Yuri Lucia

 

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SUPERMAN

 

YEAR ONE

THE CHILD OF TOMORROW

 

N 3 Pt II

 

… a Bright …

 

 

IV Downtown N., Los Angeles, California – Due anni dopo

 

La vecchia Ford che Clark aveva comprato per duecento dollari non valeva nemmeno la metà del suo valore, tanto male era messa. Sorseggiò un po’ di caffè dal termos, tenendo d’occhio quel vicolo che dalla W. Arbutus street  correva fino alla Accacia Avenue , tagliando in diagonale quell’ammasso di vecchi e fatiscenti edifici che si incuneavano proprio all’angolo tra le due strade. Lì i latino e gli afro-americani ogni giorno si contendevano il territorio, in una sorta di perenne guerriglia urbana per conquistare una strada, un palazzo, un fatiscente androne, un marciapiede. Luoghi di spaccio o dove piazzare le proprie prostitute. Un’insensata e violenta escalation costava la vita a uomini, donne, ragazzi e persino bambini, il tributo di sangue da pagare per detenere un effimero e mutevole potere.

Era preoccupato per Lori che non dava sue notizie da quasi un’ora, come gli confermò lo sguardo che lanciò all’orologio della macchina. Era stato avvertito, la ragazza gli aveva detto più volte che una volta dentro avrebbe impiegato del tempo e che lui non doveva preoccuparsi ma rimanere calmi era difficile.

Perché era giunto fin lì? La sua personale caccia all’intergang e alle sue radici appariva insensata agli altri ma lui ne conosceva i veri motivi. Il rumore di quello sparo che proveniva dal capanno gli risuonava in testa ancora e ancora, dopo tutti gli anni trascorsi.

Addentò un pezzo del panino comprato un paio d’ore prima. Non aveva fame ma doveva combattere in qualche modo il nervosismo. Masticò in modo quasi convulso.

Perché è ancora lì dentro?”, Lori era sicura di sé, diceva di conoscere bene l’ambiente in quanto suo fratello ed il suo ex erano stati nella gang dei cuchillos. “Hombres d’onore e rispettati”, diceva lei ma entrambi morti in circostanze poco chiare. Secondo i compagni uccisi dai Black Mambas, una gang afro rivale ma dall’idea che Clark si era fatto, stando ai rapporti di polizia e a particolari forniti dalla stessa Lori, forse entrambi erano stati fatti fuori proprio dai loro in una sorta di guerra interna per il controllo della banda.

I cuchillos erano i maggiori referenti dell’Intergang in quella parte malata di Los Angeles ed era grazie al loro aiuto che un gruppo di violenti teppisti era riuscito a divenire tanto potente in breve tempo.

Se i sospetti di Clark sulla fine dei cari di Lori era corretto, l’idea di andare a cercare informazioni proprio tra i cuchillos non era stata delle migliori.

“Non volevo questo, le aveva detto mentre litigavano quel pomeriggio, mi bastano i tuoi racconti e magari qualche nome a cui io mi possa rivolgere”.

“Non si faranno mai avvicinare da un bianco, tanto meno uno come te, scompariranno prima che tu possa rivolgergli le tue domande o ti spareranno prima”.

Clark l’aveva guardata quasi a dirgli “sai che per me non sarebbe pericoloso” ma lei aveva insistito. Lui non aveva bisogno di pubblicità. Doveva agire con discrezione.

Clark, pensando a quelle parole, mise istintivamente la mano sotto il sedile e ne trasse il regalo di Lori. Lo osservò, fissandone le vuote fessure.

Le mura del palazzo dove la sua amica era entrata erano spesse, troppo anche per il suo udito.

Lo sparo che spezzò il silenzio, invece, lo sentì benissimo. Ci sarebbe riuscito anche senza i suoi sviluppatissimi sensi.

 

La situazione era degenerata in pochi tempo. Santos non era contento che Lori si trovasse lì e le aveva chiesto perché fosse tornata a Los Angeles tempestandola poi di domande. Inutilmente la ragazza aveva finto indifferenza, spiegando più volte che la sua era una visita ai vecchi amici della gang.

“Non sei mai stata una di noi”, le aveva replicato con veemenza Ana, una delle due ragazze di Santos. Jesus e Gonzalo invece l’avevano difesa, rimproverando Santos per la sua diffidenza, ricordandogli chi era e di chi fossero stati il fratello ed il ragazzo.

Santos telefonò a Manuel, l’attuale capobanda, senza riuscire a trovarlo, cosa che aumentò il suo nervosismo. Non gli erano piaciute le domande che aveva rivolto ad alcuni ragazzi della gang.

“Secondo me lavora per gli sbirri! È una venduta!” aveva quasi ringhiato contro di lei, additandola con astio. Più volte palesò il desiderio di perquisirla venendo però bloccato sempre da Gonzalo sempre meno disposto a tollerare le paranoie del compagno.

Lori si tolse il giubbotto, laniandolo con fare sprezzante su di una poltrona così in malarnese che nemmeno un rigattiere l’avrebbe voluta. “AVANTI! GUARDA PURE SE C’È UN CAZZO DI MICROFONO!” gli urlò. Spesso fare la voce grossa o mostrarsi spavaldi funzionava quando qualcuno voleva metterti sotto, o almeno così pensava Lori ma Santos non mollava anzi, quella posa lo indispettì ancora di più.

Santos aveva aspirazioni da capo e voleva che Manuel gli affidasse più incarichi e più responsabilità. Non gli piaceva Lori, non le erano mai piaciuti né il fratello, né il ragazzo. Si diceva che in realtà fosse stato Manuel a farli fuori perché per lui rappresentavano un pericolo, perché non sapevano stare al loro posto. Erano solo voci sussurrate perché nessuno osava dirlo apertamente. Lori magari le aveva sentite e ci credeva, magari aveva deciso di vendicarsi e stava cercando di scoprire qualcosa di compromettente, altrimenti perché avrebbe dovuto chiedere dell’intergang e della guerra tra bande.

Santos estrasse la sua pistola, un ferro comprato un paio di mesi prima, un revolver a sei colpi.

Voleva minacciarla, voleva farla confessare ma non aveva tenuto conto che quel gesto equivaleva a gettare un fiammifero in una polveriera. Grosso rischio.

Da tempo nella gang c’era una spaccatura interna e Santos e Gonzalo si trovavano ai lati opposti della frattura. Sfortunatamente per entrambi c’erano amici e sostenitori sia dell’uno che dell’altro presenti.

L’ambiente, un vecchio magazzino adiacente ad uno dei tanti palazzi dormitorio del quartiere, era sufficientemente ampio da aver permesso una pericolosa adunanza di soggetti dal grilletto facile e dall’animo fin troppo teso.

Gonzalo urlò qualcosa a Santos che, per tutta risposta, aprì il fuoco.

 

Lori si salvò più per un caso che non per prontezza di riflessi. All’improvviso i membri della gang cuchillos si era spaccata in due fazioni e si stavano massacrando a vicenda a colpi d’arma da fuoco. Uno dei presenti, correndo nel tentativo di imboccare le scale che portavano al piano superiore e, forse, chiedere aiuto agli altri presenti nello stabile l’aveva urtata, facendola finire in terra. Lui, dopo un istante, venne abbattuto da una raffica di mitra. Qualcuno aveva tentato di sparare ai rivali dimenticando che il brandeggio di un’arma del genere non era cosa facile. Lori si rannicchiò, tentando di trovare riparo sotto un grande tavolo di metallo su cui stavano torni, presse e attrezzi da lavoro vari.

Le urla furono coperte dagli spari e, in poco meno di mezzo minuto a terra stavano più di quindici persone. Rimanevano in pochi ma da sopra non ci avrebbero messo molto ad arrivare e allora cosa sarebbe accaduto la ragazza non lo avrebbe saputo dire.

Pregò. Si raccomandò l’anima a Dio, sperando potesse perdonarla per i suoi peccati concedendole di riabbracciare i suoi cari.

Le grandi porte di metallo scorrevoli erano bloccate da un pesante catenaccio che ne impediva l’apertura. Il catenaccio si spezzò, le porte vennero divelte e lui entrò nell’ambiente saturo di polvere da sparo, un anonima giacca color marrone chiaro, i capelli neri come la pece, gli occhi di blu dalle sfumature inquietanti, l’espressione truce.

I sopravvissuti alla sparatoria erano storditi, feriti, l’adrenalina impediva loro di sentire dolore e accelerava le reazioni. Gli uzi erano scarichi ma avevano ancora dei colpi nelle automatiche e non esitarono a indirizzarli verso quell’uomo.

Lui avanzò illuminato a malapena dalla luce delle poche lampade rimaste, incurante del metallo che cozzava contro la sua pelle piegandosi, appiattendosi, insensibile all’effetto balistico. Cercò con lo sguardo Lori e vide che era lì, ancora calda, viva, tremante.

Il primo ad arrivare sulla scena fu un massiccio membro della gang armato di AK. Non sapeva cosa fosse successo, non sapeva che la strage l’avevano provocata i suoi stessi compagni che avevano dato sfogo a risentimenti e dubbi covati da troppo tempo. C’era un estraneo lì e fu lui l’oggetto della sua rabbia. Gli avevano insegnato come sparare con il fucile AK e mise in pratica le sue conoscenze scaricando tutto il caricatore su quello che reputava l’assassino dei suoi fratelli. Pochi secondi e l’arma smise di ruggire la sua meccanica rabbia.

Clark annaspò per via dell’impatto che gli aveva tolto il fiato e s’avvide di diverse piccole ferite e lividi che gli si erano formati sulle mani e le braccia e, a giudicare dal dolore anche sul torace.

Serrò i pugni, stringendo i denti e fissò chi gli aveva sparato.

Quello era allibito. Non c’era un cadavere ridotto ad un colabrodo sanguinante come si sarebbe aspettato ma un uomo che pareva piuttosto arrabbiato.

Clark scattò rapido verso di lui e sollevò 100 kg di essere umano senza sforzo sbattendolo contro  il muro.

Gli altri erano ancora sulle scale quando videro “pequeῆo” in balia di uno sconosciuto che lo aveva sbattuto al muro come se fosse una bambola di pezza.

Qualcuno aprì il fuoco ed il colpo, fortuitamente, arrivò all’occhio di Clark che mollò la presa sull’energumeno che cadde sul pavimento  come una bambola di pezza. Portò la mano al volto e, voltatosi, colpì con un calcio gli scalini che si frantumarono. Un secondo, un terzo ed un quarto calcio mentre calcinacci e pezzi di cemento volavano dappertutto, indebolì la struttura che cominciò a crollare costringendo i delinquenti a tornare di sopra.

Hijo de puta!” gli urlò qualcuno alle spalle. Troppo tardi s’avvide che uno dei superstiti alla sparatoria aveva recuperato una granata, conservata in un quel luogo nel caso la polizia si fosse fatta audace, tentando una retata in uno dei covi più importanti dei cuchillos.

Aveva già tolto la sicura e lanciata contro Clark.

La deflagrazione lo spinse contro il muro e sentì un bruciore diffonderglisi sulla gamba.

Zoppicò. Era ferito ma ancora vivo e la gamba, anche se lacera e sanguinante era ancora lì.

Il ragazzo era incredulo, più di quanto non lo fosse stato pequeῆo prima e boccheggiò diverse volte. Clark prese un paio di tenaglie dal grande banco degli attrezzi e gliele lanciò contro. L’impatto compresse il torace, rompendo un paio di costole del giovane gangster che finì a gambe a per aria.

“Vieni, sbrigati!” esortò Lori che aveva assistito impietrita a tutta la scena.

 

Si era caricato Lori in spalla, saltando via contando sulla forza di una sola gamba. Il peso di Lori, nonostante avesse l’altro arto momentaneamente fuori uso era quasi ininfluente per lui. La ragazza pareva essere sotto shock e giunti che furono alla macchina, dopo averla fatta sedere al posto di guida la scosse lievemente, attento a non farle male. “Ho bisogno di te, le disse con dolcezza ma in modo fermo, non posso guidare e tu devi portarmi via di qui. Ti dirò io dove andare”, per alcuni attimi pensò che non potesse farcela e che sarebbe crollata. Invece si riprese, assentì con vigore e mise in moto la macchina. Clark entrò dall’altro lato e partirono.

 

Il palazzo sulla cui sommità erano saliti era un vero e proprio spettro di cemento e acciaio, disabitato da almeno una decina d’anni per qualche ragione non era stato abbattuto e rimaneva lì, a testimoniare l’inesorabile e perenne declino della downtown. Chi fosse pervenuto a quella parte della città non avrebbe mai creduto di trovarsi nella stessa metropoli di Hollywood, Bel Air e Beverly Hills. Los Angeles era una città dalle mille forme e dalle mille anime. Alcune erano scintillanti e attraenti mentre altre erano grottesche, spaventose, pericolose.

Lori guardò la ferita sulla gamba di Clark. La granata avrebbe staccato l’arto a chiunque o al più lo avrebbe ridotto ad una poltiglia informe. Sebbene l’osso fosse visibile insieme a tendini e nervi, la gamba era ancora al suo posto e, notò Lori, non ne veniva fuori sangue.

“Funziona così da quando sono bambino, spiegò Clark,quando mi ferisco smetto di sanguinare velocemente”, le sorrise per non fargli capire quanto male stesse provando in quel momento.

Teneva chiuso l’occhio colpito dal proiettile, occhio completamente arrossato dal sangue e che non sentiva nemmeno più. Aveva addosso i segni dell’AK e le orecchie ancora gli fischiavano per tutto quel rumore.

“Mi dispiace, mormorò lei mentre gli teneva la mano, pensavo di poter gestire la situazione ed invece mi sbagliavo. Non mi considerano più una di loro, almeno non tutti e ho sottovalutato questa cosa. Volevo tanto esserti d’aiuto, ricambiare il favore e riuscire anche a scoprire qualcosa su mio fratello ed il mio ragazzo. Volevo sapere se quello che sospetti è vero.”

“Non devi giustificarti. Non devi scusarti. Basta solo che tu stia bene”, tentò di rasserenarla Clark con il suo fare gentile e protettivo.

Lei sorrise debolmente, “sei incredibile sai? Quando sei mesi fa ti ho conosciuto non potevo credere a quello che avevo visto. Pensavo di essermi abituata alle cose che sai fare ma mi sbagliavo. Oggi, la dentro, devo ammettere che un po’ mi hai fatto paura.”

“Me ne dispiaccio”, si scusò mesto Clark.

“Non fraintendermi! Mi hai salvato e questo non fa che aumentare il mio debito con te. Solo che quello che riesci a fare è semplicemente impossibile. Come ci riesci?”

“Non lo so. Credo di esser nato così. Quando ero piccolo ero diverso dagli altri, in un certo senso me ne rendevo conto ma non così tanto come lo sono ora. Con il passare degli anni la mia forza e la mia resistenza sono cresciute. Oggi, a 24 anni, queste mie facoltà speciali sono superiori a quanto non lo fossero da bambino. Inoltre ne ho sviluppate di nuove.”

“Davvero? Mi sembra già incredibile quello che sai fare.”

“Allora guardati questa”, le fece l’occhiolino e si mise in piedi, anche se con un po’ di fatica.

Lei non capiva ma lo seguì mentre lui raggiungeva il bordo del tetto dove si trovavano.

“Che vuoi fare?”

“Di certo non buttarmi giù, tranquilla.”

Lei osservò i suoi lineamenti variare leggermente, il colore di occhi e capelli cambiare nuovamente.

“Questa è una delle facoltà di cui mi parlavi?”

“Un giorno mio padre e mia madre mi dissero che quando mi adottarono avevo i capelli neri e gli occhi chiari salvo poi aver cambiato colore dopo poco tempo. Pensarono si trattasse di qualcosa di normale visto che a molti bambini piccoli capita. Un giorno ho scoperto che quando mi arrabbiavo il colore di occhi e capelli tornava ad essere quello che avevo da piccolo fin tanto che la rabbia non passava e poi, provando e facendo pratica, ho scoperto che potevo controllare questa cosa e non solo, anche i miei lineamenti cambiano. La forma dell’arcata sopraccigliare, gli zigomi, persino la mascella e la fronte.”

“Sembra una sorta di travestimento naturale, un po’ come fa il camaleonte. Meglio del passamontagna che ti ho regalato.”

Clark sorrise, “devo ammettere che è comodo quando non vuoi essere riconosciuto.”

Il sole stava levandosi all’orizzonte, strappando un po’ alla volta il mondo alla notte. Sul tetto su cui si trovavano, presto arrivarono i raggi della fiammeggiante stella. Clark e Lori furono illuminati dalla sua luce.

“Non è uno spettacolo magnifico?” chiese Clark, che nonostante tutto ancora provava infinita meraviglia nel vedere l’alba.

“Si”, mormorò lei, per un attimo dimentica della morte, della follia di poco prima, della paura che le aveva fatto battere più velocemente il cuore e vide perché Clark era voluto salire lì.

La ferita cominciò inizialmente a trasudare, un liquido trasparente e poi rosato, fin quando non buttò fuori un po’ di sangue vivo. Lori pensò sulle prime che la ferita avesse ripreso a sanguinare salvo ricredersi subito.

Arricciò il naso per via dell’odore che venne dalla ferita.

“Scusa, purtroppo è sempre così. Non posso farci nulla”, si giustificò un po’ imbarazzato Clark avvedendosi della reazione di lei.

 Il termine che descriveva meglio quello che vide era germogliare. Fu come se la carne germogliasse, riempiendo la voragine creata dall’esplosione della granata, la pelle corse a ricoprire rapidamente il nuovo strato di tessuto formatosi. Clark emise diversi mugugni e spiegò, tentando di rassicurarla, “fa male quando le ferite sono così profonde. Nervi, ossa e tendini bruciano e mentre si riformano danno una sensazione sgradevole. Come se qualcuno li stesse grattando. Per fortuna però passa velocemente”.

Si sentirono alcuni scricchiolii che Clark le spiegò essere dovuti alle parti di osso scheggiato che si andava rigenerando.

Aprì l’occhio, mostrandolo mentre il sangue veniva riassorbito e tornava ad essere come prima. I segni degli impatti e le piccole bruciature provocate dai proiettili svanirono come se non ci fossero mai stati. Clark se ne stava lì, le braccia allargate, quasi volesse spiccare il volo da un momento all’altro. Tutto il processo richiese circa un paio d’ore, durante le quali Lori non disse una sola parola.

“Solo un anno fa, le disse Clark, guarire da una ferita come questa avrebbe richiesto il triplo del tempo. Il sole ha quest’effetto su di me. Mi rigenera in più di un senso. Non solo, se la granata fosse esplosa in pieno giorno, sotto la luce del sole, è possibile che non mi avrebbe ferito. Nell’adolescenza ho scoperto che di giorno ero più forte, veloce e resistente che di notte e quest’effetto si è fatto più marcato mentre crescevo. La notte rimango comunque forte e resistente e con il tempo lo sono diventato ancora di più, sicuramente più del doppio di quando avevo 16 o 17 anni. Allo stesso modo l’effetto del sole è aumentato. Prima quasi raddoppiava le mie facoltà ma ora credo che quasi le quintuplichi.”

“Sei una specie di pannello fotovoltaico vivente…” mormorò lei.

Quell’affermazione strappò una risata a Clark. “Possibile”, ammise.

“Chi altri sa di te?”

“I miei genitori.”

“Non lo hai mai detto a nessuno?”

“Ho sempre avuto paura di quello che ne sarebbe conseguito.”

“Hai ragione ad aver paura. Se si sapesse in giro quello che sai fare, sono convinta che ti sbatterebbero in qualche gabbia, in uno di quei laboratori segreti del Governo dove tengono gli omini grigi con quei grossi testoni e gli occhi completamente neri”.

“Credi davvero a quelle storie?” Tentò di scherzare Clark, consapevole però che in quelle parole c’era più che un fondo di verità, il motivo per cui custodiva gelosamente il proprio segreto.

“Vere o no, non ti conviene rischiare.”

“Concordo.”

“Perché mi hai salvata?”

“Non potevo certo lasciar morire lì dentro.”

“Intendo la prima volta che ci siamo incontrati. Se mi avessi lasciata morire, non avrei scoperto né il tuo segreto, né chi sei.”

Clark sospirò e mentre la gamba continuava a guarire, “perché credo fosse giusto farlo. Non avrei potuto aver sulla coscienza la morte di una persona innocente, nemmeno se questo significava mettere in gioco il mio avvenire. Tu piuttosto, perché non hai detto ad anima viva quello che hai scoperto?”

“Intendi un perché oltre al desiderio di non finire internata in qualche struttura psichiatrica? Perché mi sembrava giusto così. Sono una mezza sbandata, una delinquente da quattro soldi, ho spacciato marjuana e hashish , mi sono prostituita ed ho girato un paio di film per adulti, ho accoltellato un uomo, anche se a dirla tutta se l’era meritato e, vediamo, non sono la persona più affidabile del mondo. Però non sono un’infame o tanto meno una carogna. Ti devo la vita e questo per me conta. Inoltre sei l’unica persona al mondo a non avermi chiesto niente in cambio. Anche questo conta e credo in definitiva sia il vero motivo per cui ho deciso di aiutarti nella tua indagine sull’Intergang. Tu perché ti interessi a loro? Non me lo hai mai detto.”

Clark non si aspettava quella risposta o tanto meno quella domanda. Decise che la verità era la cosa migliore da dire: “mio padre fu quasi ucciso da un delinquente legato all’Intergang. Quel giorno si salvò solo perché rientrai prima a casa e mi accorsi che qualcosa non andava. Con il tempo mi sono interessato alle loro attività, sempre di più, ed ho scoperto che sono un’organizzazione molto pericolosa, con legami ancora più pericolosi. Vorrei dare il mio contributo, scoprire quanto più possibile e con le mie facoltà, come puoi vedere, sono molto più al sicuro di tante altre persone.”

“Tu vorresti aiutare la polizia a sgominare l’Integang?”

“Le mie informazioni potrebbero aiutarla.”

“Hai pensato invece che con quello che sai fare, potresti sgominarla tu?”

Lui rimase interdetto. Quella considerazione l’aveva già fatta diverse volte, rispondendosi però come rispose a lei: “non posso, non sono al di sopra della legge. Questo è un lavoro per le forze dell’ordine, non per me.”

“Cazzate.”

“Cosa? Non credi debbano occuparsi le autorità?”

“No. Che tu non sia al di sopra della legge.”

Clark la scrutò, tentando di capirne i pensieri. Alla fine, dandosi per vinto, chiese, “che vuoi dire?”

“Ti faccio una domanda. Se uno sbirro venisse da te e ti dichiarasse in arresto?”

“Gli chiederei spiegazioni ma di certo lo seguirei e poi chiamerei un avvocato.”

“Di nuovo balle. Mettiamola così, il piedipiatti in questione ha preso un granchio e vuole portarti dentro ma tu hai qualcosa di più importante da fare. Qualcosa di vitale importanza. Che faresti?”

“Dipende da cosa intendi per vitale importanza.”

“Dipende da cosa intendi tu. Immagina qualcosa che senti di dover fare assolutamente.”

“Beh, tentennò Clark, ammettendo alla fine, allora forse mi sottrarrei all’arresto.”

“Vedi? Sei al di sopra della legge.”

“Ma chiunque lo farebbe al posto mio! Se una persona dovesse, poniamo il caso, salvare una persona che ama?”

“Certamente ma la differenza tra te ed una persona qualsiasi è che tu prima sei entrato in un covo di feccia della peggior specie, dove ti hanno scaricato un caricatore addosso abbastanza piombo da ridurre a groviera una persona normale e poi ti hanno lanciato addosso una granata. Hai alzato un energumeno psicopatico come fosse un peluche e lo hai sbattuto al muro senza che potesse farci nulla. Il poliziotto con te non avrebbe possibilità alcuna.

Il punto è che se decidessi che un mandato d’arresto, un atto emesso da un tribunale o i termini di una certa legge non siano giusti o che interferissero con, passami il termine, un bene più grande allora potresti sottrarre, con facilità, agli obblighi dei comuni mortali.”

In tutta la sua vita, se ne rese conto, non aveva mai visto le cose da quella prospettiva o quanto meno non seriamente. “Non sei come noi”, le parole di Hiram risuonarono ancora nella sua mente ma assumendo un nuovo significato. Un significato che non gli piaceva e gli provocò un moto di paura. A Lori non sfuggì e subito s’affrettò ad aggiungere, “ma sono certa che un bravo ragazzo come te non lo farebbe mai. Sembri troppo legato ai tuoi valori e troppo responsabile.”

“Lo spero …” rispose.

Rimasero lì fin quando la sua gamba non fu completamente guarita.

“Ti turba sapere tutto quello che ti ho confessato prima su di me?” domandò Lori.

“Non è mio compito giudicare il tuo passato. Quello che so è che adesso mi hai dimostrato di potermi fidare di te.”

“Loretta Quinnones.”

“Questo è il tuo vero nome?”

“Sapevi che il mio era falso?”

“Lori Lemaris non mi sembra un cognome tipicamente messicano.”

“Non lo è ma io non sono nemmeno messicana.”

“No?”

“Portorico. La mia famiglia viene da Portorico. Mio fratello Salvatore se la intendeva con i ragazzi messicani perché non c’erano altri portoricani dove vivevamo. Si fece rispettare da subito ed essendo il più bravo ladro di macchine del quartiere presero ad ammirarlo e gli proposero di entrare nella gang dei cuchillos. Mio marito, Fernando, era uno dei migliori amici di mio fratello. Fu lui a presentarmelo, sai? Io mi feci chiamare Lori Lemaris a ‘frisco. Andai lì un periodo per cambiare aria, dopo che mi ritrovai vedova e dovetti guadagnarmi da vivere da sola. Lori mi ci hanno sempre chiamata ma Lemaris suonava più accattivante o almeno così pensava il proprietario dello strip-club dove mi esibivo.”

“Ora conosco tutto di te”, scherzò Clark.

“Non ancora ma presto, ne sono certa, si.”

I due lasciarono il tetto, ognuno meditando sull’altro e su quanto appreso.

 

V Downtown, Los Angeles, California – due mesi dopo

 

Clark vide l’uomo chiamato Pequiῆo scendere con gran difficoltà dalla Camaro su cui gli avevano dato un passaggio. I ragazzi della sua banda lo avevano atteso per dargli il bentornato a casa ma non aveva l’aria di chi, in quel momento, fosse felice di trovare un comitato di benvenuto. Quella era gente nata e cresciuta praticamente in strada e mostrarsi debole era qualcosa di inconcepibile e di sicuro l’energumeno pieno di tatuaggi e dalla testa rasata lo era. Il busto ed il collare gli davano un’aria goffa ed impacciata ed effettivamente ne limitavano in modo penoso i movimenti.

Al braccio destro aveva un tutore mentre sulle gambe ed il braccio sinistro erano ancora visibili i terminali che mantenevano stabili i fili di kirschner. L’uomo appariva sofferente e a disagio ed i suoi compagni decisero di contenere le proprie dimostrazioni d’affetto.

Clark era lì, seduto nella sua auto, sentendosi in parte in colpa. Quell’uomo era un poco di buono ed un delinquente ma quello che gli aveva fatto lo spaventava. I danni che poteva fare ad una persona normale erano terribili e solo per un caso non lo aveva ammazzato. Ricordò ancora una volta il volto del criminale che stava per uccidergli il padre ed il misto tra sorpresa e dolore che lo assalirono.

“Non sono al di sopra della legge …” si ripeté dopo aver messo in moto. Lo ripeté per tutto il tragitto fino a casa sua.

 

“Allora, fece Clark con aria solenne, rivolto a Lori che, seduta sul letto, le ginocchia al petto, aveva intenzione di non perdere nemmeno una parola, l’Intergang, da quello che abbiamo capito, è nata come un piccolo gruppo di delinquenti legati alla malavita ebraica emigrata da Las Vegas e finita a Los Angeles. Nel corso degli anni si sono ingranditi, garantendosi l’appoggio di politici compiacenti e poliziotti corrotti. Si riciclano, smettendo di sporcarsi le mani e assoldando manovalanza tra i latini e gli afroamericani. La polizia e le autorità dello stato fanno una sorta di accordo occulto con loro, se è vero quello che ci hanno detto, per cui loro tengono a freno le guerre tra gang e loro chiudono un occhio sulle loro attività illecite. Si occupano sostanzialmente di tre tipologie di traffici: prostituzione, narcotici e prestiti; rinvestano i capitali tramite società di comodo nell’edilizia e in aziende produttrici di componenti elettroniche.

Decidono di fare un ulteriore salto di qualità e cominciano ed esportarsi al di fuori della California.

Morgan Edge e suo fratello Nathan erano i loro contatti per il mercato del Midwest.

In quegli anni portarono la coca colombiana in Kansas e, tramite produttori locali, contavano di occupare anche il segmento delle droghe leggere.

Nel frattempo l’Intergang ha allargato i propri interessi occupandosi delle armi.

Importazione e vendita di articoli provenienti dagli ex paesi sovietici e della ex Yugoslavia. Si tratta per la gran parte dei casi di versioni a buon mercato di armi americane, tedesche, italiane e svedesi.

In Nebraska foraggiano una ventina di gruppi paramilitari, in Lusiana e Florida riforniscono i locali narcotrafficanti di armi economiche ed irrintracciabili.

Non abbiamo nomi, non molti e comunque non associabili al loro nucleo dirigenziale ma ci sono delle società in cui ultimamente hanno investito parecchio.”

“Chi ti dice che queste ultime siano coinvolte nei loro traffici? Osservò Lori, gli occhi fissi alla mappa degli USA su cui Clark aveva segnato con puntine colorate l’onda di espansione dell’Intergang. Voglio dire, per quanto ne sanno i loro investitori sono puliti.”

“Può darsi ma alcune di esse hanno goduto di una crescita eccezionale grazie al numero di capitali che sono finiti nelle proprie casse e non posso non credere che qualcuno non si sia fatto qualche domanda. Ora, possono non voler sapere da dove vengano quei soldi ma non possono non sapere chi tratta affari con loro. Devono avere dei contatti, dei nomi, dei luoghi dove si incontrano e via dicendo. Quello potrebbe essere il punto di partenza che stiamo cercando.”

“Più che altro, scusa se te lo dico, sembri volerlo credere.”

“Ammetto di essere esasperato dal muro di omertà che abbiamo incontrato ma non voglio mollare.”

“Hai qualcuno in mente su cui vorresti concentrarti?”

“Si. C’è un’azienda in particolare che qui sulla costa ovest ha praticamente dato la scalata ai danni delle altre, spesso arrivando ad inglobarle in modo poco ortodosso. Le sue azioni sono state piuttosto spregiudicate e ha ricevuto notevoli finanziamenti da chi sappiamo bene.

La Lex Corp.”

“Aspetta! Stai parlando della Lex Corp di Lex Luthor?!”, Lori sembrava genuinamente sorpresa.

“E di quale altra?”

“Vuoi dire che quel tipo alla moda, quel bel tenebroso incredibilmente figo potrebbe essere un burattino nelle mani dell’Intergang, una facciata dietro cui riciclare capitali sporchi?”

“Perché no?”

“Dovrai muoverti con molta prudenza.”

“Perché?”

“Non lo sai? Lo considerano l’uomo del momento. Lex Luthor è uno dei più giovani magnati d’America, lo so persino io, ed è amato da stampa e tv. Il Times e Forbes gli hanno dedicato alcune copertine. Come gli carpirai quello che ti serve?”

“Giocando giusto un poco sporco.”

I due si scambiarono diverse occhiate.

“Vuoi dire che userai le cose che sai fare?”

“Voglio dire proprio quello.”

“Ero convinta che non volessi metterti al di sopra della legge o meglio, era quello che dicevi tu.”

“L’Intergang sta moltiplicando i suoi contatti con gli ambienti eversivi e grazie ad una fitta rete di corrotti la cosa è stata sottostimata dai nostri governanti. Sono preoccupato di cosa questo possa significare. Delle volte è necessario forzare la mano e barare. Sono certo che Dio non me ne avrà.”

Lori sorrise sorniona, “mi piace questo Clark Kent tutta azione e adrenalina”.

“Non è un gioco”, la ammonì lui.

“No. Lo so bene, lo rassicurò lei, e voglio continuare a far parte dell’operazione.”

“Sei la mia socia. Non saprei che fare senza di te.”

 

Clark era meravigliato per lo spettacolo offerto dal moderno grattacielo, formato da quattro alti cilindri che parevano fatti di cristallo. Sembrava che bruciasse di luce propria lì, nella tetra notte di Los Angeles. Compton, con le sue rapine, gli accoltellamenti, le guerre tra gang, le baby prostitute sembrava lontana e Clark si interrogava come nella Downtown riuscissero a coesistere contemporaneamente due anime così distanti. Quella putrescente e crudele del crimine e quella sfarzosa e altera dell’opulenza, della ricchezza. Originariamente quello sarebbe dovuto essere per intero un grande Hotel ma il Bonaventure Palace ora accoglieva anche gli uffici della Lex Corps.

Lex Luthor aveva affittato due piani per sé e viveva in una delle più lussuose suite del Bonaventure.

L’auto di Clark avrebbe potuto attirare solo qualche disperato perciò la lasciò senza farsi troppi problemi e s’avvicinò all’edificio percorrendo la 4th. C’erano troppe luci e la vigilanza effettuava dei giri ad orario intorno al palazzo, senza contare le telecamere di sorveglianza.

Lui e Lori avevano studiato bene il piano. Le conoscenze della ragazza gli avevano procurato un incontro con un ex spacciatore che conosceva bene i sotterranei di Downtown. Il “sorcio” gli aveva fornito una mappa e lì, a poca distanza, c’era un vicolo che si insinuava tra una coppia di vecchi palazzi, un tempo entrambi grandi magazzini. Trovò il tombino proprio dove gli era stato detto e, assicuratosi con una rapida occhiata intorno che nessuno fosse nei paraggi, si chinò allungando la mano verso di esso. Non voleva fare rumore e non sapeva se, a quell’ora, fosse in grado di divellerlo visto che pareva ben piantato. Armeggiò cercando un punto in cui inserire le dita e far presa, spinse, sbuffò e alla fine, gonfiando i muscoli delle braccia, riuscì nella sua impresa.

Nel vicolo non c’erano telecamere ma per sicurezza aveva calato sul volto il passamontagna regalatogli da Lori, nonostante la sua capacità “camaleontica”. L’indomani le autorità competenti si sarebbero chieste come qualcuno avesse potuto forzare in quel modo il robusto tombino di ferro.

Atterrò dopo un breve salto nel canale di servizio lungo le cui pareti passavano per un buon tratto i cavi dell’elettricità prima di tornare a correre nascosti alla vista. Lo spazio era angusto, stretto e soffocante, uno dei tanti canali che costituiva l’enorme, spaventosa rete sotterranea di Los Angeles.

I piedi di Clark erano affondati in una sorta di melma maleodorante, melma smossa da un quello che pareva un rio sotterraneo altrettanto sporco e sgradevole all’odore.

Ebbe un paio di conati ma riuscì a contenerli. Avanzò, un passo dopo l’altro, gli scarponi compranti per l’occasione li avrebbe dovuti buttare dopo quel silenzioso viaggio sotto la superficie della strada. Ad un certo punto dovette accendere la torcia perché lì non c’era abbastanza luce nemmeno per lui. Vide solo alcune piccole macchie di calore, forse ratti, correre via al suo passaggio. Cercò di concentrarsi sulla mappa e di seguirne il percorso.

Lì le distanze erano molto diverse rispetto a quelle che avrebbe dovuto percorrere sopra. Il tunnel voltò più di una volta, spesso senza nessuna logica apparente, e diverse volte temette di essersi perso. Alla fine però giunse innanzi la scala di ferro di cui gli era stato detto.

Quando la Mitsubishi, il committente originario dell’edificio, comprò il terreno e fece iniziare le costruzioni, in pochi erano a conoscenza dell’esistenza di quel piccolo, assurdo rifugio anti-atomico risalente alla fine degli anni ’50, quando la paura di un olocausto nucleare si era affacciato sulle coscienze degli americani. Effettivamente il proprietario, grazie ad alcune amicizie, aveva fatto in modo che la sua costruzione fosse discreta e nota a pochi. Temeva che durante il giorno del giudizio qualcuno avrebbe cercato di bussare alle porte del suo fortino e, magari, di sottrarglielo.

Il rifugio era praticamente attiguo ad uno dei locali delle caldaie del Bonaventure e da lì, se fosse stato attento e veloce, si sarebbe potuto spostare verso uno degli ascensori e risalirne la tromba.

35 piani per 112 metri non sarebbero stati un problema per lui o almeno sperava, visto che non aveva mai tentato la scalata a nulla di così alto.

Il committente del rifugio si era voluto assicurare un ingresso anche dai canali sotterranei della città, tanto per essere sicuro, ed il pesante portello a chiusura stagna di piombo ed acciaio inossidabile avrebbe dovuto garantirgli tutta la protezione da eventuali intrusi di cui aveva bisogno.

Clark tirò un profondo respiro e colpì con il pugno, una, due, tre volte. Il portello vibrò ma sentì chiaramente le nocche dolergli a causa dell’impatto. Non poteva arrendersi. Colpì con ancora più vigore, nonostante la posizione scomoda lì, arrampicato sugli scalini di bronzo, che non gli garantiva certo di poter esercitare a pieno la sua forza. Colpì fino a quando sentì i cardini del portello cedere e vide la sua superficie curvarsi sotto la pressione ma, a quel punto, gli scalini  su cui si reggeva cedettero e lui si ritrovò nel nauseabondo fiumiciattolo. Si tirò in fretta a sedere e dovette togliersi immediatamente il passamontagna. Stavolta non riuscì a farne a meno e vomitò.

S’accorse di avere in mano una delle barre che costituivano la scaletta su cui poco prima si era sorretto. La lasciò cadere e guardò in alto. L’impresa era più difficile di quanto non avesse preventivato. L’idea che gli traversò la mente all’inizio fu bollata come folle ma, ormai, non aveva molte altre alternative. Fletté le gambe, accovacciandosi a terra, i palmi delle mani affondati nel flusso disgustosa. Prese un respiro e conto fino a tre, tutti i muscoli in tensione. Si proiettò in alto con una violenta accelerazione, i pugni protesi davanti.

Il portello subì una sollecitazione così violenta che venne divelto dai suoi cardini e per poco Clark non ricadde attraverso il buco attraverso cui era passato. Allargò le gambe giusto un istante prima e ma non evitò che il portello gli piombasse sulla testa dopo aver colpito il soffitto.

Massaggiò la testa sentendo bruciore nel punto in cui la pesante porta era caduta e per un po’ ebbe come delle vertigini e la sensazione di svenire.

Si affrettò a direzionare il fascio di luce della torcia prima su una mano e poi sull’altro, entrambe erano ferite. I guanti che le avvolgevano si erano lacerati sulle nocche e lasciavano esposta la cute piena di lividi e leggermente sanguinante.

Clark rimase per un po’ lì, mani e braccia doloranti e dopo un po’ decise che era meglio muoversi.

Aveva ripassato mentalmente il piano studiato con Lori.

I piani del Bonaventure erano sottoposti a videosorveglianza. In quelli occupati dalla Lex Corps in ogni ufficio, una volta svuotatosi, entrava in funzione una videocamera alla quale, dalle informazioni carpite in giro, Luthor poteva collegarsi a distanza all’occorrenza.

C’era un gruppo di continuità che garantiva l’energia in caso di black out. Il primo obbiettivo era eliminarlo per poi passare a creare un corto circuito che avrebbe bloccato i dispositivi di sorveglianza. Doveva agire velocemente e con decisione, prima che la sicurezza cominciasse a controllare piano per piano.

Lasciò la camera dove si trovava e, seguendo un breve corridoio giunse al portello che un tempo rappresentava l’altro collegamento con il mondo esterno, portello ora nascosto alla vista da un muro di mattoni. Clark aveva provato un forte ed inatteso senso di claustrofobia in quell’ambiente, a dispetto delle dimensioni non certo contenute, almeno centoventi metri quadri. Si disse che sopravvivere ad una guerra atomica con l’unica prospettiva di trascinare la propria esistenza al chiuso per il resto dei propri giorni non era qualcosa che lo allettasse. Forse, in tale evenienza, sarebbe stato meglio morire immediatamente.

Le mani gli facevano ancora male così decise che si sarebbe aperto la strada a calci. Ne sferrò uno senza sortire però grandi effetti se non quello di far vibrare visibilmente il portello. Fece in modo di piantarsi meglio a terra per caricarne uno ancora più potente. Il punto d’appoggio, una porzione di pavimento piastrellato, si ruppe al momento in cui colpì ancora. Le piastrelle si spezzarono ed il cemento sotto si ricoprì di diverse crepe. Sulla superfice della porta si era formata un’incurvatura che ricordava l’orma del suo piede. Conto fino a tre e bersagliò nuovamente la porta, stavolta con maggiore violenza, riuscendo a scardinarla. L’acciaio ed il piombo rovinarono a terra ma per sua fortuna lì, nei sotterranei del Bonaventure, a quell’ora nessuno poteva udire il frastuono provocato.

La sezione dello stretto corridoio in cui era penetrato era satura della polvere che si era levata quando aveva sfondato, insieme alla porta, una parte della parete ridotta ora a macerie e calcinacci che stavano lì, sul pavimento. C’erano poche luci ma più che sufficienti per i suoi occhi. Alcuni ratti e scarafaggi se ne stavano immobili, a poca distanza, forse incuriositi per quanto accaduto e parevano focalizzare la loro attenzione su di lui, cosa che mise a disagio Clark.

Memore del poco tempo a sua disposizione cercò la sala del generatore d’emergenza, controllando la piantina che aveva con sé ed una volta giunto lì, e sinceratosi non vi fosse nessuno, colpi con i pugni a mo’ di maglio il gruppo di continuità, riducendolo in una poltiglia metallica. Strinse i denti ogni volta che calò come distruttivi martelli le sue mani, ancora segnate e dolenti.

Una volta sistemato la fonte d’energia ausiliaria non gli rimase che cercare la centralina elettrica dove avrebbe provocato il cortocircuito che gli avrebbe assicurato di poter agire quasi indisturbato.

Doveva prestare attenzione perché avrebbe corso il rischio di rimanere fulminato e, per quanto resistente fosse, erano molti, forse troppi volt, anche per lui tenendo inoltro conto che in quel momento non era al massimo della sua resistenza. Risolvette il problema sradicando dal pavimento una grossa console imbullonata e lanciandola contro la centralina. Ci furono scintille e scariche e, per alcuni istanti, si pentì del gesto compiuto chiedendosi se non potesse essere pericoloso e, magari, innescare persino un incendio.

La fortuna fu dalla sua parte e tutto si esaurì in pochi istanti. Preso sarebbero arrivati i controlli, avrebbero visto la porta forzata ed il disastro all’interno. Avrebbero immediatamente realizzato trattarsi di un sabotaggio. Corse attraverso il corridoio verso l’ascensore numero quattro, quello che lo avrebbe portato negli uffici della Lex Corp. Aprì le pesanti porte e cominciò ad arrampicarsi lungo i cavi d’acciaio con grande velocità. Incontrò l’ascensore al quarto piano e non gli rimase che sfondarne il pavimento, dopo essersi assicurato che all’interno non vi era nessuno, e fattosi strado attraverso di esso, riprese la sua scalata.

Gli ci volle un po’ di tempo, arrivato al piano desiderato, aprire le porte dovendo tenere il cavo una delle mani.

Nessuno. Era nell’anticamera della Luthor Corp, dove c’era il grande desk da cui gli usceri in servizio di giorno davano il benvenuto agli ospiti. Due grandi porte a vetri scorrevoli gli sbarravano la strada. Si trattava di cristallo a prova di proiettile ma non a prova di uno come lui. Bersaglio con un paio di diretti l’ostacolo trasparente, provocandogli numerose incrinature ed infine, con un calcio, lo mandò in frantumi. L’allarme primario era disattivato e dunque non si azionò alcuna sirena ma sapeva che, nel momento in cui questo si era disattivato, alla centrale di Polizia più vicina, così come alla sede dell’Istituto di Vigilanza incaricato della sicurezza, era scattato un segnale che avvertiva chi di dovere dell’anomalia. Pochi minuti per arraffare tutti i registri che poteva, magari anche qualche hard disk ed infilare tutto nella sacca che portava come se fosse uno zaino sulla schiena.

Gli ci vollero quattro tentativi per trovare l’archivio e almeno cinque minuti per fare una sommaria selezione del materiale.

“Chi sei?”, la domanda seguì dopo quasi un minuto di silenzio il colpo di pistola che era stato esploso. Clark, rannicchiato dietro una scrivania, si diede dell’idiota. Era così concentrato sul suo lavoro da non essersi reso conto che qualcuno era giunto sul posto.

Non poteva essere una delle guardie perché non avrebbe mai sparato senza prima rilevare che l’intruso fosse armato e in procinto di fargli del male.

Gettò un’occhiata di sfuggita all’uomo. Alto, fisico atletico, capelli estremamente corti, rasati quasi a pelle, indossava una vestaglia da camera e teneva davanti a sé una glock. Non riusciva a distinguere altri particolari perché non c’era abbastanza luce e si chiese chi fosse. Realizzò solo dopo qualche istante. Lex Luthor abitava nello stesso palazzo dei suoi uffici.

Si meravigliò. Non aveva neanche preso lontanamente in considerazione l’idea che Luthor potesse accorrere di persona per verificare che tutto fosse a posto alla Lex Corp.

“Te lo chiedo ancora una volta. Chi sei?”, ripeté con glaciale perentorietà.

Clark ovviamente si guardò bene dal rispondere. Non voleva udisse la sua voce.

Un altro colpo che fischiò a pochi centimetri dal suo volto spingendolo a ritirarsi nuovamente dietro la scrivania.

“Tra poco la polizia sarà qui, spiegò con calma Luthor, e per quanto mi riguarda possono portarti via. Voglio solo sapere per chi lavori. Se me lo dici, per te si conclude bene. Se non me lo dici, dirò che è stata legittima difesa. Qui è buio e sarà facile per i miei avvocati convincere giudice e giuria che pensavo fossi pericoloso. Dirò che sei sbucato fuori all’improvviso. Spiegare il fatto che avevo un’arma con me non sarà difficile. Fatti furbo e dimmi chi ti ha mandato.”

Clark era colpito dalla spregiudicatezza di quell’uomo il cui tono di voce era ricco di una curiosa mescolanza di seduzione e minaccia.

“Mi manda una tua vecchia conoscenza …” Clark si stupì di sé stesso. Non sapeva di essere capace, oltre che di alterare il colore di occhi, capelli e carnagione, anche la propria voce. Quello che aveva parlato era un uomo di almeno vent’anni più vecchio, forse un fumatore e bevitore incallito a giudicare dalla rochezza con cui aveva pronunciato ogni parola. Era la voce di uno dei personaggi dei western che guardava da piccolo con il nonno Eben. Non sapeva come o perché ma gli era tornata alla mente, forse perché ad un certo punto quel personaggio si era trovato in una situazione simile a quella da lui vissuta. Intrufolatosi nell’ufficio dello sheriffo, si era ritrovato sotto tiro dopo essere stato sorpreso mentre cercava di liberare un compagno di malefatte.

“Ho molte vecchie conoscenze, osservò Luthor, devi essere più specifico.”

“L’Intergang”, a Clark, in quella situazione parve di non aver nulla da perdere. Dalla reazione avrebbe potuto capire se Lex Luthor era a conoscenza o meno del fatto che la sua azienda aveva ricevuto soldi provenienti dal mondo del crimine.

Ci fu un terzo colpo di pistola. “Mossa sbagliata, amico., ammonì severo Luthor, ora vediamo di finire questo inutile gioco.”

Clark avrebbe potuto facilmente sbaragliarlo e averne ragione. Sapeva che l’arma non l’avrebbe ferito ma non voleva che Luthor potesse vedere di cosa era in grado. Nessuno doveva sapere dell’esistenza di qualcuno come lui, o quanto meno nessuno al di fuori delle ristretta cerchia delle persone di cui si fidava.

Scattò e sfondò la vetrata di una delle grandi finestre dell’ufficio.

Cosa gli fosse preso nemmeno Clark avrebbe saputo dirlo. Non poteva essere certo di sopravvivere a quella caduta ma sul momento gli era sembrata la sua unica possibilità di fuga.

Quante accadde dopo  lo fece dubitare della sua stessa sanità mentale.

 

Lori lo attendeva nel punto prestabilito, dopo aver recuperato la sua macchina. Stava bevendo del caffè preso ad un fast food non distante e osservò preoccupata Clark avvicinarsi quasi brancolando.

“Che ti è successo?”, gli fece spaventata nel vedere il volto cereo di lui.

Per tutta risposta Clark si limitò a prendere posto vicino alla sua socia e disse con un filo di voce, “guida”.

Lari non se lo fece ripetere, mise in moto e gli chiese di allacciare la cintura per far spegnere la fastidiosa spia che si era attivata.

“È andato storto qualcosa?”, Lori cercò di decifrare qualcosa di quell’espressione inebetita che scrutava con la coda dell’occhio.

Lui le mostrò lo zaino con dentro i registri e poi, “è arrivato Luthor. Lui in persona. Mi ha sorpreso mentre frugavo nei suoi uffici. Ha aperto il fuoco, senza dire nulla. Le domande le ha rivolte dopo. È coinvolto. Sa che i soldi arrivano dall’Intergang. Probabilmente li ricicla per loro ed in cambio la sua compagnia prospera. Voleva uccidermi ad un certo punto ed io sono scappato, me ne sono volato via dalla finestra.”

“Hai saltato da quell’altezza?! Ti sei ferito?”

“No. Non ho saltato. Sono volato via.”

Lori tentò di valutare il senso delle parole udite e, quando decise che doveva essersi sbagliata, accostò la macchina, ormai lontana dal Bonaventure e chiese: “cosa significa? Non puoi aver veramente detto quello che ho sentito.”

“Sono volato via, insistette Clark, il volto privo di qualsiasi espressione, semplicemente. All’inizio cadevo, come mi aspettavo accadesse ed ero pronto all’impatto. È stato tutto veloce, così tanto che quasi non me ne sono reso conto. L’aria intorno a me a preso come a crepitare e ho rallentato, velocemente, e più mi avvicinavo all’asfalto più quel rumore, quasi un ronzio appena percettibile, è aumentato, intensificandosi, facendosi più veloce fintanto che ad un certo punto sono rimasto fermo, sospeso ed allora, dopo meno di un istante, è stato come se fossi rimbalzato su di una gigantesca molla. Capisci?! Lori sobbalzò per l’improvviso cambio umorale di Clark che ora le pareva quasi in preda ad una febbrile esaltazione. Sono finito in alto, come un missile, fendevo l’aria e guadagnavo distanza dal terreno e la velocità non diminuiva. Il cuore batteva veloce ed io continuavo a divorare la distanza a velocità crescente. Non so nemmeno quando la spinta che mi proiettava in alto è terminata. La parabola che mi ha portato a superare diversi grattacieli si è fatta discendente e mi sono ritrovato sul tetto di un palazzo, dopo avergli sfondato una serie di antenne paraboliche e alcuni pannelli solari. DIO MIO! Ho volato, Lori! Io ho volato!”

Lori rimase come stordita ed inebetita lo fissò a lungo, senza che lui dicesse più nulla.

Rimise in moto e riprese la via. Quell’uomo poteva volare.

Clark Kent poteva volare, solo questo pensava Lori Lemaris.

L’aveva visto sopportare il fuoco delle armi dei chucillos, sfondare porte e mura come se fossero di carta pesta ed ora aveva scoperto che Clark poteva anche questo.

“Chi sei?”, non si limitò a pensarlo ma lo disse e prima che avesse tempo di rendersene conto,

“Non lo so”, fu la risposta angosciata che ricevette.

 

 

Los Angeles – Un anno dopo.

 

 

George Taylor teneva tra le mani il Curriculum Vitae di Clark Kent. Gli dette alcune occhiate e cosa ne pensasse era difficile da decifrare. Parlò con la sua voce profonda e un po’ vibrante:

“Hai una laurea da in Management and Ethics ed un diploma di un anno in Studi Biblici conseguiti alla Manhattan Christian College in Kansas, dopo di che hai conseguito una laurea da associato presso la Colorado Journalism School in giornalismo ed etica giornalistica. Studi biblici? Volevi diventare un pastore o qualcosa del genere?” incalzò con tono provocatorio l’Editor in Chief del Daily Star. Clark non aveva nascosto né il suo timore, né il suo entusiasmo nel trovarsi nell’ufficio di quel veterano dell’informazione, un vero gigante nel suo campo, a capo di uno dei giornali più prestigiosi di sempre. Tuttavia non voleva apparire troppo remissivo o tanto meno debole:

“Volevo approfondire i miei studi sulla religione. Sono cristiano e quindi ho sentito l’esigenza di capire più a fondo i sacri testi alla base del mio credo.”

“Sei cristiano? E se dovessi scrivere un pezzo, non so, sulla Jihad islamica?”

“Essere cristiani e dirlo tranquillamente non pregiudica l’obbiettività, se è questo che vuol dire. Scriverei che sono dei terroristi e assassini, non per via della loro religione ma perché ammazzano persone innocenti per raggiungere i propri scopi.”

George sorrise. Gli era piaciuto il piglio con cui gli aveva risposto. Aveva capito che il ragazzo voleva impressionarlo ma per ora ci stava riuscendo.

“Come mai ti sei buttato sul giornalismo? È stato un bel cambio passare dagli studi biblici a questo.”

“Mi interessano i grandi temi come l’attualità, l’etica, la moralità nella politica e nel mondo degli affari. Credo fermamente che la gente abbia il diritto di farsi un opinione su di essi e che la stampa abbia il potere ed il dovere di dargli gli strumenti per farlo.”

“E come mai questo tuo interesse per l’Intergang?”

Clark non rispose. Guardava incredulo l’uomo chiamato dai suoi collaboratori “il vecchio” o “il mastino”. Lui dall’altra parte della scrivania lo scrutava quasi sornione, giocherellando ora con un sigaro estratto da una scatola d’argento che teneva in bella vista, quasi fosse un trofeo.

“Come fa a …?”

“Credevi che mi bastassero tre fogli in croce per riceverti qui? Hai idea di quanti neo laureati e aspiranti giornalisti bussano alla mia porta, mi implorano per un colloquio e quanti ne rimando  a casa, con la coda tra le gambe e le lacrime agli occhi?

Clark Kent, un nome che mi suonava famigliare e così ho fatto un giro di telefonate.

Eri la disperazione dei tuoi professori lì, in Colorado. Tipo sveglio ma seguivi poco le lezioni, hai ripiegato su un diploma da associato perché ad un certo punto hai sentito l’esigenza di andare via. Hai incontrato un paio di mie vecchie conoscenze durante la caccia all’Intergang che hai condotto negli ultimi tre anni. Caccia iniziata seriamente quando ti mancava ancora un anno al conseguimento del diploma e questo spiega il calo del tuo rendimento.

Le persone che tendono ad interessarsi all’Intergang di solito fanno una brutta fine ma tu hai comunque voluto impicciarti. La domanda rimane: perché?”

“Perché un delinquente che lavorava per loro quasi ammazzò mio padre. Per me l’Intergang divenne una vera ossessione. Inoltre credo a tutto quello che le ho detto prima e l’Intergang è un cancro che sta avvelenando l’esistenza di tanta brava gente. Volevo inchiodarli alle loro responsabilità ma da solo non ci riesco.”

Clark decise quasi immediatamente che, con quell’uomo dallo sguardo inquietante, non valeva la pena mentire.

“Così vuoi servirti del mio giornale?” chiese divertito Taylor.

“Voglio servirmene e voglio anche mettere al suo servizio le mie idee e la mia volontà.”

“Sei un presuntuoso figlio di puttana”, lo apostrofò George Taylor.

“Forse, però ho raccolto un bel po’ di materiale sull’Intergang e potrebbe venirne fuori un grosso  scoop”, era la prima volta che rivelava a qualcuno che non facesse parte del suo progetto l’esistenza delle prove raccolte durante quei tre anni. Era il suo asso nella manica e quello era il momento di giocarselo.

George Taylor se ne rimase lì, immobile come una statua, gli occhi scuri fissi nei suoi, gomiti al tavolo, le mani intrecciate davanti la bocca.

Scoppiò in una fragorosa risata. “Sei davvero un figlio di puttana! Cerchi di ingolosirmi con la storia del materiale e sai una cosa? Ci sei riuscito! Però ricorda quello che sto per dirti, ragazzino, questo è un mondo duro e la gente con cui ti sei invischiato potrebbe risalire a te, come ci sono riuscito io. Fino ad ora sei stato solo un piccolo giornalista dilettante, protetto da un sicuro anonimato ma se scriverai per il mio giornale, allora lo farai alla luce del sole e quando comincerai ad occuparti pubblicamente di quei criminali potresti avere un sacco di problemi.”

“Me ne rendo conto. La ringrazio per l’avvertimento ma sono determinato ad andare avanti per la mia strada.”

“Allora intanto togliti dai piedi. Ora ho da fare e hai abusato sin troppo del mio tempo. Domani passa all’Ufficio del Personale, ore 9 in punto, non un minuto prima, non un minuto dopo. Troverai la mia proposta di collaborazione ma non ti aspettare che sarà semplice. Inizierai facendo gavetta prima di poter usare il mio giornale per i tuoi scopi. Dovrai dimostrarmi quanto vali altrimenti, per quanto mi riguarda, puoi tornartene nello stramaledetto Kansas, da dove sei venuto. Tutto chiaro?”

“Tutto chiaro. Non se ne pentirà.”

“Vedremo.”

Clark Kent salutò educatamente ed uscì dall’ufficio.

George Taylor osservò il giovane andarsene via, diretto verso gli ascensori.

“Sei in gamba, ammise con sé stesso, però rischi troppo e forse anch’io ho fatto un azzardo nel darti una possibilità. Però mi sei simpatico, campagnolo figlio di puttana. Non si può certo dire che tu non abbia le palle.”

George Taylor non poté vedere il sorriso sul volto di Clark mentre questi prendeva l’ascensore.

Clark si era sforzato di concentrarsi solo sulla voce di Taylor, nonostante  tutto il picchettare sulle tastiere dei computer, le stampanti e le fotocopiatrici in funzione, le battute, le risate, le telefonate, le porte dei bagni che si aprivano e chiudevano. Era riuscito a captare quelle parole e lo ripagavano di tutti i suoi sforzi.

 

Clark Kent aveva 26 anni e stava per iniziare a lavorare per uno dei più grandi giornali del Paese. Non poteva non sentirsi emozionato. Quattro anni di caccia all’Intergang avevano dato i suoi frutti ed ora era intenzionato a raccoglierli.

 

 

Continua