eloquente. Non c’era più traccia della compassione dettata dalla vecchia amicizia o dalla semplice umanità. Erano gli occhi di un vecchio quelli che fissava, un vecchio severo, indurito dallo scorrere del tempo, freddi come la nuda roccia. Per un uomo di quell’età, quegli occhi sarebbero sembrati fuori posto ma Simon era questo, un pericolo celato sotto le sembianze di un affabile uomo d’affari.

“Questo non dovevi dirlo, ammonì con così gelido vigore da far provare un brivido alla schiena a Barr, è un colpo basso. Stai attaccando una persona che non è qui per difendersi. Stai attaccando una persona che ti è stata amica e che ha parlato in tua difesa, sebbene il tuo progetto fosse in concorrenza con il suo. Taddeus Sivana non ha mai detto una sola parola cattiva nei tuoi confronti e i suoi giudizi su te ed il tuo lavoro, non sono mai stati men che rispettosi. Anche quando i tuoi stessi assistenti ti scaricarono dandoti del pazzo e dell’assassino. Sivana ha lavorato duro al suo progetto, sacrificando il proprio tempo, la propria famiglia, la propria salute fisica pur di onorare un impegno che aveva assunto con il sottoscritto. Ero disposto ad ascoltarti, James. Davvero e solo il cielo sa perché. Però non sono disposto a lasciarti spargere merda su un collega che ti è stato leale anche quando tutti ti hanno voltato le spalle. Ora abbiamo finito.”

Quell’ultima frase era come un muro insormontabile, una porta chiusa, stavolta per sempre, attraverso cui Jim Barr non poteva più passare. Aprì la bocca diverse volte, gli occhi inumiditi dal pianto, tentò vanamente di discolparsi ma i pensieri erano confusi e non riuscivano a farsi parola. Portò i pugni al petto, il capo sporto in avanti, leggermente piegato sulle ginocchia, la cravatta marrone scuro che penzolava fuori, mal annodata e rovinata. “Mi dispiace …” Riuscì a balbettare dopo quella che doveva essere stata una dura battaglia interiore.

“Anche a me. Poi, raddolcitosi un po’ per via della pietà che quella figura patetica gli ispirava.So che hai bruciato tutti i soldi della tua liquidazione ed i tuoi risparmi in quell’impresa che è naufragata solo dopo tre mesi. Jim, sei al verde. Completamente. Passa dalla mia segretaria, ti farò avere un po’ di contanti ed un assegno. Se il conto corrente è ancora quello, o se ne hai uno nuovo comunicale gli estremi, ti farò depositare del denaro sopra. Non sperperarlo stavolta. Vattene dalla  California, scegli un posto tranquillo, vivi una vita tranquilla e dimenticati tutta questa merda. Anche quella che hai fatto tu.” Dette una lieve pacca sulla spalla all’uomo. Un gesto di triste affetto. Un addio.

Quando uscì dalla stanza dove aveva ricevuto l’ex ricercatore ed amico, questi si lasciò andare ad un lungo, disperato pianto.

 

 

II

 

Los Angeles, California – 13 Settembre.

 

A Billy non era parso vero. Il volo in elicottero, la Crysler che l’aspettava all’eliporto della Fawcett e Fawcett, lo shopping. I negozzi di Bel Air avevano vetrine scintillanti, variopinte ed urlavano “Se hai una golden card posso venderti anche il Paradiso!”.

Per questo motivo, dopo qualche giro, quasi supplicò Cee Cee di portarlo in una zona più popolare.

L’autista era in borghese, occhiali da sole, i capelli scalati tenuti fermi da un cerchietto. Billy deglutì un paio di volte cercando di toglierle gli occhi di dosso. Era un ragazzino e lei una stipendiata che probabilmente non era nemmeno troppo contenta di doversene occupare.

“Conosco un posto dove sicuramente ti sentirai più a tuo agio.” Non c’era traccia di fastidio nella sua voce. Non era confidenza o vera cortesia ma nemmeno fastidio ed il che, per Billy, era già un inizio.

“Il Signor Azam ha molti elicotteri?” Il silenzio nell’auto non gli piaceva, così come non gli piaceva sedere sul retro. Lo imbarazzava non poco.

“Elicotterei, aerei ed imbarcazioni. Si. Se vuoi sapere il numero esatto degli elicotteri, oltre al Bell su cui siamo arrivati qui, ha altri due elicotteri a suo nome più altri venti che appartengono alla compagnia.” Billy fischiò ammirato e subito si sentì uno stupdio.

Simon Azam era un uomo ricco. Molto ricco e quanto, Billy non sapeva proprio dirlo. Questo faceva anche di lui un ragazzo ricco? Come Richie Rich si disse senza trattenere un sorriso compiaciuto che subito smorzò, sincerandosi che Cee Cee non lo stesse guardando. Cosa accadesse al di là del confine delle lenti foto-cromatiche non era facile da stabilire ma decise, o meglio sperò, che in quel momento fosse stata più interessata alla strada che non a lui. Non doveva dimenticare che era l’ultimo arrivato in casa Azam, forse poco più di un capriccio di chi voleva mettersi la coscienza a posto. Quanto sarebbe durata? Al meglio, poteva aspettarsi gli studi pagati, la possibilità di una lettera di presentazione per un qualche lavoro che non gli sarebbe stato rifiutato. Si accomodò meglio sul sedile postieriore, tentando di sciogliersi e vincere l’opprimente senso di disagio che lo continuava ad accompagnare. La prospettiva che s’era figurato, in quegli anni di nera crisi in cui i servizi televisivi parlavano di ragazzi che tiravano a campare con il sussidio di disoccupazione accontentandosi di un pasto al giorno, era molto più di quello che s’era aspettato per la propria vita. Non aveva talenti particolari. Non sapeva fare nulla di speciale. A scuola era sempre andato bene ma senza eccellere in alcuna materia e per quanto riguardava le borse di studio sportive, non erano per lui. Troppo basso per il basket. Troppo gracile per il football. Una totale schiappa a baseball. Se la cavava bene con la ginnastica ma non era certo un atleta da competizione.

Aveva quasi 13 anni e non aveva neppure ben chiaro in mente cosa avrebbe voluto fare tra qualche anno. Il College lo aveva escluso in passato per mancanza di mezzi e perché dubitava di poter vincere una qualche borsa di studio ma ora, di sicuro, Azam glielo avrebbe proposto, se fosse durato a sufficienza come figlio adottivo.

“ È da molto che lavori per Azam?” Chiese per distrarsi da quei pensieri.

“Cinque anni.”

“Ti chiami davvero Cee Cee?” Forse era una domanda troppo impertinente ma probabilmente lei non la pensava allo stesso modo e rispose: “ Cissie. Cissie Sommerly. C.C. era uno zio materno a cui ero molto legata. Mi soprannominavano tutti così, da piccola, perché passavo molto tempo con lui. Praticamente mi ha allevato.”

Billy sorrise, evitò accuratamente di chiederle il perché e disse: “ Anch’io sono stato cresciuto da uno zio materno, per un certo periodo. Sia io che mia sorella, Mary. Lo zio però stava male, aveva l’alzheimer ed è stato portato in una struttura a lunga degenza. Un posto di quelli dove non vorresti mai stare, nemmeno un minuto. Disse con sconfinata tristezza. Cissie gli lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore, meravigliandosi di quanto quel ragazzino sembrasse grande, nonostante la giovanissima età. È stato un bel periodo. Raccontava un sacco di storie, tutte inventate. Erano frottole ma di quelle divertenti. In particolare ci piaceva quando ci raccontava le sue storie di marina. Sorrise mentre gli pareva di poterle ancora sentire, mentre guardava il mondo fuori dal finestrino. Quello che so è che ha passato davvero qualche hanno della sua vita nella marina. Cinque, come marinaio semplice. Poi si è imbarcato su un mercantile per altri due anni e poi, non so, è semplicemente sceso a terra e non è più ripartito.”

“Anche mio zio raccontava storie di guerra. A sentirlo, aveva dieci Medaglie del Congresso! In realtà aveva ricevuto una medaglia per il suo lavoro come responsabile del magazzino della caserma dove è stato per tre anni.”

Risero entrambi. C’era solidarietà, allegria e un pizzico di nostalgia in quelle risate.

“Probabilmente si sarebbero piaciuti, ipotizzò Billy, e avrebbero passato il tempo a giocare a chi la sparava più grossa!”

Cissie annuì e dopo un po’, rallentò accostando: “Siamo arrivati. Questo è il centro commerciale Sanders. Quanto di meglio tu possa trovare se cerchi moda giovane, roba da ragazzi della tua età, videogames e quant’altro. Ti aspetto qui. Tu fai con comodo.”

“Non vieni?” Si rimproverò nuovamente per aver fatto trasparire la propria delusione.

“Non preoccuparti. Ho il cellulare. Se hai bisogno di qualcosa, fai uno squillo. Hai memorizzato il numero sul cellulare che ti ha dato Tiger, vero?”

“Si. Allora a tra poco e grazie.”

“Di nulla.”

Billy si allontanò, sotto lo sguardo di Cee Cee che lo seguì fino all’ingresso del centro commerciale.

“Gli siete dietro, vero?” Chiese dopo alcuni secondi e, in risposta, una voce all’auricolare:

“Sissignora. Io e Beck gli siamo dietro, invisibili come due angioletti custodi.”

“Non fare lo spiritoso. Non perdetelo di vista. Tiger mangerà le vostre palle a colazione se doveste perderlo anche per meno di un minuto.”

“Tiger non avrà le nostre palle, madame.” Fece allegro.

“Non sto scherzando. Intendo sulla storia delle palle.”

Non arrivò subito risposta.

“Ricevuto. Passo e chiudo.”

Cee Cee ridacchiò divertita pensando a Beck che se la stava facendo sotto al pensiero di Tamerlano Tiger che gli strappava i testicoli per mangiarseli. Per quanto ne sapeva lei, effettivamente, sarebbe stato capacissimo di farlo.

 

 

III

 

Otto Bulding, sede della Fawcett e Fawcett, Los Angeles California – 13 Novembre.

 

“Eccolo il mio Leonardo del ventunesimo secolo!” Simon Azam diede un’amichevole pacca a Thaddeus Sivana che, colto alla sprovvista, trasecolò solo per sorridergli calorosamente pochi istanti dopo, il tempo che gli era necessario per riprendersi dalla sorpresa. Si aggiustò gli occhiali sul naso e Simon notò che ne aveva un paio nuovi, con una montatura molto più moderna e piacevole da guardare. Sivana, come indovinandone i pensieri: “Li ha scelti mia figlia per me. Ha detto che avevo bisogno di un nuovo look.”

Effettivamente, Simon constatò che gli occhiali gli stavano bene, rendendo meno severo e stralunato il suo volto, non bellissimo ma alla fine nemmeno completamente inguardabile. Aveva dato un’aggiustata ai capelli, comprato un bel completo dai colori chiari per quella giornata e persino la cravatta, sebbene non perfettamente in tinta era bella e ben annodata.

“Anche questo è merito di tua figlia?” Chiese divertito Simon.

“Come ti ho detto, pensa che mi servisse un nuovo look.”

“Ha ragione.”

“Non ero decoroso quello vecchio?”

“Certo che lo era ma era anche demodé e non certo il massimo. Guardati. Ora non solo sei uno scienziato da premio Nobel ma lo sembri anche! Sai che dovresti dare retta a tua figlia e cominciare a stipendiarla.”

“Lo sospettavo.”

“E tuo figlio che dice?”

“Ha scelto l’orologio, mostrò un bell’esemplare in acciaio, dal quadrante bianco, molto semplice, sobrio ed elegante, e mi ha consigliato di fare un po’ di palestra! Ci credi? Hanno ripreso dalla madre.”

“Ti adorano. Almeno quanto tu adori loro. Dagli retta, un po’ di sport ti farebbe bene. Magari potremmo allenarci un po’ alla palestra dell’azienda. Lo sapevi vero che ne avevamo una?”

“Lo sospettavo. Credo anche di sapere qualce sia il piano ma l’ho sempre accuratamente evitato. Però se mi dici che ci andiamo insieme.”

“Sarò il tuo personal trainer.”

“Vuoi vedere che mi faccio i muscoli stavolta?” Era allegro, di buon umore. Thaddeus Sivana era nel suo momento migliore. Simon non poté non paragonarlo a James Barr, un uomo distrutto, professionalmente ed umanamente finito. Sorrise con calore allo scienziato. Si era guadagnato quel momento ed il diritto alla felicità.

“Ti farò diventare un divo di Hollywood. Dovrò nasconderti perché se no qualche agente ti proporrà di fare la star di uno di quei film tutta azione ed adrenalina che piacciono tanto. Però, oggi, sei mio, caro Thaddeus! Il mio campione è pronto a scendere nella fossa dei leoni e fargli vedere i sorci verdi?”

“Io e AX-1? Prontissimi.”

“Tad, solo una cosa prima di andare.”

“Dimmi tutto.”

“Grazie per tutti questi anni di leale amicizia e dedizione al lavoro.”

Thaddeus Sivana tentò di rispondere ma non ci riuscì subito. “Grazie a te.” Disse alla fine.

“Dovremmo ridiscutere la tua posizione nell’azienda.”

“Posizione?”

“Tad, credo che non dovresti esserne solo un dipendente, per quanto apprezzato. Ti vorrei come socio.”

Sivana si tolse gli occhiali e lo fissò con grande serietà.

“Non ho mai avuto un amico come te.”

“La mia amicizia te la sei meritata tutta. Si va?”

“Andiamo!” Esclamò lui con energia.

“Sai, dovrei chiedere a tuo figlio dei consigli sui miei orologi. Ha ottimo gusto! Oh, ti dispiace darmi un attimo? Vescica piena!”

“Certo capo! Ti aspetto di là.”

Simon Azam lo guardò sorridendo mentre usciva dall’ufficio.

Prese il cellulare e chiamò Tiger.

“T.T., tutto bene?”

“Cee Cee e Beck sono con il ragazzo.” Rispose la voce profonda del suo braccio destro.

“Ho visto Barr.”

“Cosa voleva?”

“Una seconda occasione.”

“Tu che gli hai detto?”

“Secondo te?”

“Sei preoccupato?”

“Ti sembro preoccupato?”

“Assolutamente si.”

“Avresti dovuto vederlo. Sembrava la caricatura di sé stesso. Era sul punto di spezzarsi. Ho un brutto presentimento.”

“Non è mai stato un uomo pericoloso, lo sai.”

“Non credevamo nemmeno ai nostri occhi quando scoprimmo che ci aveva imbrogliato. Ricordi?”

“Devo dartene atto.”

“Forse c’è lui dietro la storia dell’evasione.”

“Sei serio?”

“Lo sono.”

“Non ne sapeva niente. Jim non sapeva niente di lui. Come avrebbe potuto?”

“Magari su questo sono paranoico ma teniamolo comunque d’occhio. D’accordo?”

“Consideralo fatto.”

“Ti saluto.”

Simon Homer Azam chiuse la comunicazione e raggiunse Thaddeus Sivana, le preoccupazioni ed i sospetti ben nascosti dietro la sua maschera di uomo d’affari garbato e amichevole.

 

 

 

IV

 

I commessi nel negozio stavano rispettivamente leggendo un numero di tatto magazine, la rivista degli amanti dei tatuaggi come recitava lo slogan sulla lucida copertina da cui sorrideva sorniona una brunetta vestita da pin-up con le braccia ricoperte di tatuaggi, e Armi da Fuoco.

Nessuno dei due lo degnò di qualcosa di più di un’occhiata e Billy ne fu felice. Non amava le attenzioni quando andava a fare compere. Non andava a fare compere da anni si disse. All’istituto c’era poca scelta sui capi di vestiario.

Aveva scelto quel negozio attirato dall’insegna che prometteva acquisti alla moda per prezzi stracciati. Nonostante avesse a disposizione un budget consistente non voleva approfittarne. Il locale era vuoto e dopo di lui entrò un tizio che sembrava un po’ troppo grande per il tipo di vestiario che vendevano lì ma, del resto, gli USA erano un paese libero. Ognuno era libero di vestirsi come meglio credeva. Senza limiti di età, sesso, razza o religione.

“Dio benedica l’America!” Sussurrò alzando le spalle.

 Prese un paio di magliette e andò a provarsele. Ne mise una con le maniche lunghe sotto una a maniche corte con il collo svasato.

“Non male. Moderno, trendy, un po’ post-grunge magari. Sei un playboy Billy Batson!” Strizzò l’occhio allo specchio da cui la sua copia lo guardava sorridendo e fece il cenno di sparare un colpo con indice e pollice.

Uscì fuori, riposò le magliette e si mise nuovamente a scegliere. Blu e marrone erano un accostamento migliore nella sua mente ma nella realtà, indosso a lui, non gli era sembrato gran ché.

Vide due maglie, una gialla e l’altra rossa. “Così sembrerei un fuoco d’artificio, fece tirandole su entrambe,e poi chi diavolo vorrebbe vestirsi di rosso e giallo?”

“Io.”

Si voltò e incontrò lo sguardo di lei.

Era un paio di centimetri più alta di lui. Bionda, capelli lisci, occhi azzurri. Portava un top bianco con su scritto “Booble gum!” fatta di strass, una minigonna di jeans forse un po’ troppo corta per una ragazzina così giovane, stivaletti bianchi scamosciati, corti, con il tacco largo. La borsetta a tracollo, l’I-pod che pendeva dal collo, gli occhiali da sole tirati su, cerchi piuttosto vistosi alle orecchie e trucco troppo pesante. Era magra, come le amiche che le stavano vicino e ridacchiavano.

“Sei una bellezza!” Si immaginò di dirle. “Stasera fai qualcosa?” Provò a pensare che forse era l’approccio migliore.

“Piacere, Billy Batson.” Si sarebbe dato volentieri una martellata sui denti da solo se avesse avuto a disposizione lo strumento adatto. Era lì, una maglia per mano, con lo sguardo ebete e quel piacere Billy Batson incespicato uscitogli dalla bocca.

“Di dove sei?” Chiese lei con la bocca atteggiata ad un mezzo sorriso, mentre le due amiche sghignazzavano.

“Berkley.”

“Me l’ero immaginato.”

“Per via dell’accento?”

“Perché è un posto da sfigati. A parte El Paso, è il più grande fornitore di sfigati della California.”

Improvvisamente a Billy venne voglia di dirle che s’era accorto che il biondo dei capelli non era naturale e che le lenti a contatto azzurre le davano l’aria d’una trucida quasi quanto l’eccessiva abbronzatura della pelle.

“Non è così male come posto.” Minimizzò invece la battuta di lei.

“Li abbiamo stracciato due volte quest’anno.”

“Li?”

“La Kennedy School. Le nostre squadre di Football e Baskett, i cui colori sono rosso e oro, mani ai fianchi accennò con un sopraciglio in direzione delle maglie che Billy teneva ancora su, hanno stracciato le due scuole più importanti della tua città. Tu non hai l’aria di uno che gioca a Football, o a Basket.” Altre risate.

“Preferisco il gioco degli scacchi.” Se voleva essere una battuta era pessima.

“Anche questo me lo ero immaginato.” Lo squadrò dall’alto in basso.

“Grazie per il benvenuto in città.” Con il tono più amichevole che riuscì a simulare.

Andò alla cassa, pagò le due maglie e se ne uscì.

Uscendo urtò un energumeno, che lo guardò in cagnesco nonostante si fosse scusato quasi immediatamente.

“Che città!” Si disse. Non era certo che Los Angeles gli sarebbe piaciuta.

C’era un chiosco che vendeva hot dogs e nachos. Pensò che a Cissie sarebbe piaciuto mangiare qualcosa ed il suo budget gli permetteva di pagare il pranzo ad entrambi.

“Hai fatto il buco nell’acqua con la reginetta del ballo. Ora lo facciamo anche con la femme fatale.”

Almeno, si disse, Cissie era simpatica ed educata. Non le sarebbe dispiaciuto mangiare con lui prima di riprendere i giri.

Pagò due hot dogs, due coche e una confezione maxi di nachos con le salsine. Si ritrovò a pensare che non potevano mangiare quella roba in macchina o l’avrebbero ridotta un piccolo porcile. Lungo la via aveva visto dei tavolini, poco distanti dal centro commerciale, in una specie di isola verde dove si sarebbero potuti fermare qualche minuto.

Quando si voltò si ritrovò l’energumeno di prima davanti.

“Vai a mangiare cerebroleso?”

Non se l’era trovato davanti, si corresse subito, gli sbarrava la strada.

Con il sacchetto in mano e l’aria dubbiosa: “Prego?”

Il pugnò gli spaccò il labbro mandandolo contro una panchina. Colpendola cadde all’indietro e le immagini si offuscarono.

“SEI IMPAZZITO!” Era la ragazza finto-bionda che urlava al tipo. Lui se la scrollò di dosso e tornò alla carica. Billy si rialzò barcollando, un formicolio che dalla testa s’estendeva al collo e al braccio.

“M’ammazza.” Pensò cercando di capire cosa avrebbe dovuto fare per non rimetterci le penne.

Prima che un secondo pugno gli si abbattesse sul volto vide il braccio del suo aggressore bloccato.

“Fermo là, bello!” Aveva già visto quel tizio. Fisico normale, capelli biondi, una mosca sul mento, l’aria un po’ trasandata, sulla trentina.

“TOGLIMI LE MANI DI DOSSO!” Con sua sorpresa, il bestione non si riuscì a liberare della presa e provò una fitta di dolore quando quello gli torse il braccio, portandoglielo dietro la schiena.

“Calmiamoci tutti. Ok? Perché hai picchiato il ragazzo?”

“Ci stava provando con la mia ragazza …” Sibilò per il dolore.

“Non è vero …” Billy parlò come se non fosse nemmeno veramente lì. Non era nemmeno sicuro di essere stato lui a parlare. Ondeggiava tenendosi la testa. Un signora era corsa da lui chiedendogli come stesse. Cercò di rassicurarla ma non ci riuscì molto bene.

“NON È VERO!” Confermò la ragazza dai finti occhi azzurri, lanciando poi un’occhiata assassina alle sue amiche che se avessero potuto, si sarebbero sepolte vive in quel momento.

“Devi andare all’ospedale a farti vedere!” Fece la signora.

“Lo porterò io.” Disse l’uomo che aveva salvato Billy. Lasciò andare il ragazzo che era stato costretto con il ginocchio in terra.

“Lo conosci?” Chiese la signora a Billy senza staccare gli occhi di dosso all’uomo.

“Non mi conosce ma io conosco lui. È figlio di un mio collega, l’ho riconosciuto. La sorella lo aspetta qui fuori su una crysler. Vero?”

“Billy annuì.”

“Ho riconosciuto subito tua sorella Cee Cee anche se è un po’ che non la vedevo. Tu ti ricordi di me? Lavoravo nell’ufficio di tuo padre. Mi chiamo Beck.”

“Certo. Mi ricordo …” Confermò Billy sorridendo.

La signora parve rassicurata. Il ragazzo che l’aveva aggredito si era rialzato e prese per il polso la sua ragazza trascinandosela dietro.

“Hey …”

“Lascia stare, ammonì Beck, non immischiarti. Un labbro spaccato è abbastanza per una giornata di shopping a Los Angeles, no?”

Sorrise amichevole.

Billy seguì il consiglio e lo sconosciuto, che lo portò da Cissie.

Decise che Los Angeles non gli sarebbe decisamente piaciuta.

 

 

V

 

Downtown, Los Angeles, California – 17 Novembre

 

Il piccolo uomo vestito con una giacca color verde scuro a costine ed un paio di pantaloni sabbia camminava disinvolto tra le due grandi e massicce guardie del corpo afroamericane.

Entrambe, pensò l’uomo, erano lo stereotipo del gangster di colore degli anni 2000.

Completo costoso, una taglia più grande, fisici ipertrofici, occhiali scuri, cavezze ed anelli d’oro.

Seduto su di una poltrona di pelle rossa, quasi fosse un trono, stava il capo di una delle più spietate ed attive gang della California. Alla destra e alla sinistra due delle sue ragazze-party, così le chiamava.

La stanza dove era stato ricevuto era grande, con un palco per la lap dance, al tipo doveva piacere farsi intrattenere pensò tra sé e sé, grandi casse ed una postazione per il dj.

C’erano un paio di grandi divani neri, uno schermo al plasma sul cui numero di pollici non era certo, una basso tavolino dove stava una console e diverse buste di patatine aperte. Intravide con la coda dell’occhio i resti di quella che era stata una pista innevata con tanto di banconota da cento arrotolata vicino ed in bella vista.

Alle pareti alcuni quadri, arte contemporanea. Chi li aveva acquistati doveva essersi fatto impressionare da qualche scaltro mercante d’arte con il risultato che quest’ultimo si era disfatto di imitazioni da quattro soldi di Basquiat e Dalì, svuotando la galleria e riempiendo il portafogli, mentre l’acquirente era divenuto il felice e compiaciuto proprietario di pacchianate che nessun collezionista serio avrebbe mai e poi mai voluto nella propria casa. Nemmeno nella rimessa degli attrezzi da giardino.

Il re indiscusso di quel castello, un’imponente palazzina un tempo adibita a fabbrica di imballaggi, rimodernata e comprata per essere trasformata in una lussuosa centrale del crimine, si grattò distrattamente il mento. Indossava una conotta bianca che mostrava le braccia muscolose, ricoperte di tatuaggi, e metteva in risalto, con il suo candore, il nero della pelle.

Pur essendo un afroamericano era eccezionalmente scuro, al punto da sembrare un pezzo di carbone. Le sue labbra carnose erano atteggiate in una smorfia di disgusto, il berretto portato storto, con un’enorme patacca della polizia, se vera o meno non riuscì a stabilirlo, appuntata sopra gli dava un’aria scimmiesca quasi comica.

Nella stanza c’era un altro uomo. Dalle sue informazioni doveva essere il manager che curava i suoi interessi musicali.

“Allora? Il tono era annoiato e pregno d’infastidita arroganza. Quali sono gli affari di cui mi dovresti parlare? Non sono in molti a venire qui e ancora meno quelli che ricevo. Spera di non avermi fatto perdere tempo.”

Lui sorrise. Era stereotipato proprio come i suoi sottoposti e le sue bagasce da due soldi. Questo pensò.

“La ringrazio per avermi ricevuto, signore e per di più con così poco preavviso. Le assicuro che non le farò perdere il suo prezioso tempo.”

“Papi! Lorna è annoiata, squittì una delle due ragazze, il cui seno era stato palesemente gonfiato, perché non porti Lorna a fare shopping?”

La collega si destò come dal sonno in cui pareva sprofondata poco prima, annuendo con gli occhi che le brillavano ma il loro padrone le zittì con un cenno della mano.

Doveva ammettere che il modo in cui lo fece era da manuale, con l’indice sollevato in alto, il pollice rivolto verso l’interno, le altre dita semi chiuse ed il polso piegato con il giusto angolo.

“Per ora hai parlato già troppo e non mi hai detto ancora nulla. Come ha detto di chiamarsi T-Bob?” Il nero alla sua sinistra rispose: “Alvin Seville, signore.”

“Alvin Seville? Dove ho già sentito questo cazzo di nome?” S’interrogò lui.

Il sedicente Alvin era soddisfatto. Aveva appena vinto una scommessa. Parlò con pacatezza, in modo rassicurante: “ Signore, mi permetta di spiegarle di cosa mi occupo. Per prima cosa, lavoro su commissione e può considerarmi come un esperto di finanza e gestione aziendale. Quello di cui mi interesso sono le aziende.”

“E qui che cazzo ci sei venuto a fare?” Chiese per nulla impressionato e sempre meno ben disposto il suo interlocutore.

“Sono nel posto giusto, visto che come le dicevo, mi occupo di aziende. La vostra è, a tutti gli effetti, una vera impresa con tanto di presidente, lei, consiglio d’amministrazione, i suoi soci in affari, dipendenti con vari inquadramenti, come ad esempio il qui vicino T-Bone e …? L’altra guardia del corpo esitò qualche istante ma ad un cenno del suo capo rispose Jahmal. Alvin sorrise e ripeté il nome Jahamal, la signorina Lorna e via discorrendo. Ha un capitale che proviene in parte dalle sue attività e che reinveste per migliorare l’efficienza della sua azienda.

Certo, qualcuno potrebbe obbiettare che gli interessi di questo tipo di impresa non siano propriamente legale ma, accipicchia, anche la Coca Cola o McDonalds ogni tanto hanno forzato la mano la mano, muovendosi sul pelo della legalità. Lei ha messo su un’impresa che rifornisce produce giovani promesse dell’Hip Hop si produsse in un gesto da rapper che gli valse solo una smorfia di disgusto da parte dei presenti,, le più quotate e trasmesse da canali storici come MTV e che riempie i migliori club giù in città. Club che, tra l’altro, rifornisce di cocaina di ottima qualità. In questo ha battuto i suoi rivali colombiani, distruggendoli e ha relegato i messicani e gli altri latini alla gestione delle droghe leggere. Un brutto colpo per loro. Lei è un uomo di successo, perché negarlo? La sua impresa è vitale, forte, estremamente remunerativa. Quello che faccio io con esattezza, è trovare imprese come le sue ed acquistarle.”

L’enorme boss si sporse in avanti, la mano al ginocchio, l’aria tra l’incredulo ed il divertito.

“Fammi capire bene, Mr. ometto bianco. Sei venuto fin qui per dirmi che vorresti comprarti la mia attività?”

“Assolutamente no. Come le ho già detto io lavoro per conto di altri. L’acquisizione non è una mia iniziativa. La conduco per conto di un cliente. Il mio cliente è molto, molto interessato alla sua attività e pronto a pagare una cifra considerevole per rilevarla. La gestione rimarrebbe la stessa ma lui acquisirebbe il controllo di maggioranza della società.”

“E giusto per ridere. Quale sarebbe l’offerta?”

“Risparmierà le vostre vite se lavorerete per lui.”

Il manager spruzzò dal naso una considerevole quantità di birra che aveva stava ingollando.

Occhi sbarrati si fissarono sul piccolo, fragile Alvin che invece pareva essere l’uomo più tranquillo del mondo, quasi non fosse nemmeno veramente lì.

Ci fu uno scoppio fragoroso di risa. Persino le guardie ridevano a crepapelle, ed il loro capo sollevò gli occhiali da sole per asciugare le lacrime.

“Davvero? Cioè, tu,  Mr. pisello pallido, vieni fino a qui per sparare una cazzata del genere?”

“Temo proprio di si.” Sorrise paziente.

“Lo sai vero, che non te ne andrai. Non vivo intendo.”

“Immaginavo una sua reazione in questo senso.”

Il grande e grosso capo fece un cenno a quello chiamato Jahahal tirò fuori la pistola puntandola alla tempia dell’uomo. “Hai un ultima stronzata da sparare prima che ti faccia schizzare quel cervello di merda dalla testa?”

“Si. Jamahal, tu non mi sparerai.”

“Ah, no? E perché?” Fece quello ancora ridacchiando.

“ Perché quando te lo dirò sparai a T-Bone, in testa. Poi voglio che tu uccida il manager del tuo capo e le sue due accompagnatrici. Una volta finito farai schizzare il tuo di cervello fuori dal cranio.

Tutto chiaro?”

“Oh, oh si badrone!” Risero tutti sguaiatamente.

“Bene, esegui.”

Jamhal non era certo un tiratore provetto ma T-Bone era vicino e lo colpì alla gola e poi in fronte.

Il manager finì contro il divano che si rovesciò, facendolo comicamente rotolare all’indietro. Comicamente se non fosse stato per i proiettili che gli avevano trapassato spalla e addome.

Lorna si accorse a malapenna di avere un seno massacrato da tre proiettili prima che il quarto, diretto contro di lei, s’infrangesse contro i denti.

L’altra finì faccia a terra, un colpo nella nuca ed un secondo nella schiena.

Per Jamahal l’ultimo tiro fu il più semplice. Si puntò la pistola all’occhio destro e spinse il grilletto senza esitazioni, senza paura, senza nemmeno tremare.

 

VI

 

Downtown, Los Angeles, California – 17 Novembre

 

L’uomo chiamato Alvin era compiaciuto, lì, nel suo completo macchiato di schizzi di sangue, imperturbabile, pacioso, sorridente come se si preparasse ad andare in chiesa o partecipare ad una qualche gita domenicale.

“Non ti muovere.”

L’altro, nonostante il terrore non riuscì a muovere un muscolo. Non riuscì a prendere la pistola che portava sempre con sé.

“CHE CAZZO MI HAI FATTO?!” Ulrò sbavando, gli occhi sbarrati, liberati alla vista quando i suoi grandi occhiali da sole erano caduti a terra.

“Ti ho fatto quello che ho fatto a Jamahal e che faccio a tutti quanti quelli che non sono abbastanza svegli e saggi da darmi retta.”

“CHI CAZZO?...”

“È MAI POSSIBILE CHE TU NON RIESCA A DIRE NULLA SENZA QUELL’INTERCALARE?! Sbaraitò all’imrpovviso, come un cane inferocito. TUTTA LA TUA VITA È UNA MISERABILE SEQUELA DI FRASI FATTE DA RAPPER O COSA? Quando vide l’altro ammutolito si aggiustò la giacca, compiaciuto. Molto bene. Torniamo agli affari. Come dicevo prima, mi occupo di acquisizione per conto di altri. In questo caso il mio datore di lavoro è qui. Vuole conoscerlo? Bene, perché lui non vedeva l’ora di incontrarla.”

Guardò il cellulare e dopo essersi assicurato che ci fosse l’sms che aspettava fece uno squillo.

Dopo cinque minuti scarsi fece il suo ingresso un altro uomo.

Era alto, molto alto, il volto scavato come da una malattia, la carnagione un tempo doveva essere stata scura ma s’era schiarita, d’un chiarore malsano, come di chi abbia seguito una qualche terapia pesante e piena di controindicazioni.

Indossava una giacca di tessuto nero, pantaloni grigio scuro, una camicia di eguale colore e non portava cravatta.

Avanzò, ai piedi un paio di mocassini fuori moda ma piuttosto eleganti.

Il passo sicuro, gli occhi scuri fissi come quelli d’uno sciacallo a quello che era stata il Re di quel tempio della corruzione.

“Salve capo!” Salutò con allegria Alvin.

“ Sarebbe questo qui?” La sua voce era metallica, monotona e proveniva dall’altezza della cintura. Nonostante fosse sintetica, riusciva ugualmente a trasparire un disprezzo assoluto per quell’ammasso tremante di carne che lo squadrava cercando di capire chi fosse.

“E TU CHI?...Si trattenne dal dire quella parola. Ripensò a quanto Alvin avesse detto prima, alla sua reazione e a come Jamahal si fosse fatto saltare le cervella senza batter ciglio ubbidendo ai suoi comandi. Alvin mostrò un sorrisetto compiaciuto e alzò il pollice destro quasi a dirli bravo ragazzo, tu chi sei?” Tentò di riacquistare il controllo di sé stesso anche se il sangue che gli stava addosso non gli rendeva  facile l’impresa.”

“Chi sono io? Disse quello puntandosi l’indice al petto.Io sono l’alpha e l’omega, io sono … no, aspetta. Non suona troppo pretenzioso?” Chiese improvvisamente con il suo tono piatto ad Alvin.

“No capo! Secondo me vai alla grande! A me il discorso sull’Apha e l’Omega piace! E poi te l’ho detto, un personaggio come te ha bisogno di una frase ad effetto.”

L’altro alzo uno dei folti sopracigli neri, scettico. Tornò ad interessarsi all’impaurito boss che ormai non si sentiva più sicuro.

“Hey, uomo coraggioso! Lo apostrofò sprezzante e poi fece un inequivocabile gesto passando l’indice all’altezza della gola.In caso ti chiedessi che fine hanno fatto gli energumenti che pagavi per fare la guardia all’ingresso principale. Che brutta cosa, assumere personale incompetente ma di questi tempi, lo capisco, ci si deve accontentare. Allora? Come è che ti chiami?”

“Non… non sia chi sono?”

“Ti ho fatto una domanda. Tu rispondi. È una questione di buone maniere.”

“Mi chiamo Black Adam.”

Pensò che era il suo momento fosse giunto. Pensò che l’uomo con lo sguardo folle l’avrebbe azzannato alla gola, squarciandogliela. Non c’era un termine di paragone per descrivere l’odio ed il disgusto che emanava quell’alta ed emaciata figura.

“Adam. Un nome di potere. Il suo cambio d’umore era stato così repentino da far dubitare della sanità mentale di quell’uomo. Mani dietro la schiena, sguardo pensoso. Adam è il nome del primo uomo nella tradizione ebraica ed è formato dalle prime lettere dei nomi che indicavano i punti cardianli nell’antica lingua aramaica. Il suo nome simboleggeva la centralità dell’uomo nel creato e la sua preminenza rispetto alle altre creature di Dio.

È stato Dio a dare all’uomo il nome Adam. Dio in persona. Adam, su mandato di Dio, ha dato nome a tutte le altre creature viventi e cose che stavano su questa terra.

Questo perché Adam avesse potere su di loro e perché Dio aveva potere su Adam. Solo lui.

La linea di comando era Padre Eterno, Adam e tutto il resto.

Adam non conosceva il nome di Dio. Nessuno dei suoi figli lo avrebbe conosciuto. I nomi, le parole, sono potere. Se conosci il vero nome di qualcosa o gliene dai uno hai potere.

E tu? Adam, che hai un nome così importante, cosa hai fatto della tua vita?”

Adam deglutì. “Che vuoi dire?”

“Come hai impiegato il tempo durante il quale hai vissuto?”

“Ho messo su un impero.” Cercò di mostrare orgoglio e dignità ma provocò nell’altro solo una sonora risata.

“Questo? Indicò con un ampio gesto del braccio. Questo piccolo tempio della corruzione e dell’avidità sarebbe il tuo impero? I Persiani, Adam, avevano un impero. I Babilonesi, avevano un impero. Lo hanno avuto, dopo di loro, Cinesi, Romani, Maya, Inca, e le perdute civiltà africane. Il Giappone e la Gran Bretagna, Adam, hanno avuto un impero.

Oh nella tua testa, pensi di essere un Carlo o un Alessandro? Credi di poter rivaleggiare con uomini di quel calibro?” Se lo stesse prendendo in giro o no era impossibile dirlo. Il volto era una maschera inespressiva quasi quanto la voce.

“No.” Forse quella risposta gli avrebbe permesso di conservare la vita.

“Una risposta intelligente. Una risposta non sincera. Tu pensi di essere qualcuno. Hai sempre pensato di essere qualcuno. Qualcuno di importante, di intelligente, qualcuno che ha potere. Il potere, Adam, è qualcosa che si deve sapere gestire una volta che lo si possiede. E tu? Lo hai saputo gestire? Ti dispiace ricordarmi cosa ha fatto Adam?” L’uomo che si era fatto chiamare Alvin, in tono affabile, rispose: “Il Signor Adam, originario della città, ha intrapreso, dopo l’interruzione degli studi avvenuto prima del diploma alle superiori, un ‘interessante carriera, caratterizzata dall’estrema versatilità che ha saputo dimostrare e anche, se me lo permetti, da una certa dose di iniziativa, lodevole poiché gli USA sono il paese dell’iniziativa. Per via delle sue peculiarità, ha recitato in diversi film per adulti, di quelli che hanno il bollino rosso e che non si guardano di certo a Natale con tutta la famiglia riunita intorno alla tv, a meno che non si parli di famiglie particolari, anche se la parole recitare forse è un po’ fuori luogo per quel tipo di produzioni. Performer. Ecco, performer è molto più adatto. Cinque film della serie La Gang Nera e le giovani gattine bionde, e persino due film a suo nome. La Gang gli andava stretta ormai.Ridacchio. Poi conosce un rapper piuttosto quotato, un fan dei suoi film. Qualche scambio di favori ed ecco il suo primo disco, La Gang di Adam. Siamo fissati o sbaglio con questa Gang? Agitò il dito come a rimproverare scherzosamente un bimbetto. La fama di divo di film vietati ai minori e la popolarità di cui godotono rap ed hip hop gli permette di vincere un disco d’oro in breve tempo. Cinque settimane! Così esce un secondo disco, ed un terzo che gli valgono rispettivamente un oro ed un platino ed il Signor Adam decide che la vecchia etichetta discografica gli stava troppo stretta. Ne crea una tutta sua. La Da Broda Shockz. L’ho detto bene? E poi c’è la storia con H.Boner, un collega musicista che appartiene ad una gang rivale. Ti avevo detto che Adam è membro di una gang? Si? Sin dalle medie. Niente di serio. Un paio di furti, qualche gomma fregata, un po’ di erba recquisita ed una rissa in un bar. H.Boner, che nome da gentil’uomo tra parentesi, viene trovato morto e viene escluso il suicidio per via dei numerosi fori da proiettile che gli scorpono addosso. Il nome di Adam spunta subito perché i due avevano un appuntamento per chiarire una faccenda. Faccende di gang sembra. Nessuna prova contro il nostro caro Adam che affronta un processo che si regge a stento in piedi e da cui ne esce più popolare di prima. Un vero eroe americano dei nostri tempi! Il Signor Adam vendeva cocaina ai suoi colleghi attori. Scusatemi! Performers! E ha cominciato a venderla anche ai suoi colleghi del mondo del rap e dell’hip hop facendone un commercio redditizio, almeno quanto quello della vendita dei dischi. Si è saputo inserire in un mercato dove gli scontro tra ispanici e russi ha lasciato vagante un’ampia fetta di territorio fertile per la vendita di coca. Adam si è fatto un nome con l’omicidio, presunto, del signor Boner. È un duro, un vero duro. Una congiunzione favorevole ed ecco che riesce, con pochi ma fidati uomini, ad assumere il controllo della valle del Nilo. Vi piace il paragone? È per via del fatto che prima ho detto che era un terreno fertile. Comunque, il Signor Adam qui presente ha fatto bingo. I migliori locali della città vogliono la sua coca, che compra a prezzi stracciati da piccoli coltivatori indipendenti, perché ha prezzi ragionevoli e perché è trendy. Tutti sanno che è la sua. La coca dell’uomo che fa fessi gli sbirri ed accoppa i rivali!La leziosità ed il brio con cui lo disse lasciò ammutolitò Adam e strappò una smorfia di fastidio nell’altro. Adam è stato veramente fortunato. Non credi?”

“No. È stato il potere del suo nome. Le coincidenze sono state favorevoli ma quanti altri c’erano che avrebbero potuto sfruttarle? La domanda risuonò fredda, meccanica. Lui è riuscito la dove altri avrebbero potuto perché il suo nome l’ha aiutato. Adam. Perché Black? Il tuo cognome è Cobb se non sbaglio.”

“Fu un’idea del mio agente. Quello dei film…” Disse in un sussurro.

“Black Adam. Rifletté. Devo ammettere che suona bene. Ha un che di minaccioso e regale al tempo stesso. Sa di bello e dannato. Sai come mi chiamo io?”

“No.”

“Adam.”

Black Adam si lasciò scappare un gemito. Era dolore frammisto al timore che la sua vita stesse per esaurirsi bruscamente. Era chiaro che aveva detto il vero. Gli altri ragazzi erano morti. Non aveva modo per chiedere rinforzi. Non erano previste visite per tutta la giornata. C’era solo lui e quei due pazzi. Lui e loro.

“Mi dispiace, amico. Senti, non so quale sia il tuo problema con me mai io…”

“Non hai mai ucciso quello chiamato Boner. Vero? Con quella domanda ingorò quanto gli stava dicendo prima. Dopo, probabilmente, ha ucciso o meglio, hai ordinato delle uccisioni, per via dei tuoi affari ma non quella di Boner. Non hai la stoffa. Non hai il fegato. Non hai l’attitudine per uccidere, per spezzare una vita, per strapparla via dalle carni di un uomo. Sei grande e grosso e hai picchiato quelli più piccoli di te ma sei solo un vigliacco. Noi due portiamo lo stesso nome, Adam. Un nome di potere. Tra noi due solo uno però ha conosciuto il potere, quello vero, quello che non ti arriva dalla vendita di un po’ di droga a qualche ricco annoiato o dall’ordinare ai tuoi uomini di accoppare qualche disgraziato. Parlo del potere. Anzi, il Potere con la P maiuscola Adam. Quel Potere che deriva dall’avere controllo il controllo sul tuo destino, su quello degli altri e di tutto questo mondo. Il Potere di non potere più essere feriti ma di poter infliggere impunemente ferite. Il Potere di fissare il sole ad occhio nudo senza divenire ciechi. Il Potere di parlare e con una singola, breve parola, scatenare la furia degli elementi. Boner lo ha ucciso qualcun altro. Non mi interessa sapere chi o come e tu sei finito solo tra i sospettati, Adam. Hai sfruttato questo piccolo incidente di percorso per essere qualcuno. Rimise su il diavano caduto, appongiandovi sopra un piede e spingende e vi si lasciò cadere, sprofondandoci, indifferente alla morte e all’odore di sangue. Black Adam deglutì pesantemente. Quell’uomo era diverso da tutti quelli che aveva conosciuto, criminali o meno che fossero. Hai cavalcato l’onda. Bravo. Ma io sono stato l’onda. Io sono stato il vasto oceano che tutto spazza via. Aprì il colletto della camicia e mostrò la cicatrice che correva lungo la gola interrotta alla vista dal cerotto che teneva fermo il microfono che gli permetteva di parlare nonostante il danno permanente alle corde vocali. Con una parola potevo scatenare l’inferno, Adam! Se mi avessi visto! Il mondo era davvero mio ma ho fatto uno sbaglio e ho abbassato la guardia ed ora la mia voce esce da un misero amplifcatore assicurato alla mia cintura. Sai cosa voglio Adam?”

Lo guardò senza nessun particolare sentimento.

“Cosa?” Chiese con un filo di voce.

“Voglio rifarmi. Voglio quello che mi spetta. Voglio quello per cui sono nato e per cui ho patito. Mi servono però i mezzi, i soldi, gli uomini e tu hai tutte queste cose e la chiave per avere molto di più. Sia chiaro, mezzi, soldi e uomini non mi interessano di per sé. Rivoglio quello che era mio. È l’unica cosa che mi interessa e tu, Adam mi servirai e se non lo farai, ti torturerò. Ti torturerò così tanto che mi chiederai la morte ma io te la negherò, Adam. Ti farò rimpiangere ogni giorno passato al mondo. Sono stato chiaro, Adam?”

“Si.”

“Si cosa?”

“Sissignore.”

“Bravo. Lascialo andare ora.”

“Muoviti pure.” Fece Alvin che nel frattempo stava studiando i dischi che stavano alla postazione del DJ.

“Non provarci. Non pensare nemmeno di poterlo fare. Non puoi battermi. Non sono alla tua portata. Sii un buon servo e alla fine, forse, ti ricompenserò. Deludimi, infastidiscimi, prova solo a tentare di prendermi in giro, e sarà solo dolore per te.”

“Sissignore.”

“Ottimo. Ora vai a riposarti. Domani hai un incontro d’affari con i tuoi fornitori. Ti voglio in forma perché nominalmente, questa è ancora la tua impresa. Chiaro?”

“Sissinore.”

“Nominalmente. Da dieci minuti fa è la mia.”

“Sissingore.”

L’altro Adam, l’Adam dagli occhi folli, sorrise soddisfatto.

 

Continua