Yuri Lucia

 

 

 

YURI LUCIA

 

Presenta :

 

 

 

SUPERMAN

 

 

YEAR ONE

THE CHILD OF TOMORROW

 

N 4

 

… New Day Pt II

 

 

III – Campo d’Addestramento, Nebraska – Una settimana dopo.

 

 

L’istruttore teneva la pistola puntava verso l’uomo conosciuto come Nicholas Reeves. L’ufficiale che lo accompagnava non staccava gli occhi di dosso da Nick.

“Chi sei? Niente cazzate, nessun tentativo di mentire. Tu non esisti. Nicholas Reeves non esiste. Hai una buona copertura, persino un numero di previdenza sociale falso ma di fatto tu non esisti. Il che significa che la tua copertura te l’ha procurata qualcuno dei servizi segreti, vero? Solo loro possono riuscire a fabbricarne una così credibile. Per tua sfortuna però il tuo comportamento ci ha insospettito e abbiamo i nostri mezzi per verificare l’identità di chi reclutiamo. Nessuno ti conosce, nessuno ti ha mai incontrato in vita sua. Tutti gli indirizzi nel tuo fascicolo, sono solo specchietti per le allodole. Perciò dimmi, chi sei?”

“Nicholas Reeves”, ripeté ostinatamente l’uomo, ambo le mani ben in vista.

“Pessima risposta”, la Glock fece fuoco.

L’istruttore era un buon tiratore e centrò subito il suo bersaglio, l’occhio sinistro del sedicente Nicholas che cadde in terra. Rinfoderò l’arma e rivolgendosi all’altro, “è un bene che ci siamo accorti subito della cosa. I piani arriveranno questa sera e se quel bastardo avesse trovato il modo di metterci le mani sopra avrebbe potuto rovinare tutto. Mi chiedo con chi lavorasse.”

“I nostri contatti hanno escluso le agenzie governative ufficiali o tanto meno i militari. Quanto meno sembrano molto sicuri, affermò l’ufficiale, personalmente non escluderei una qualche compagnia privata formata da ex appartenenti ai servizi segreti e alle forze speciali”, chiamò i soldati che erano stati lasciati fuori, a guardia dell’ingresso alla tenda e ordinò loro di portare via il corpo e sbarazzarsene.

I due uomini non si erano accorti che non c’era il sangue che avrebbe dovuto esserci a seguito di un ferita all’occhio procurata da una pistola come quella usata. Erano troppo presi dal cercare di capire chi e perché era riuscito ad infiltrarsi nel loro campo base.

Di una cosa erano certi, l’agente che avevano appena ucciso non aveva avuto l’occasione di comunicare la propria posizione. Stava raccogliendo informazioni e non avrebbe rischiato la sua copertura.

Tuttavia, l’infiltrato in questione, non era morto ma stava semplicemente fingendo. Non reagì quando venne trascinato via per i piedi e, dopo diversi metri, gettato in una fossa. Non disse nulla nemmeno quando lo ricoprirono di calce viva. Trattenne semplicemente il fiato. Poteva rallentare il suo ritmo respiratorio, fin quasi ad interromperlo e poteva tenere il respiro per quasi due ore. L’occhio gli bruciava in modo quasi insopportabile ma se fosse stato un altro quel proiettile lo avrebbe distrutto e sarebbe penetrato sino al cervello. La calce attutiva notevolmente i rumori, persino per lui, perciò per sicurezza aspettò un buon quarto d’ora e, alla fine, scivolò via da quella che nelle intenzioni degli uomini che lo avevano portato fino a lì avrebbe dovuto essere la sua tomba. Trovò rifugio nei boschi circostanti, e sgattaiolò furtivo, attento a non farsi vedere da nessuno, verso un ruscello che aveva incontrato durante le esercitazioni.

Pazientemente si lavò via la calce, ripulì il suo volto meglio che poté, espulse dalle narici quanto vi era entrato e, vedendo il riflesso nell’acqua, si sorprese. Era parecchio tempo che manteneva quell’aspetto. Di solito mantenere tanto a lungo facce diverse dalle due che chiamava le “mie abituali” lo stancava, affaticava i muscoli, come quando si rideva sguaiatamente per ore ed ore. La sua maggiore preoccupazione era che nel sonno avrebbe potuto riprendere il suo vero aspetto. Le Maris gli aveva detto che era successo almeno una volta. Aveva finto di dormire per la maggior parte del tempo, contando sul fatto che gli bastava pochissimo tempo per recuperare le forze.

Nicholas Reeves aveva assolto al suo compito, anche se non completamente. Il resto lo avrebbe dovuto far lui pensò osservando quegli occhi di un azzurro quasi innaturale che lo fissavano dal piccolo corso d’acqua.

 

Non aveva mai provato a volare a quella velocità. Non era sicuro di poter dire come funzionasse quella straordinaria capacità che aveva scoperto di recente nella propria vita. L’aria intorno a sé vibrava e tremolava mentre il suo spostamento produceva un lungo fischio.

Stringeva i denti, concentrandosi, dirigendo il suo incredibile moto attraverso il cielo la dove sapeva trovarsi Los Angeles. Il Governatore, il Sindaco, il Capo della Corte dello Stato si trovavano tutti e tre in città per inaugurare il nuovo tribunale. Per l’Intergang era l’occasione di avviare il regno di terrore di cui i suoi capi, la cui identità rimaneva avvolta nel mistero, farneticava attraverso la Bibbia di Caino, un testo che sembrava uscito dalla mente contorta di Charles Manson.

Al campo d’addestramento non avevano tutte le informazioni sul piano, solo le parti concernenti all’invio di eventuale supporto armato per l’operazione “Apocalipse”.

A Clark era bastato quello che era riuscito ad estorcere all’ufficiale che aveva interrogato. La corsa sui tralicci dell’alta tensione era stata l’ultima spinta servita per sciogliergli la lingua.

“King! Ho scoperto cosa vogliono fare!”, questo aveva detto a King Faraday da un telefono pubblico. Pregò che l’uomo riuscisse ad allertare per tempo le autorità.

 

IV – Los Angeles – Il Mercoledì di Sangue.

 

 

Le unità SWAT, le forze di polizia, gli agenti dell’FBI e dell’Homeland Security stavano operando alla cieca. Gli esplosivi avevano distrutto la sede centrale della polizia da dove si sarebbe dovuta svolgere l’azione di coordinamento.

Lois Lane, giornalista del Daily  Planet avrebbe dovuto intervistare il Sindaco quel giorno e, magari, riuscire a piazzare un paio di domande scomode sulla questione dei presunti favoreggiamenti alle imprese di un suo ex compagno di college. Il fotografo che l’aveva seguita finì crivellato da una raffica di AK. Lei non lo vide mentre accadeva, si ritrovò a fissare da lontano il cadavere riverso in terra. Non ricordava il suo nome, era uno nuovo al giornale e riusciva solo a pensare di non voler fare la stessa fine. Salì sull’elicottero che avrebbe dovuto portare al sicuro il Sindaco, elicottero che però fu colpito da uno dei terroristi che stava mettendo a ferro e fuoco la città, divenuta una vera e propria zona di guerra.

Aprirono il fuoco verso di loro e alcuni dei colpi andarono a segno con un terribile clangore che nemmeno il flappeggio delle pale riuscì a coprire.

Il Sindaco tremava, cadaverico ed in preda al panico. Lei perse il controllo e sentì il calore dell’urina che le colava tra le gambe.

L’elicottero vorticò diverse volte in una corsa mortale verso le strade sottostanti fin quando il suo roteare non si arrestò e la velocità di discesa non diminuì.

Lois Lane non avrebbe mai dimenticato quello che vide dal finestrino, senza nemmeno lei sapere dove trovò il coraggio si sporgersi. Lo stesso uomo che aveva sorretto l’elicottero poggiandolo in terra aprì il portello laterale chiedendo se stessero tutti bene e dopo che lei ebbe risposto, “credo di si”, risalì nuovamente verso il cielo da cui sembrava giunto.

 

Clark aveva indosso la muta modificata che si era portata dietro all’accampamento. “Effetti personali”, così l’aveva qualificata quando controllarono il suo bagaglio. Non potevano sospettare a cosa gli sarebbe servita. L’idea era stata di Loris, alcuni anni prima. Era stata lei a suggerirgli un abbigliamento da “lavoro” comodo, facile eventualmente da indossare anche sotto degli abiti comuni. “Una muta da sub potrebbe fare al caso tuo”, gli disse e lui accolse quell’idea, anche se all’inizio gli era sembrato strano.

“State tutti bene?”, chiese alla donna dall’espressione glaciale che si trovò davanti. Un atono credo di si fu la sua risposta. Gli ci volle qualche istante per realizzare trattarsi di Lois Lane, la reporter investigativa del Daily Planet, quella che Taylor gli aveva descritto come una “totale stronza”.

Si proiettò con un balzo verso l’alto e poi mentalmente spinse, accendendo la sua facoltà di volare che si manifestò con quel curioso formicolio al ventre che indicava che era in funzione. Compì una rapida parabola, piombando in mezzo al commando che aveva tentato di tirare giù l’elicottero del Sindaco. Urlarono, bestemmiarono, alcuni di loro pregarono persino e lo bersagliarono con le armi, riversandogli addosso una pioggia di fuoco che a rigore di logica avrebbe dovuto ucciderlo. Sentì il bruciore provocato dai colpi ravvicinati e fece attenzione di non essere colpito agli occhi, ponendo una mano a protezione. Quelli lasciarono cadere in terra i fucili ed estrassero le pistole, stavolta un paio di colpi lo raggiunsero all’occhio destro, uno dritto su di un incisivo, uno persino in un orecchio. Non vide la granata che gli rotolò vicino al piede. L’esplosione lo sbalzò via, facendolo rotolare diverse volte per terra. La muta era rovinata, perdeva un po’ di sangue dalla bocca ed aveva una ferita al piede, vicino dove era avvenuta l’esplosione ma ugualmente si tirò su. Tentò qualcosa che aveva sperimentato poche volte e che aveva scoperto per caso alcuni mesi addietro. Batté le mani. Lo fece con forza, una forza sconosciuta agli altri esseri umani, una forza che nessuno avrebbe mai potuto credere appartenuta ad un singolo individuo, una forza tale da fargli digrignare i denti per il dolore. Fu come la replica dell’esplosione di prima, o quasi. L’onda d’urto investì in pieno tre degli uomini dell’intergang che avevano cercato di ucciderlo. Tra lui ed essi vi erano una decina buona di metri eppure volarono verso la fiancata di una camion rovesciato distante almeno quaranta. Alcune delle loro ossa si ruppero prima dell’impatto, per via dello spostamento d’aria, al rimanente pensò il rimorchio che risuonò sinistramente quando venne colpito.

I tre rimasti tentarono ancora una volta con le pistole ma lui avanzò verso di essi. Cercarono di resistergli, non fuggirono ma lo affrontarono in combattimento. Erano uomini ben addestrati, non al livello del suo istruttore al campo ma di certo superiore agli uomini del gruppo in cui si era infiltrato. Dovevano appartenere ad una cellula più vecchia di quella di cui era entrato a far parte. Uno di loro si ruppe la mano sferrandogli un pugno ma non dette segno di avvertire nulla, “antidolorifici e adrenalina”, pensò sferrandogli un manrovescio che lo mandò in terra. Aveva cercato di dosare quanto meglio poteva la potenza del colpo ma gli aveva comunque fatto saltare quasi metà dei denti e rotto la mascella in due punti. Dette una spinta a palmo aperto ad un altro, una leggere spinta almeno secondo quelle che erano le sue reali possibilità ma lo fece volare comunque per alcuni metri. Lo sguardo del terzo tradì gli occupanti di un HUMVEE che stava giungendo alle sue spalle con l’intento di investirlo. C’erano diversi rumori, clamori e spari da ogni dove e non se ne sarebbe mai accorto. Si voltò mentre quello gli arrivò addossò a tutta velocità. I palmi delle mani affondarono nel metallo che si piegò con il violento impatto. Gli airbag all’interno si aprirono immediatamente. Si era spostato solo di poche decine di centimetri, come testimoniavano i segni sull’asfalto. Sollevò sulla testa il veicolo, strappando un grido di paura al terrorista alle sue spalle e lo scagliò lontano, a decine di metri di distanza verso una fontana in cui si ritrovò incagliato.

 

La città era in subbuglio, la Guardia Nazionale pattugliava le strade e gli agenti di FBI e Homeland Security stavano interrogando ogni potenziale testimone. Le tre più importanti figure dello Stato erano state trasferite in luoghi sicuri ed il Presidente assicurava su ogni media disponibile che gli USA avrebbero prontamente reagito a quell’attacco alla democrazia e alle istituzioni.

Osservò tutto dall’alto, avvolto dalla luce amica del sole, la muta danneggiata in diversi punti, le ferite che stavano guarendo rapidamente. L’Integang aveva subito un duro colpo, diversi ufficiali delle cellule coinvolte nell’operazione vennero arrestati e trasferiti a Guantanamo per essere interrogati dagli esperti.

Sapeva che non era finita ma per il momento aveva riportato una vittoria.

Anni e anni di lavoro ed investigazione avevano portato a quel momento.

 

 

V – San Francisco, due giorni dopo.

 

“Per me un caffè nero, due di zucchero, chiese educatamente King Faraday, e per il mio amico invece una spremuta d’arancia”, la cameriera sorrise e, segnato l’ordine, si allontanò lasciando ai due alla loro privacy.

Clark rimase in silenzio, attendendo che fosse l’altro e prendere l’argomento ed infine, “cosa sei?”.

Il giornalista sospirò, osservando l’ex spia che aveva di fronte e tentò più volte di rispondere, finendo però con l’emettere versi incomprensibili tutte le volte. Gli ci vollero quindici minuti buoni prima di riuscire a dire qualcosa di intellegibile, “non lo so.”

“Quindi, mi stai dicendo, non sai cosa sei e come riesci a fare quelle cose?”, King Faraday non era incredulo, semplicemente era affascinato.

“Sono nato così, per quanto ne so. Con il tempo queste mie capacità si sono manifestate aumentando in forza e numero.”

“Chi altro lo sa?”, “i miei genitori ed una persona”,

“Loris Le Mair scometto”, “scommessa vinta.”

La cameriera giunse con le loro ordinazioni. I due ringraziarono e le lasciarono una buona manica dopo aver saldato.

“Avresti dovuto avvertirmi”, “e come? Mi avresti preso per pazzo se ti avessi detto cosa ero in grado di fare”, “se mi avessi dato una prova no”, “se ti avessi dato una prova temevo mi avresti consegnato agli uomini in nero”.

King Faraday rise sinceramente divertito, “mi fai troppo cinico”,

“sei stato una spia per anni. Essere cinico per te è del tutto normale”,

“e chi ti dice che non lo farò adesso?”. La domanda era stata posta in modo estremamente serio.

“Vuoi tornare sulla cresta dell’onda, giusto? Vuoi potergliela far vedere ai tuoi ex capi a Washington. Vuoi ancora creare l’agenzia di intelligence perfetta. Beh, io posso aiutarti nel farlo. Hai visto di cosa sono capace e sai che dico il vero”,

“impressionante, lo devo ammettere anzi, sconvolgente. Sei una tentazione, Clark Kent ma sei anche pericoloso. Quello che riesci a fare, il volo, la tua forza spaventosa, il cambiare i tuoi lineamenti, presto o tardi vorranno sapere come ci riesci. Se scoprissero che ti ho aiutato e coperto, mi suciderebbero in quattro e quatto otto in qualche squallida stanza di motel.”

Clark sorrise divertito, “pensavo fossi più temerario”, lo stuzzicò.

“Temerario, non folle”, precisò lui.

“Quindi?”. La domanda rimase sospesa nell’aria per diversi minuti prima di ricevere una risposta.

“Se m’imbarco in questa follia e ti copro, senza denunciarti, mi aspetto qualcosa in cambio”, puntualizzò subito.

“Come ti ho già detto potrai contare su di me.”

“No, non provarci con me ragazzone. I tuoi modi educati e l’aria da bravo ragazzo del Kansas potranno anche fregare gli altri ma so che non sei né ingenuo, né buono come ti piace lasciar intendere agli altri. A dirla tutta sei un bel figlio di puttana. Non offenderti, lo intendo come un complimento però so che la tua gratitudine sarebbe sempre condizionata dalle tue necessità. Quello che desidero è una gratitudine d’altro tipo”, Faraday batté un paio di volte il cucchiaino sul bordo del bicchiere di Clark. Quest’ultimo si sporse in avanti, fissandolo serio negli occhi,

“Sai cosa posso fare, vero? Questo non ti impensierisce? Non dovrebbe dissuaderti dal tentare di ricattarmi?”

“Scherzi?, fece con divertita allegria Faraday, il pericolo è il mio mestiere! Se non fossi un po’ pazzo non avrei mai fatto la spia ma starei lavorando dietro qualche scrivania, in un ufficio tranquillo e sicuro, aspettando la pensione. Inoltre, se mi ammazzi, se mi torci solo un capello, ho fatto in modo che tutto quello che so di te venga divulgato in internet nell’arco di…, lanciò uno sguardo al suo orologio da polso dal design antiquato e dal cinturino di pelle consunto, diciamo un paio d’ore.”

Clark si unì al sorriso di quell’uomo. “Maledizione, Faraday. Praticamente mi sto vendendo l’anima al diavolo.”

“Non dire così, fece lui con l’aria finto offesa, ho grandi, grandissimi progetti per te! Ti ricordi l’argomento Batman?”

“Si, ricordo che ne abbiamo parlato.”

I due continuarono a chiacchierare ancora a lungo, come due vecchi amici, di progetti, del futuro, del mondo che sarebbe cambiato definitivamente di lì a poco.

 

VI

 

Casa di Lois Lane, Bel Air, Los Angeles – Due settimane dopo.

 

Lois osservava la città che andava riprendendosi a fatica dal Mercoledì di Sangue, così era stato battezzato dai media, che non smentivano il loro gusto per il sinistro ed il melodrammatico. Eppure, questa volta, pensava che tutto sommato non fosse un nome tirato fuori solo per stupire, per scioccare, per far leva sui sentimenti della gente, sulle loro paure. Aveva visto con i suoi occhi e vissuto in prima persona la violenza e la follia che avevano piegato Los Angeles fin quasi a spezzarla. Quasi.

Un uomo che non avrebbe dovuto esistere a rigore di logica, che contraddiceva tutto quello che era considerato possibile o normale, in qualche modo aveva dato una speranza alla gente.

Certo, erano molte di più le persone che lo temevano, che si chiedevano quando e dove avrebbe colpito ma quelli che invece lo ringraziavano, in qualche modo, contagiavano con il loro entusiasmo anche i diffidenti.

La Polizia, l’FBI, la CIA, praticamente tutti avrebbero voluto poterlo interrogare o, quanto meno, capire se esistesse o meno.

Prese un altro sorso dal bicchiere che teneva in mano e che agitava mestamente mentre osservava il panorama.

“Spero di non essere giunto troppo tardi”, lei provò un brivido nel sentire quella voce.

Si voltò, con studiata lentezza, cercando di apparire il più sensuale possibile nei suoi movimenti, così come aveva imparato a fare da tutta una vita per carpire l’interesse e l’attenzione di chi gli stava vicino. Lois Lane si era fatta strada in un mondo molto difficile anche in quel modo. I suoi detrattori sostenevano che era soprattutto, per quello. Dopo la storia di Batman erano in molti a pensarla così.

Lui stava lì, l’aria tranquilla, le braccia lungo i fianchi, nessuna posa statuaria o particolarmente virile, cosa che la deluse un po’ visto che nella sua mente se l’era immaginata così l’entrata di quell’essere straordinario, quasi un semi-dio per via dei suoi poteri. Poteri, la parola le era difficile da focalizzare nella mente ma come altro si potevano definire quelle capacità?

La divisa che indossava aveva l’aria di essere di qualche materiale elastico, forse era ricavata da una muta da sub o una tuta da sport estremo, di quelle che andavano di moda in quel periodo. Lasciava le braccia scoperta ed era dello stesso colore blu scuro dell’altra che indossava due settimane fa, anche se doveva essere un’altra. C’erano dei particolari diversi. I guanti che indossava, assicurati con del velcro all’altezza del polso, erano rosso scuro, così come le suole, degli innesti sui fianchi, le decorazioni sulle gambe e lo strano simbolo che aveva sul petto. Una sorta di segno stilizzato che formava un diamante, un segno in campo nero.

“Vedo che il tuo sarto ti ha fatto un nuovo costume, si pentì di aver usato quell’espressione, vuoi?”, indicò la bottiglia che stava su di un tavolino lì vicino.

“No, ti ringrazio. Non amo molto bere. È una bella casa”, si complimentò lui.

“A dire il vero non è mia, anche se ci abito. Non potrei permettermela. È di un mio ex ragazzo che me la mette generosamente a disposizione.”

“Sono qui, Ms. Lane. Come lei voleva. Vuole farmi delle domande?”, benché fosse stato diretto non sembrava essere impaziente. Voleva solo mettere le cose in chiaro e questo a lei piacque. Un uomo risoluto era una rarità di quei tempi.

“Chi sei?”

“Un amico”, una risposta molto semplice ad una domanda altrettanto semplice.

“Da dove vieni?”

“Sono americano, non sono un immigrato clandestino”, rassicurò lui con un pizzico di ironia.

“Come riesci a fare quello che fai?”

“Non lo so. Lo faccio e basta”, così come aveva già spiegato a King Faraday.

“Come può la gente fidarsi di te? Chi ci assicura che tu non ci farai del male?”

“Le mie azioni dovrebbero parlare per me.”

“Le tue azioni dicono solo che ci hai salvato da un attacco terroristico di vaste proporzioni ma rifiuti di dire il tuo vero nome, il posto in cui sei nato, da dove vengono le tue facoltà e questo, lasciatelo dire, non piacerà alla gente. Se uno sopravvive ad una raffica diretta di un AK, solleva un elicottero e se ne vola via veloce… veloce come un aeroplano, beh, non può certo aspettarsi che la gente accetti che non è un pericolo sulla fiducia e basandosi solo su di un’unica buona azione. Per cui, detto per inciso, ti sono grata”, nel dirlo fece in modo che una delle spalline del suo vestito calasse leggermente, solo in apparenza per caso ma in realtà per preciso calcolo.

I suoi piedi erano nudi, le unghie smaltate di nero. Perry le aveva detto che quel colore la faceva sembrare sfacciata, così come sfacciata lo sembrava la sua camminata.

Lui continuava a sorridere tranquillo.

“Signorina Lane, quando qualcuno si trova di fronte ad uno come me può fare due cose. Oh sceglie di fidarsi, e prende  per buono quello che dice, o gli dichiara guerra. Perché vede, se si fida, bene, se gli dichiara guerra, quello sa che è il momento di dileguarsi per evitare problemi. Se lo cerca di fregare subdolamente, avanzò verso Lois, che si immobilizzò, spiazzata da quel moto inatteso, fin quando non le giunse a pochi centimetri di distanza, allora il tizio che sopravvive alla scarica di  AK, che solleva elicotteri e vola più veloce di un aeroplano, potrebbe incazzarsi di brutto”, solo allora Lois capì perché non aveva assunto nessuna posa.

Lui non aveva necessità di colpire o di intimorire. Non gli serviva nessun trucco squisitamente maschile per riuscirci.

Ricordò l’elicottero rallentare la sua letale caduta e deglutì pesantemente.

“Io gioco pulito”, disse quasi a giustificarsi solo per darsi mentalmente della stupida subito dopo. Quella dichiarazione equivaleva quasi ad ammettere che stava nascondendo qualcosa. Lui continuava a sorridere sereno, tranquillo.

“Ed io sono un amico, come le ho detto prima. Ha fatto notare, giustamente, che tuttavia non basta una dichiarazione per convincere le persone. Non bastano nemmeno i fatti e di questo ne sono ben consapevole. Con un buon addetto stampa, invece, potrei ottenere dei buoni risultati, perché non voglio avere l’opinione pubblica contro di me, né tanto meno le autorità. Il potere dei media è notevole, Signorina Lane, lo sappiamo entrambi. Il titolo giusto può sollevare agli onori una persona. Quello sbagliato lo può affossare irrimediabilmente.”

Lois Lane era sorpresa. Lui le stava proponendo quello che lei stessa avrebbe voluto offrirgli.

“Il Planet è un giornale in discesa”, disse lei quasi a volerlo sfidare. Non le piaceva che qualcuno prendesse il controllo della conversazione senza che fosse lei a concederlo. Lois era una donna forte, aveva dovuto esserlo per tutta la vita. Che quell’uomo fosse invulnerabile o meno, non cambiava la cosa. Non avrebbe ceduto nemmeno a lui.

“Il Planet è un giornale che ha tutto da guadagnare nell’occuparsi della mia persona. Ecco perché è la migliore tra le testate americane a cui potrei rivolgermi. Questo vale anche per lei e per la sua carriera. La storia di quel Batman è stata un duro colpo alla sua credibilità. Con me potrà riconquistarla e forse anche di più ma voglio che sia chiara una cosa. Non deve mettermi in bocca nulla che io non abbia detto, o tanto meno decontestualizzarlo o manipolarlo. Qualsiasi articolo su di me che scriverà il suo giornale lo voglio leggere prima della pubblicazione. Inoltre voglio che sia lei ad occuparsi di me e di raccogliere le mie interviste. In cambio vi darò l’esclusiva. Ogni dichiarazione la rilascerò prima a voi e mi farò intervistare solo da lei. Il Planet sarà il mio mezzo di comunicazione con il pubblico ed io sarò la vostra miniera d’oro”, sorrise affabile.

Lois Lane assaporava già il sapore del successo, “dovrò parlarne con Perry White, il mio capo. Solo lui può darmi l’ok per questa cosa”, spiegò.

“Mi sta bene”, acconsentì lui.

“Ti farò avere una risposta entro domani”, assicurò lei.

“Perfetto. Solo due cose, Ms. Lane. La prossima volta che mi vorrà contattare, non ingaggi tramite i suoi agganci dei prezzolati per inscenare un rapimento. L’idea è pessima, per non dire demenziale. Avrebbe potuto farsi del male sul serio. La seconda cosa, non so quale siano i suoi rapporti con Luthor ma chiedergli di utilizzare la back-door che si è assicurato sui satelliti di sorveglianza che ha venduto al Governo per cercare di spiarmi è ancora più stupido dell’idea del rapimento. Vi consiglio di smettere di cercare di capire dove vivo o avrete un bel problema con il militari ed il Governo. Ora la saluto, Ms. Lane”, non disse altro, si sollevò in volo e scomparve nel cielo, muovendosi rapidamente.

Lois Lane si lasciò cadere su di una sdraio che teneva lì per le belle giornate. Le gambe s’erano fatte improvvisamente molli e non riuscivano più a sostenere il suo peso.

“Superman…”, mormorò. Quel simbolo stilizzato sembrava proprio una s e Superman era l’unico nome che le pareva potesse descrivere un essere del genere.

 

 

Epilogo

 

L’attico di Lex Luthor sorgeva su quella che si sarebbe potuta considerare la versione moderna di un’antica torre medievale, che invece di pietra e malta era costruita in vetro, cemento ed acciaio. La nuova Torre Luthor ricordava i grattacieli più famosi della City londinese di Barcellona, solo sulla sommità era aperto un grande occhio da cui poteva passare la luce solare, senza nessuna barriera, e illuminare il giardino che era stato costruito all’ultimo piano, un giardino dove si trovava un piccolo laghetto artificiale, un bosco di faggi, un limoneto e la casa di Lex, un villino che proveniva dalle campagne bretoni e di cui si era innamorato durante uno dei suoi primi viaggi.

Le dita di Lex sfioravano i tasti del vecchio Shulze-Pollman verticale, eredità di sua nonna, su cui aveva studiato duramente da ragazzo, quando ancora coltivava le sue illusioni ed il sogno di divenire, un giorno, un grande concertista. I pettirosso e le cinciallegre indugiavano sempre ad ascoltare i suoi concerti. Erano il suo pubblico preferito, insieme alla famiglia di ricci che abitava nella vecchia quercia che aveva fatto trasportare lì con un elicottero.

“Molto bravo”, si sentì applaudire Luthor alla fine della sua Fantasia Improvviso di Chopin.

“Grazie, replicò lui con un sorriso gentile da sotto il pergolato dove aveva fatto sistemare il piano, prego, ci sono delle sedie presso il tavolo in pietra che vedi lì. Prendine una e siediti qui vicino. Se non ti spiace, mi farebbe sentire meno in soggezione.”

L’altro sembrò divertito dalla sicurezza dimostrata da Luthor e decise di accontentarlo.

“Non sembri sorpreso di vedermi”, gli disse in modo franco e aperto.

“Diciamo che non pensavo fosse improbabile una tua visita”, ammise lui.

“Quindi sai il motivo per cui sono qui?”

“Prima di risponderti concedimi una domanda. Me lo devi visto che ti sei introdotto in casa mia senza permesso”, lo rimproverò bonariamente.

“Mi sembra giusto. Domanda pure.”

“Eri tu, vero? Quella sera di sette anni fa, eri a Los Angeles”, si voltò verso di lui ed i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta.

“Si”, Clark stesso si stupì di quella risposta. Aveva ammesso senza problema alcuno di essersi già introdotto in una sua proprietà. L’altro non dette segno di esserne turbato ma si limitò a sorridere, come rasserenato, quasi si fosse tolto un peso.

“Chissà quanto hai riso di me quella sera, quando ti minacciai con la pistola. Del resto, non potevo sapere di cosa fossi capace”, fece sfiorando i tasti del pianoforte.

“Sei davvero una persona incredibile come ti descrivono. Stai ammettendo senza nessuna esitazione che quella sera tenevi sotto tiro una persona ed eri pronto ad ucciderlo”, Clark era stupito dall’apparente mancanza di paura e scrupoli di Lex Luthor, il quale per conto suo si dimostrò interdetto da quell’affermazione replicando, “ eri in una mia proprietà e per quanto ne sapevo la mia vita poteva essere in pericolo. Anche l’avvocato meno esperto avrebbe saputo evitarmi il carcere. Perché t’interessavi alle mie attività?”

“Non fingere con me, Luthor. Tu sei connesso all’Intergang ed entrambi lo sappiamo.”

“Si, certo che lo so”, quest’ultima risposta confuse ancora di più Clark la cui sicurezza cominciò a vacillare. Non sapeva con chi aveva a che fare. Che Lex fosse un uomo dal passato torbido e dai modi ambigui era chiaro ma che addirittura arrivasse ad ammettere la sua connivenza con terroristi e criminali come quelli dell’Intergang gli sembrava quasi demenziale.

“Tu lo sai? Stai ammettendo di essere parte della rete dell’Intergang?”, Luthor picchettò su un la un paio di volte, “sto ammettendo che tra i miei vecchi investitori potrebbero esserci stati uomini legati all’Intergang. Sto ammettendo che alcune fondazioni appartenenti alla mia società potrebbero essere sotto il loro controllo. Posso essere molte cose, tra cui anche un delinquente, non lo nego e del resto la semplice ammissione non fa di me un colpevole e non da a te una prova, nemmeno se avessi un registratore addosso e portassi la nostra conversazione all’autorità competente. Il punto è che metà delle aziende di questo Paese ad un certo punto ha subito un tentativo di infiltrazione da parte di organizzazioni più o meno legali. La mia negligenza sta nel non aver dato sufficiente credito ai miei sospetti. Dopo il Mercoledì di sangue mi sono curato personalmente di svolgere delle indagini dal momento che alcune delle persone arrestate venivano da programmi di riabilitazione per carcerati finanziati con i miei soldi. Se può interessarti, in realtà, ho già denunciato la cosa all’FBI e all’Homeland Security e sto collaborando con la giustizia”, Lex tornò a fissarlo.

“Non ci posso credere! Sei riuscito a uscirne pulito…”

“Ci sono riuscito perché sono pulito. Non sono parte del loro meccanismo e l’aver capito d’essere stato giocato e sfruttato non mi ha fatto certo molto piacere. Ti va un pezzo a quattro mani? Mendel? Tu suoni?”

“Un po’. Non sono un gran che”, nemmeno Clark avrebbe saputo spiegare perché raccolse l’invito e andò a sederglisi vicino. Le loro mani si lanciarono nell’esecuzione di quel brano, trovando quasi subito una grande intesa. Clark faticava a star al passo di quello che sembrava un pianista provetto e capì quasi subito che lui cercava di adattare il suo ritmo a quello del compagno. Il risultato, a parte qualche piccolo errore, fu notevole per essere la prima volta, “niente male davvero”, riconobbe Luthor.

“Ho preso delle lezioni quando ero piccolo e poi, quando ero un po’ più grandicello, ho ripreso a studiare per un paio d’anni ma più per diletto che altro. Te l’ho detto che non ero un gran che.”

“Sei stato bravo abbastanza da non massacrare Mendel e di questo puoi già andare orgoglioso.”

Luthor, anche se dici di non essere connesso all’Intergang, riprese ad incalzarlo lui, rimane la storia dei satelliti spia”, lo accusò.

“Vorrei sapere come hai fatto a capire che ho utilizzato uno dei satelliti che ho fornito al Governo per le sue operazioni di intelligence. Comunque non puoi dimostrare nulla. La back-door è già scomparsa. Avresti dovuto denunciarmi subito e non passare a casa di Ms. Lane.”

“Lei ti ha avvertito?”

“Certo! So che io e lei non siamo veramente amici. Andiamo a letto insieme, ma questo già lo saprai, però questo non fa di noi persone veramente intime. Però lei sa bene che è meglio non mettersi contro di me. Fin tanto che abbiamo un rapporto, come dire, amichevole, lei ha solo che da guadagnarci. Comunque sapevo del vostro incontro prima ancora che lei mettesse mano al telefono.  Quando mi ha detto che voleva incontrarti, beh, ho tenuto un occhio su di lei.”

“Tu pensi da sapere tutto e di riuscire ad anticipare tutti?”

“Ovviamente no. Non so chi sei ,da dove vieni o come fai a fare quello che fai. Quindi non so tutto. Non ho potuto prevedere la tua comparsa, quindi come vedi non sono onniscente.”

“Insomma, ne esci pulito”, disse pensoso Clark.

“Spero che questo non ti infastidisca troppo. Comunque, se ti può consolare, non credo che noi si debba essere necessariamente nemici.”

“Mi stai proponendo un’amicizia?”

“Ti sto proponendo un rapporto di reciproca indifferenza. Io sono un ricco magnate dell’industria che lavora a stretto contatto con il Governo e ha molti amici influenti. Tu sei un uomo che vola e piega l’acciaio a mani nude, senza contare quel gioco che sai fare con i proiettili dei fucili d’assalto. Entrambi, come puoi constatare, siamo uomini di potere. Perché dobbiamo farci la guerra?”

“Forse perché tu sei connesso ad attività illecite?”

“Ti ripeto, metà delle aziende di questo paese ha a che fare con attività poco lecite, in un modo o nell’altro e non sono certo il solo tra gli imprenditori ad avere le mani sporche. Vuoi fare la guerra anche agli altri? Accomodati. Sarai un simbolo per qualche post-comunista sbarellato ma diventerai un nemico pubblico in breve tempo.”

“Hai ragione, ammise alla fine Clark, un patto di reciproca non-aggressione è la cosa migliore. Al momento. Però evita di spiarmi in futuro, o la mia prossima visita non sarà così amichevole”, avvertì lui.

“Consideralo fatto. Avrò il piacere di un’altra visita? Potresti approfittarne per riprendere mano con il piano. Hai un buon tocco, per essere uno con tutta quella forza.”

“Vedremo”, furono le sue uniche parole poco prima di alzarsi ed involarsi verso il grande occhio sul cielo della cupola sotto cui giaceva il sancta sanctorum di Lex Luthor.

Lex lo guardò allontanarsi veloce, così veloce che non riuscì più a seguirne la traiettoria dopo poco.

Tornò a suonare il suo amato piano, la mente che cercava un po’ di quiete per riordinare le idee dopo quell’incontro che, lo sapeva, gli avrebbe cambiato per sempre la vita.