Yuri
Lucia
SUPERMAN
YEAR ONE
THE CHILD OF TOMORROW
N 3 Pt II
… a Bright …
IV
Downtown N., Los Angeles, California – Due anni dopo
La
vecchia Ford che Clark aveva comprato per duecento dollari non valeva nemmeno
la metà del suo valore, tanto male era messa. Sorseggiò un po’ di caffè dal
termos, tenendo d’occhio quel vicolo che dalla W. Arbutus
street correva
fino alla Accacia Avenue , tagliando in diagonale
quell’ammasso di vecchi e fatiscenti edifici che si incuneavano proprio
all’angolo tra le due strade. Lì i latino e gli afro-americani ogni giorno si
contendevano il territorio, in una sorta di perenne guerriglia urbana per
conquistare una strada, un palazzo, un fatiscente androne, un marciapiede.
Luoghi di spaccio o dove piazzare le proprie prostitute. Un’insensata e
violenta escalation costava la vita a uomini, donne, ragazzi e persino bambini,
il tributo di sangue da pagare per detenere un effimero e mutevole potere.
Era
preoccupato per Lori che non dava sue notizie da quasi un’ora, come gli
confermò lo sguardo che lanciò all’orologio della macchina. Era stato
avvertito, la ragazza gli aveva detto più volte che una volta dentro avrebbe
impiegato del tempo e che lui non doveva preoccuparsi ma rimanere calmi era
difficile.
Perché
era giunto fin lì? La sua personale caccia all’intergang
e alle sue radici appariva insensata agli altri ma lui ne conosceva i veri
motivi. Il rumore di quello sparo che proveniva dal capanno gli risuonava in
testa ancora e ancora, dopo tutti gli anni trascorsi.
Addentò
un pezzo del panino comprato un paio d’ore prima. Non aveva fame ma doveva
combattere in qualche modo il nervosismo. Masticò in modo quasi convulso.
“Perché è ancora lì dentro?”, Lori era
sicura di sé, diceva di conoscere bene l’ambiente in quanto suo fratello ed il
suo ex erano stati nella gang dei cuchillos. “Hombres d’onore e
rispettati”, diceva lei ma entrambi morti in circostanze poco chiare. Secondo i
compagni uccisi dai Black Mambas, una gang afro rivale ma dall’idea che Clark si
era fatto, stando ai rapporti di polizia e a particolari forniti dalla stessa
Lori, forse entrambi erano stati fatti fuori proprio dai loro in una sorta di
guerra interna per il controllo della banda.
I
cuchillos erano i maggiori referenti dell’Intergang in quella parte malata di Los Angeles ed era
grazie al loro aiuto che un gruppo di violenti teppisti era riuscito a divenire
tanto potente in breve tempo.
Se
i sospetti di Clark sulla fine dei cari di Lori era corretto, l’idea di andare
a cercare informazioni proprio tra i cuchillos non
era stata delle migliori.
“Non
volevo questo,” le aveva detto mentre
litigavano quel pomeriggio,” mi
bastano i tuoi racconti e magari qualche nome a cui io mi possa rivolgere”.
“Non
si faranno mai avvicinare da un bianco, tanto meno uno come te, scompariranno
prima che tu possa rivolgergli le tue domande o ti spareranno prima”.
Clark
l’aveva guardata quasi a dirgli “sai che
per me non sarebbe pericoloso” ma lei aveva insistito. Lui non aveva
bisogno di pubblicità. Doveva agire con discrezione.
Clark,
pensando a quelle parole, mise istintivamente la mano sotto il sedile e ne
trasse il regalo di Lori. Lo osservò, fissandone le vuote fessure.
Le
mura del palazzo dove la sua amica era entrata erano spesse, troppo anche per
il suo udito.
Lo
sparo che spezzò il silenzio, invece, lo sentì benissimo. Ci sarebbe riuscito
anche senza i suoi sviluppatissimi sensi.
La
situazione era degenerata in pochi tempo. Santos non era contento che Lori si
trovasse lì e le aveva chiesto perché fosse tornata a Los Angeles tempestandola
poi di domande. Inutilmente la ragazza aveva finto indifferenza, spiegando più
volte che la sua era una visita ai vecchi amici della gang.
“Non
sei mai stata una di noi”, le aveva replicato con veemenza Ana, una delle due
ragazze di Santos. Jesus e Gonzalo invece l’avevano
difesa, rimproverando Santos per la sua diffidenza, ricordandogli chi era e di
chi fossero stati il fratello ed il ragazzo.
Santos
telefonò a Manuel, l’attuale capobanda, senza riuscire a trovarlo, cosa che aumentò
il suo nervosismo. Non gli erano piaciute le domande che aveva rivolto ad
alcuni ragazzi della gang.
“Secondo
me lavora per gli sbirri! È una venduta!” aveva quasi ringhiato contro di lei,
additandola con astio. Più volte palesò il desiderio di perquisirla venendo
però bloccato sempre da Gonzalo sempre meno disposto a tollerare le paranoie
del compagno.
Lori
si tolse il giubbotto, laniandolo con fare sprezzante su di una poltrona così
in malarnese che nemmeno un rigattiere l’avrebbe
voluta. “AVANTI! GUARDA PURE SE C’È UN CAZZO DI MICROFONO!” gli urlò. Spesso
fare la voce grossa o mostrarsi spavaldi funzionava quando qualcuno voleva
metterti sotto, o almeno così pensava Lori ma Santos non mollava anzi, quella
posa lo indispettì ancora di più.
Santos
aveva aspirazioni da capo e voleva che Manuel gli affidasse più incarichi e più
responsabilità. Non gli piaceva Lori, non le erano mai piaciuti né il fratello,
né il ragazzo. Si diceva che in realtà fosse stato Manuel a farli fuori perché
per lui rappresentavano un pericolo, perché non sapevano stare al loro posto.
Erano solo voci sussurrate perché nessuno osava dirlo apertamente. Lori magari
le aveva sentite e ci credeva, magari aveva deciso di vendicarsi e stava
cercando di scoprire qualcosa di compromettente, altrimenti perché avrebbe
dovuto chiedere dell’intergang e della guerra tra
bande.
Santos
estrasse la sua pistola, un ferro comprato un paio di mesi prima, un revolver a
sei colpi.
Voleva
minacciarla, voleva farla confessare ma non aveva tenuto conto che quel gesto
equivaleva a gettare un fiammifero in una polveriera. Grosso rischio.
Da
tempo nella gang c’era una spaccatura interna e Santos e Gonzalo si trovavano
ai lati opposti della frattura. Sfortunatamente per entrambi c’erano amici e
sostenitori sia dell’uno che dell’altro presenti.
L’ambiente,
un vecchio magazzino adiacente ad uno dei tanti palazzi dormitorio del
quartiere, era sufficientemente ampio da aver permesso una pericolosa adunanza
di soggetti dal grilletto facile e dall’animo fin troppo teso.
Gonzalo
urlò qualcosa a Santos che, per tutta risposta, aprì il fuoco.
Lori
si salvò più per un caso che non per prontezza di riflessi. All’improvviso i
membri della gang cuchillos si era spaccata in due
fazioni e si stavano massacrando a vicenda a colpi d’arma da fuoco. Uno dei
presenti, correndo nel tentativo di imboccare le scale che portavano al piano
superiore e, forse, chiedere aiuto agli altri presenti nello stabile l’aveva
urtata, facendola finire in terra. Lui, dopo un istante, venne abbattuto da una
raffica di mitra. Qualcuno aveva tentato di sparare ai rivali dimenticando che
il brandeggio di un’arma del genere non era cosa facile. Lori si rannicchiò,
tentando di trovare riparo sotto un grande tavolo di metallo su cui stavano
torni, presse e attrezzi da lavoro vari.
Le
urla furono coperte dagli spari e, in poco meno di mezzo minuto a terra stavano
più di quindici persone. Rimanevano in pochi ma da sopra non ci avrebbero messo
molto ad arrivare e allora cosa sarebbe accaduto la ragazza non lo avrebbe
saputo dire.
Pregò.
Si raccomandò l’anima a Dio, sperando potesse perdonarla per i suoi peccati
concedendole di riabbracciare i suoi cari.
Le
grandi porte di metallo scorrevoli erano bloccate da un pesante catenaccio che
ne impediva l’apertura. Il catenaccio si spezzò, le porte vennero divelte e lui
entrò nell’ambiente saturo di polvere da sparo, un anonima giacca color marrone
chiaro, i capelli neri come la pece, gli occhi di blu dalle sfumature
inquietanti, l’espressione truce.
I
sopravvissuti alla sparatoria erano storditi, feriti, l’adrenalina impediva
loro di sentire dolore e accelerava le reazioni. Gli uzi
erano scarichi ma avevano ancora dei colpi nelle automatiche e non esitarono a
indirizzarli verso quell’uomo.
Lui
avanzò illuminato a malapena dalla luce delle poche lampade rimaste, incurante
del metallo che cozzava contro la sua pelle piegandosi, appiattendosi,
insensibile all’effetto balistico. Cercò con lo sguardo Lori e vide che era lì,
ancora calda, viva, tremante.
Il
primo ad arrivare sulla scena fu un massiccio membro della gang armato di AK.
Non sapeva cosa fosse successo, non sapeva che la strage l’avevano provocata i
suoi stessi compagni che avevano dato sfogo a risentimenti e dubbi covati da
troppo tempo. C’era un estraneo lì e fu lui l’oggetto della sua rabbia. Gli
avevano insegnato come sparare con il fucile AK e mise in pratica le sue
conoscenze scaricando tutto il caricatore su quello che reputava l’assassino
dei suoi fratelli. Pochi secondi e l’arma smise di ruggire la sua meccanica
rabbia.
Clark
annaspò per via dell’impatto che gli aveva tolto il fiato e s’avvide di diverse
piccole ferite e lividi che gli si erano formati sulle mani e le braccia e, a
giudicare dal dolore anche sul torace.
Serrò
i pugni, stringendo i denti e fissò chi gli aveva sparato.
Quello
era allibito. Non c’era un cadavere ridotto ad un colabrodo sanguinante come si
sarebbe aspettato ma un uomo che pareva piuttosto arrabbiato.
Clark
scattò rapido verso di lui e sollevò 100 kg di essere umano senza sforzo sbattendolo
contro il muro.
Gli
altri erano ancora sulle scale quando videro “pequeῆo” in balia di uno
sconosciuto che lo aveva sbattuto al muro come se fosse una bambola di pezza.
Qualcuno
aprì il fuoco ed il colpo, fortuitamente, arrivò all’occhio di Clark che mollò
la presa sull’energumeno che cadde sul pavimento come una bambola di pezza. Portò la mano al
volto e, voltatosi, colpì con un calcio gli scalini che si frantumarono. Un
secondo, un terzo ed un quarto calcio mentre calcinacci e pezzi di cemento
volavano dappertutto, indebolì la struttura che cominciò a crollare
costringendo i delinquenti a tornare di sopra.
“Hijo de puta!” gli urlò qualcuno alle
spalle. Troppo tardi s’avvide che uno dei superstiti alla sparatoria aveva
recuperato una granata, conservata in un quel luogo nel caso la polizia si
fosse fatta audace, tentando una retata in uno dei covi più importanti dei cuchillos.
Aveva
già tolto la sicura e lanciata contro Clark.
La
deflagrazione lo spinse contro il muro e sentì un bruciore diffonderglisi sulla
gamba.
Zoppicò.
Era ferito ma ancora vivo e la gamba, anche se lacera e sanguinante era ancora
lì.
Il
ragazzo era incredulo, più di quanto non lo fosse stato pequeῆo prima e boccheggiò diverse volte. Clark prese un paio di tenaglie
dal grande banco degli attrezzi e gliele lanciò contro. L’impatto compresse il
torace, rompendo un paio di costole del giovane gangster che finì a gambe a per
aria.
“Vieni,
sbrigati!” esortò Lori che aveva assistito impietrita a tutta la scena.
Si
era caricato Lori in spalla, saltando via contando sulla forza di una sola
gamba. Il peso di Lori, nonostante avesse l’altro arto momentaneamente fuori
uso era quasi ininfluente per lui. La ragazza pareva essere sotto shock e
giunti che furono alla macchina, dopo averla fatta sedere al posto di guida la
scosse lievemente, attento a non farle male. “Ho bisogno di te,” le disse con dolcezza ma in modo
fermo,” non posso guidare e tu devi
portarmi via di qui. Ti dirò io dove andare”, per alcuni attimi pensò che non
potesse farcela e che sarebbe crollata. Invece si riprese, assentì con vigore e
mise in moto la macchina. Clark entrò dall’altro lato e partirono.
Il
palazzo sulla cui sommità erano saliti era un vero e proprio spettro di cemento
e acciaio, disabitato da almeno una decina d’anni per qualche ragione non era
stato abbattuto e rimaneva lì, a testimoniare l’inesorabile e perenne declino
della downtown. Chi fosse pervenuto a quella parte della città non avrebbe mai
creduto di trovarsi nella stessa metropoli di Hollywood, Bel Air e Beverly
Hills. Los Angeles era una città dalle mille forme e dalle mille anime. Alcune
erano scintillanti e attraenti mentre altre erano grottesche, spaventose,
pericolose.
Lori
guardò la ferita sulla gamba di Clark. La granata avrebbe staccato l’arto a
chiunque o al più lo avrebbe ridotto ad una poltiglia informe. Sebbene l’osso
fosse visibile insieme a tendini e nervi, la gamba era ancora al suo posto e,
notò Lori, non ne veniva fuori sangue.
“Funziona
così da quando sono bambino,” spiegò
Clark,” quando mi ferisco smetto di
sanguinare velocemente”, le sorrise per non fargli capire quanto male stesse
provando in quel momento.
Teneva
chiuso l’occhio colpito dal proiettile, occhio completamente arrossato dal
sangue e che non sentiva nemmeno più. Aveva addosso i segni dell’AK e le
orecchie ancora gli fischiavano per tutto quel rumore.
“Mi
dispiace,” mormorò lei mentre gli
teneva la mano,” pensavo di poter
gestire la situazione ed invece mi sbagliavo. Non mi considerano più una di
loro, almeno non tutti e ho sottovalutato questa cosa. Volevo tanto esserti
d’aiuto, ricambiare il favore e riuscire anche a scoprire qualcosa su mio
fratello ed il mio ragazzo. Volevo sapere se quello che sospetti è vero.”
“Non
devi giustificarti. Non devi scusarti. Basta solo che tu stia bene”, tentò di
rasserenarla Clark con il suo fare gentile e protettivo.
Lei
sorrise debolmente, “sei incredibile sai? Quando sei mesi fa ti ho conosciuto
non potevo credere a quello che avevo visto. Pensavo di essermi abituata alle
cose che sai fare ma mi sbagliavo. Oggi, la dentro, devo ammettere che un po’
mi hai fatto paura.”
“Me
ne dispiaccio”, si scusò mesto Clark.
“Non
fraintendermi! Mi hai salvato e questo non fa che aumentare il mio debito con
te. Solo che quello che riesci a fare è semplicemente impossibile. Come ci
riesci?”
“Non
lo so. Credo di esser nato così. Quando ero piccolo ero diverso dagli altri, in
un certo senso me ne rendevo conto ma non così tanto come lo sono ora. Con il
passare degli anni la mia forza e la mia resistenza sono cresciute. Oggi, a 24
anni, queste mie facoltà speciali sono superiori a quanto non lo fossero da
bambino. Inoltre ne ho sviluppate di nuove.”
“Davvero?
Mi sembra già incredibile quello che sai fare.”
“Allora
guardati questa”, le fece l’occhiolino e si mise in piedi, anche se con un po’
di fatica.
Lei
non capiva ma lo seguì mentre lui raggiungeva il bordo del tetto dove si
trovavano.
“Che
vuoi fare?”
“Di
certo non buttarmi giù, tranquilla.”
Lei
osservò i suoi lineamenti variare leggermente, il colore di occhi e capelli
cambiare nuovamente.
“Questa
è una delle facoltà di cui mi parlavi?”
“Un
giorno mio padre e mia madre mi dissero che quando mi adottarono avevo i
capelli neri e gli occhi chiari salvo poi aver cambiato colore dopo poco tempo.
Pensarono si trattasse di qualcosa di normale visto che a molti bambini piccoli
capita. Un giorno ho scoperto che quando mi arrabbiavo il colore di occhi e
capelli tornava ad essere quello che avevo da piccolo fin tanto che la rabbia
non passava e poi, provando e facendo pratica, ho scoperto che potevo
controllare questa cosa e non solo, anche i miei lineamenti cambiano. La forma
dell’arcata sopraccigliare, gli zigomi, persino la mascella e la fronte.”
“Sembra
una sorta di travestimento naturale, un po’ come fa il camaleonte. Meglio del
passamontagna che ti ho regalato.”
Clark
sorrise, “devo ammettere che è comodo quando non vuoi essere riconosciuto.”
Il
sole stava levandosi all’orizzonte, strappando un po’ alla volta il mondo alla
notte. Sul tetto su cui si trovavano, presto arrivarono i raggi della
fiammeggiante stella. Clark e Lori furono illuminati dalla sua luce.
“Non
è uno spettacolo magnifico?” chiese Clark, che nonostante tutto ancora provava
infinita meraviglia nel vedere l’alba.
“Si”,
mormorò lei, per un attimo dimentica della morte, della follia di poco prima,
della paura che le aveva fatto battere più velocemente il cuore e vide perché Clark
era voluto salire lì.
La
ferita cominciò inizialmente a trasudare, un liquido trasparente e poi rosato,
fin quando non buttò fuori un po’ di sangue vivo. Lori pensò sulle prime che la
ferita avesse ripreso a sanguinare salvo ricredersi subito.
Arricciò
il naso per via dell’odore che venne dalla ferita.
“Scusa,
purtroppo è sempre così. Non posso farci nulla”, si giustificò un po’
imbarazzato Clark avvedendosi della reazione di lei.
Il termine che descriveva meglio quello che
vide era germogliare. Fu come se la carne germogliasse, riempiendo la voragine
creata dall’esplosione della granata, la pelle corse a ricoprire rapidamente il
nuovo strato di tessuto formatosi. Clark emise diversi mugugni e spiegò,
tentando di rassicurarla, “fa male quando le ferite sono così profonde. Nervi,
ossa e tendini bruciano e mentre si riformano danno una sensazione sgradevole.
Come se qualcuno li stesse grattando. Per fortuna però passa velocemente”.
Si
sentirono alcuni scricchiolii che Clark le spiegò essere dovuti alle parti di
osso scheggiato che si andava rigenerando.
Aprì
l’occhio, mostrandolo mentre il sangue veniva riassorbito e tornava ad essere
come prima. I segni degli impatti e le piccole bruciature provocate dai
proiettili svanirono come se non ci fossero mai stati. Clark se ne stava lì, le
braccia allargate, quasi volesse spiccare il volo da un momento all’altro.
Tutto il processo richiese circa un paio d’ore, durante le quali Lori non disse
una sola parola.
“Solo
un anno fa,” le disse Clark,” guarire da una ferita come questa
avrebbe richiesto il triplo del tempo. Il sole ha quest’effetto su di me. Mi
rigenera in più di un senso. Non solo, se la granata fosse esplosa in pieno
giorno, sotto la luce del sole, è possibile che non mi avrebbe ferito.
Nell’adolescenza ho scoperto che di giorno ero più forte, veloce e resistente
che di notte e quest’effetto si è fatto più marcato mentre crescevo. La notte
rimango comunque forte e resistente e con il tempo lo sono diventato ancora di
più, sicuramente più del doppio di quando avevo 16 o 17 anni. Allo stesso modo
l’effetto del sole è aumentato. Prima quasi raddoppiava le mie facoltà ma ora
credo che quasi le quintuplichi.”
“Sei
una specie di pannello fotovoltaico vivente…” mormorò lei.
Quell’affermazione
strappò una risata a Clark. “Possibile”, ammise.
“Chi
altri sa di te?”
“I
miei genitori.”
“Non
lo hai mai detto a nessuno?”
“Ho
sempre avuto paura di quello che ne sarebbe conseguito.”
“Hai
ragione ad aver paura. Se si sapesse in giro quello che sai fare, sono convinta
che ti sbatterebbero in qualche gabbia, in uno di quei laboratori segreti del
Governo dove tengono gli omini grigi con quei grossi testoni e gli occhi
completamente neri”.
“Credi
davvero a quelle storie?” Tentò di scherzare Clark, consapevole però che in
quelle parole c’era più che un fondo di verità, il motivo per cui custodiva
gelosamente il proprio segreto.
“Vere
o no, non ti conviene rischiare.”
“Concordo.”
“Perché
mi hai salvata?”
“Non
potevo certo lasciar morire lì dentro.”
“Intendo
la prima volta che ci siamo incontrati. Se mi avessi lasciata morire, non avrei
scoperto né il tuo segreto, né chi sei.”
Clark
sospirò e mentre la gamba continuava a guarire, “perché credo fosse giusto
farlo. Non avrei potuto aver sulla coscienza la morte di una persona innocente,
nemmeno se questo significava mettere in gioco il mio avvenire. Tu piuttosto,
perché non hai detto ad anima viva quello che hai scoperto?”
“Intendi
un perché oltre al desiderio di non finire internata in qualche struttura
psichiatrica? Perché mi sembrava giusto così. Sono una mezza sbandata, una
delinquente da quattro soldi, ho spacciato marjuana e hashish , mi sono
prostituita ed ho girato un paio di film per adulti, ho accoltellato un uomo,
anche se a dirla tutta se l’era meritato e, vediamo, non sono la persona più
affidabile del mondo. Però non sono un’infame o tanto meno una carogna. Ti devo
la vita e questo per me conta. Inoltre sei l’unica persona al mondo a non
avermi chiesto niente in cambio. Anche questo conta e credo in definitiva sia
il vero motivo per cui ho deciso di aiutarti nella tua indagine sull’Intergang. Tu perché ti interessi a loro? Non me lo hai mai
detto.”
Clark
non si aspettava quella risposta o tanto meno quella domanda. Decise che la
verità era la cosa migliore da dire: “mio padre fu quasi ucciso da un
delinquente legato all’Intergang. Quel giorno si
salvò solo perché rientrai prima a casa e mi accorsi che qualcosa non andava.
Con il tempo mi sono interessato alle loro attività, sempre di più, ed ho
scoperto che sono un’organizzazione molto pericolosa, con legami ancora più
pericolosi. Vorrei dare il mio contributo, scoprire quanto più possibile e con
le mie facoltà, come puoi vedere, sono molto più al sicuro di tante altre
persone.”
“Tu
vorresti aiutare la polizia a sgominare l’Integang?”
“Le
mie informazioni potrebbero aiutarla.”
“Hai
pensato invece che con quello che sai fare, potresti sgominarla tu?”
Lui
rimase interdetto. Quella considerazione l’aveva già fatta diverse volte,
rispondendosi però come rispose a lei: “non posso, non sono al di sopra della
legge. Questo è un lavoro per le forze dell’ordine, non per me.”
“Cazzate.”
“Cosa?
Non credi debbano occuparsi le autorità?”
“No.
Che tu non sia al di sopra della legge.”
Clark
la scrutò, tentando di capirne i pensieri. Alla fine, dandosi per vinto,
chiese, “che vuoi dire?”
“Ti
faccio una domanda. Se uno sbirro venisse da te e ti dichiarasse in arresto?”
“Gli
chiederei spiegazioni ma di certo lo seguirei e poi chiamerei un avvocato.”
“Di
nuovo balle. Mettiamola così, il piedipiatti in questione ha preso un granchio
e vuole portarti dentro ma tu hai qualcosa di più importante da fare. Qualcosa
di vitale importanza. Che faresti?”
“Dipende
da cosa intendi per vitale importanza.”
“Dipende
da cosa intendi tu. Immagina qualcosa che senti di dover fare assolutamente.”
“Beh,” tentennò Clark, ammettendo alla fine,” allora forse mi sottrarrei
all’arresto.”
“Vedi?
Sei al di sopra della legge.”
“Ma
chiunque lo farebbe al posto mio! Se una persona dovesse, poniamo il caso,
salvare una persona che ama?”
“Certamente
ma la differenza tra te ed una persona qualsiasi è che tu prima sei entrato in
un covo di feccia della peggior specie, dove ti hanno scaricato un caricatore
addosso abbastanza piombo da ridurre a groviera una persona normale e poi ti
hanno lanciato addosso una granata. Hai alzato un energumeno psicopatico come
fosse un peluche e lo hai sbattuto al muro senza che potesse farci nulla. Il
poliziotto con te non avrebbe possibilità alcuna.
Il
punto è che se decidessi che un mandato d’arresto, un atto emesso da un
tribunale o i termini di una certa legge non siano giusti o che interferissero
con, passami il termine, un bene più grande allora potresti sottrarre, con
facilità, agli obblighi dei comuni mortali.”
In
tutta la sua vita, se ne rese conto, non aveva mai visto le cose da quella
prospettiva o quanto meno non seriamente. “Non
sei come noi”, le parole di Hiram risuonarono ancora nella sua mente ma
assumendo un nuovo significato. Un significato che non gli piaceva e gli
provocò un moto di paura. A Lori non sfuggì e subito s’affrettò ad aggiungere,
“ma sono certa che un bravo ragazzo come te non lo farebbe mai. Sembri troppo
legato ai tuoi valori e troppo responsabile.”
“Lo
spero …” rispose.
Rimasero
lì fin quando la sua gamba non fu completamente guarita.
“Ti
turba sapere tutto quello che ti ho confessato prima su di me?” domandò Lori.
“Non
è mio compito giudicare il tuo passato. Quello che so è che adesso mi hai
dimostrato di potermi fidare di te.”
“Loretta
Quinnones.”
“Questo
è il tuo vero nome?”
“Sapevi
che il mio era falso?”
“Lori
Lemaris non mi sembra un cognome tipicamente
messicano.”
“Non
lo è ma io non sono nemmeno messicana.”
“No?”
“Portorico.
La mia famiglia viene da Portorico. Mio fratello Salvatore se la intendeva con
i ragazzi messicani perché non c’erano altri portoricani dove vivevamo. Si fece
rispettare da subito ed essendo il più bravo ladro di macchine del quartiere
presero ad ammirarlo e gli proposero di entrare nella gang dei cuchillos. Mio marito, Fernando, era uno dei migliori amici
di mio fratello. Fu lui a presentarmelo, sai? Io mi feci chiamare Lori Lemaris a ‘frisco. Andai lì un
periodo per cambiare aria, dopo che mi ritrovai vedova e dovetti guadagnarmi da
vivere da sola. Lori mi ci hanno sempre chiamata ma Lemaris
suonava più accattivante o almeno così pensava il proprietario dello strip-club
dove mi esibivo.”
“Ora
conosco tutto di te”, scherzò Clark.
“Non
ancora ma presto, ne sono certa, si.”
I
due lasciarono il tetto, ognuno meditando sull’altro e su quanto appreso.
V
Downtown, Los Angeles, California – due mesi dopo
Clark
vide l’uomo chiamato Pequiῆo scendere con gran difficoltà dalla
Camaro su cui gli avevano dato un passaggio. I ragazzi della sua banda lo
avevano atteso per dargli il bentornato a casa ma non aveva l’aria di chi, in
quel momento, fosse felice di trovare un comitato di benvenuto. Quella era
gente nata e cresciuta praticamente in strada e mostrarsi debole era qualcosa
di inconcepibile e di sicuro l’energumeno pieno di tatuaggi e dalla testa
rasata lo era. Il busto ed il collare gli davano un’aria goffa ed impacciata ed
effettivamente ne limitavano in modo penoso i movimenti.
Al
braccio destro aveva un tutore mentre sulle gambe ed il braccio sinistro erano
ancora visibili i terminali che mantenevano stabili i fili di kirschner. L’uomo appariva sofferente e a disagio ed i suoi
compagni decisero di contenere le proprie dimostrazioni d’affetto.
Clark
era lì, seduto nella sua auto, sentendosi in parte in colpa. Quell’uomo era un
poco di buono ed un delinquente ma quello che gli aveva fatto lo spaventava. I
danni che poteva fare ad una persona normale erano terribili e solo per un caso
non lo aveva ammazzato. Ricordò ancora una volta il volto del criminale che
stava per uccidergli il padre ed il misto tra sorpresa e dolore che lo
assalirono.
“Non
sono al di sopra della legge …” si ripeté dopo aver messo in moto. Lo ripeté
per tutto il tragitto fino a casa sua.
“Allora,” fece Clark con aria solenne, rivolto a
Lori che, seduta sul letto, le ginocchia al petto, aveva intenzione di non
perdere nemmeno una parola,” l’Intergang, da quello che abbiamo capito, è nata come un
piccolo gruppo di delinquenti legati alla malavita ebraica emigrata da Las
Vegas e finita a Los Angeles. Nel corso degli anni si sono ingranditi,
garantendosi l’appoggio di politici compiacenti e poliziotti corrotti. Si
riciclano, smettendo di sporcarsi le mani e assoldando manovalanza tra i latini
e gli afroamericani. La polizia e le autorità dello stato fanno una sorta di
accordo occulto con loro, se è vero quello che ci hanno detto, per cui loro
tengono a freno le guerre tra gang e loro chiudono un occhio sulle loro
attività illecite. Si occupano sostanzialmente di tre tipologie di traffici:
prostituzione, narcotici e prestiti; rinvestano i capitali tramite società di
comodo nell’edilizia e in aziende produttrici di componenti elettroniche.
Decidono
di fare un ulteriore salto di qualità e cominciano ed esportarsi al di fuori
della California.
Morgan
Edge e suo fratello Nathan erano i loro contatti per
il mercato del Midwest.
In
quegli anni portarono la coca colombiana in Kansas e, tramite produttori
locali, contavano di occupare anche il segmento delle droghe leggere.
Nel
frattempo l’Intergang ha allargato i propri interessi
occupandosi delle armi.
Importazione
e vendita di articoli provenienti dagli ex paesi sovietici e della ex Yugoslavia. Si tratta per la gran parte dei casi di
versioni a buon mercato di armi americane, tedesche, italiane e svedesi.
In
Nebraska foraggiano una ventina di gruppi paramilitari, in Lusiana e Florida
riforniscono i locali narcotrafficanti di armi economiche ed irrintracciabili.
Non
abbiamo nomi, non molti e comunque non associabili al loro nucleo dirigenziale
ma ci sono delle società in cui ultimamente hanno investito parecchio.”
“Chi
ti dice che queste ultime siano coinvolte nei loro traffici?” Osservò Lori, gli occhi fissi alla
mappa degli USA su cui Clark aveva segnato con puntine colorate l’onda di
espansione dell’Intergang.” Voglio dire, per quanto ne sanno i loro investitori sono puliti.”
“Può
darsi ma alcune di esse hanno goduto di una crescita eccezionale grazie al
numero di capitali che sono finiti nelle proprie casse e non posso non credere
che qualcuno non si sia fatto qualche domanda. Ora, possono non voler sapere da
dove vengano quei soldi ma non possono non sapere chi tratta affari con loro.
Devono avere dei contatti, dei nomi, dei luoghi dove si incontrano e via
dicendo. Quello potrebbe essere il punto di partenza che stiamo cercando.”
“Più
che altro, scusa se te lo dico, sembri volerlo credere.”
“Ammetto
di essere esasperato dal muro di omertà che abbiamo incontrato ma non voglio
mollare.”
“Hai
qualcuno in mente su cui vorresti concentrarti?”
“Si.
C’è un’azienda in particolare che qui sulla costa ovest ha praticamente dato la
scalata ai danni delle altre, spesso arrivando ad inglobarle in modo poco
ortodosso. Le sue azioni sono state piuttosto spregiudicate e ha ricevuto
notevoli finanziamenti da chi sappiamo bene.
La
Lex Corp.”
“Aspetta!
Stai parlando della Lex Corp
di Lex Luthor?!”, Lori
sembrava genuinamente sorpresa.
“E
di quale altra?”
“Vuoi
dire che quel tipo alla moda, quel bel tenebroso incredibilmente figo potrebbe
essere un burattino nelle mani dell’Intergang, una
facciata dietro cui riciclare capitali sporchi?”
“Perché
no?”
“Dovrai
muoverti con molta prudenza.”
“Perché?”
“Non
lo sai? Lo considerano l’uomo del momento. Lex Luthor è uno dei più giovani magnati d’America, lo so
persino io, ed è amato da stampa e tv. Il Times e Forbes
gli hanno dedicato alcune copertine. Come gli carpirai quello che ti serve?”
“Giocando
giusto un poco sporco.”
I
due si scambiarono diverse occhiate.
“Vuoi
dire che userai le cose che sai fare?”
“Voglio
dire proprio quello.”
“Ero
convinta che non volessi metterti al di sopra della legge o meglio, era quello
che dicevi tu.”
“L’Intergang sta moltiplicando i suoi contatti con gli
ambienti eversivi e grazie ad una fitta rete di corrotti la cosa è stata
sottostimata dai nostri governanti. Sono preoccupato di cosa questo possa
significare. Delle volte è necessario forzare la mano e barare. Sono certo che
Dio non me ne avrà.”
Lori
sorrise sorniona, “mi piace questo Clark Kent tutta azione e adrenalina”.
“Non
è un gioco”, la ammonì lui.
“No.
Lo so bene,” lo rassicurò lei,” e voglio continuare a far parte
dell’operazione.”
“Sei
la mia socia. Non saprei che fare senza di te.”
Clark
era meravigliato per lo spettacolo offerto dal moderno grattacielo, formato da
quattro alti cilindri che parevano fatti di cristallo. Sembrava che bruciasse
di luce propria lì, nella tetra notte di Los Angeles. Compton, con le sue
rapine, gli accoltellamenti, le guerre tra gang, le baby prostitute sembrava
lontana e Clark si interrogava come nella Downtown riuscissero a coesistere
contemporaneamente due anime così distanti. Quella putrescente e crudele del
crimine e quella sfarzosa e altera dell’opulenza, della ricchezza.
Originariamente quello sarebbe dovuto essere per intero un grande Hotel ma il Bonaventure Palace ora accoglieva anche gli uffici della Lex Corps.
Lex
Luthor aveva affittato due piani per sé e viveva in
una delle più lussuose suite del Bonaventure.
L’auto
di Clark avrebbe potuto attirare solo qualche disperato perciò la lasciò senza
farsi troppi problemi e s’avvicinò all’edificio percorrendo la 4th. C’erano
troppe luci e la vigilanza effettuava dei giri ad orario intorno al palazzo,
senza contare le telecamere di sorveglianza.
Lui
e Lori avevano studiato bene il piano. Le conoscenze della ragazza gli avevano
procurato un incontro con un ex spacciatore che conosceva bene i sotterranei di
Downtown. Il “sorcio” gli aveva fornito una mappa e lì, a poca distanza, c’era
un vicolo che si insinuava tra una coppia di vecchi palazzi, un tempo entrambi
grandi magazzini. Trovò il tombino proprio dove gli era stato detto e,
assicuratosi con una rapida occhiata intorno che nessuno fosse nei paraggi, si
chinò allungando la mano verso di esso. Non voleva fare rumore e non sapeva se,
a quell’ora, fosse in grado di divellerlo visto che pareva ben piantato.
Armeggiò cercando un punto in cui inserire le dita e far presa, spinse, sbuffò
e alla fine, gonfiando i muscoli delle braccia, riuscì nella sua impresa.
Nel
vicolo non c’erano telecamere ma per sicurezza aveva calato sul volto il
passamontagna regalatogli da Lori, nonostante la sua capacità “camaleontica”.
L’indomani le autorità competenti si sarebbero chieste come qualcuno avesse
potuto forzare in quel modo il robusto tombino di ferro.
Atterrò
dopo un breve salto nel canale di servizio lungo le cui pareti passavano per un
buon tratto i cavi dell’elettricità prima di tornare a correre nascosti alla
vista. Lo spazio era angusto, stretto e soffocante, uno dei tanti canali che
costituiva l’enorme, spaventosa rete sotterranea di Los Angeles.
I
piedi di Clark erano affondati in una sorta di melma maleodorante, melma smossa
da un quello che pareva un rio sotterraneo altrettanto sporco e sgradevole
all’odore.
Ebbe
un paio di conati ma riuscì a contenerli. Avanzò, un passo dopo l’altro, gli
scarponi compranti per l’occasione li avrebbe dovuti buttare dopo quel
silenzioso viaggio sotto la superficie della strada. Ad un certo punto dovette
accendere la torcia perché lì non c’era abbastanza luce nemmeno per lui. Vide
solo alcune piccole macchie di calore, forse ratti, correre via al suo
passaggio. Cercò di concentrarsi sulla mappa e di seguirne il percorso.
Lì
le distanze erano molto diverse rispetto a quelle che avrebbe dovuto percorrere
sopra. Il tunnel voltò più di una volta, spesso senza nessuna logica apparente,
e diverse volte temette di essersi perso. Alla fine però giunse innanzi la
scala di ferro di cui gli era stato detto.
Quando
la Mitsubishi, il committente originario dell’edificio, comprò il terreno e
fece iniziare le costruzioni, in pochi erano a conoscenza dell’esistenza di
quel piccolo, assurdo rifugio anti-atomico risalente alla fine degli anni ’50,
quando la paura di un olocausto nucleare si era affacciato sulle coscienze
degli americani. Effettivamente il proprietario, grazie ad alcune amicizie,
aveva fatto in modo che la sua costruzione fosse discreta e nota a pochi.
Temeva che durante il giorno del giudizio qualcuno avrebbe cercato di bussare
alle porte del suo fortino e, magari, di sottrarglielo.
Il
rifugio era praticamente attiguo ad uno dei locali delle caldaie del Bonaventure e da lì, se fosse stato attento e veloce, si
sarebbe potuto spostare verso uno degli ascensori e risalirne la tromba.
35
piani per 112 metri non sarebbero stati un problema per lui o almeno sperava,
visto che non aveva mai tentato la scalata a nulla di così alto.
Il
committente del rifugio si era voluto assicurare un ingresso anche dai canali
sotterranei della città, tanto per essere sicuro, ed il pesante portello a
chiusura stagna di piombo ed acciaio inossidabile avrebbe dovuto garantirgli
tutta la protezione da eventuali intrusi di cui aveva bisogno.
Clark
tirò un profondo respiro e colpì con il pugno, una, due, tre volte. Il portello
vibrò ma sentì chiaramente le nocche dolergli a causa dell’impatto. Non poteva
arrendersi. Colpì con ancora più vigore, nonostante la posizione scomoda lì,
arrampicato sugli scalini di bronzo, che non gli garantiva certo di poter
esercitare a pieno la sua forza. Colpì fino a quando sentì i cardini del
portello cedere e vide la sua superficie curvarsi sotto la pressione ma, a quel
punto, gli scalini su cui si reggeva
cedettero e lui si ritrovò nel nauseabondo fiumiciattolo. Si tirò in fretta a
sedere e dovette togliersi immediatamente il passamontagna. Stavolta non riuscì
a farne a meno e vomitò.
S’accorse
di avere in mano una delle barre che costituivano la scaletta su cui poco prima
si era sorretto. La lasciò cadere e guardò in alto. L’impresa era più difficile
di quanto non avesse preventivato. L’idea che gli traversò la mente all’inizio
fu bollata come folle ma, ormai, non aveva molte altre alternative. Fletté le
gambe, accovacciandosi a terra, i palmi delle mani affondati nel flusso
disgustosa. Prese un respiro e conto fino a tre, tutti i muscoli in tensione. Si
proiettò in alto con una violenta accelerazione, i pugni protesi davanti.
Il
portello subì una sollecitazione così violenta che venne divelto dai suoi
cardini e per poco Clark non ricadde attraverso il buco attraverso cui era
passato. Allargò le gambe giusto un istante prima e ma non evitò che il
portello gli piombasse sulla testa dopo aver colpito il soffitto.
Massaggiò
la testa sentendo bruciore nel punto in cui la pesante porta era caduta e per
un po’ ebbe come delle vertigini e la sensazione di svenire.
Si
affrettò a direzionare il fascio di luce della torcia prima su una mano e poi
sull’altro, entrambe erano ferite. I guanti che le avvolgevano si erano
lacerati sulle nocche e lasciavano esposta la cute piena di lividi e
leggermente sanguinante.
Clark
rimase per un po’ lì, mani e braccia doloranti e dopo un po’ decise che era
meglio muoversi.
Aveva
ripassato mentalmente il piano studiato con Lori.
I
piani del Bonaventure erano sottoposti a
videosorveglianza. In quelli occupati dalla Lex Corps in ogni ufficio, una volta svuotatosi, entrava in
funzione una videocamera alla quale, dalle informazioni carpite in giro, Luthor poteva collegarsi a distanza all’occorrenza.
C’era
un gruppo di continuità che garantiva l’energia in caso di black
out. Il primo obbiettivo era eliminarlo per poi passare a creare un corto
circuito che avrebbe bloccato i dispositivi di sorveglianza. Doveva agire
velocemente e con decisione, prima che la sicurezza cominciasse a controllare
piano per piano.
Lasciò
la camera dove si trovava e, seguendo un breve corridoio giunse al portello che
un tempo rappresentava l’altro collegamento con il mondo esterno, portello ora
nascosto alla vista da un muro di mattoni. Clark aveva provato un forte ed
inatteso senso di claustrofobia in quell’ambiente, a dispetto delle dimensioni
non certo contenute, almeno centoventi metri quadri. Si disse che sopravvivere
ad una guerra atomica con l’unica prospettiva di trascinare la propria
esistenza al chiuso per il resto dei propri giorni non era qualcosa che lo
allettasse. Forse, in tale evenienza, sarebbe stato meglio morire
immediatamente.
Le
mani gli facevano ancora male così decise che si sarebbe aperto la strada a
calci. Ne sferrò uno senza sortire però grandi effetti se non quello di far
vibrare visibilmente il portello. Fece in modo di piantarsi meglio a terra per
caricarne uno ancora più potente. Il punto d’appoggio, una porzione di
pavimento piastrellato, si ruppe al momento in cui colpì ancora. Le piastrelle
si spezzarono ed il cemento sotto si ricoprì di diverse crepe. Sulla superfice
della porta si era formata un’incurvatura che ricordava l’orma del suo piede.
Conto fino a tre e bersagliò nuovamente la porta, stavolta con maggiore
violenza, riuscendo a scardinarla. L’acciaio ed il piombo rovinarono a terra ma
per sua fortuna lì, nei sotterranei del Bonaventure,
a quell’ora nessuno poteva udire il frastuono provocato.
La
sezione dello stretto corridoio in cui era penetrato era satura della polvere
che si era levata quando aveva sfondato, insieme alla porta, una parte della
parete ridotta ora a macerie e calcinacci che stavano lì, sul pavimento.
C’erano poche luci ma più che sufficienti per i suoi occhi. Alcuni ratti e
scarafaggi se ne stavano immobili, a poca distanza, forse incuriositi per
quanto accaduto e parevano focalizzare la loro attenzione su di lui, cosa che
mise a disagio Clark.
Memore
del poco tempo a sua disposizione cercò la sala del generatore d’emergenza,
controllando la piantina che aveva con sé ed una volta giunto lì, e sinceratosi
non vi fosse nessuno, colpi con i pugni a mo’ di maglio il gruppo di
continuità, riducendolo in una poltiglia metallica. Strinse i denti ogni volta
che calò come distruttivi martelli le sue mani, ancora segnate e dolenti.
Una
volta sistemato la fonte d’energia ausiliaria non gli rimase che cercare la
centralina elettrica dove avrebbe provocato il cortocircuito che gli avrebbe
assicurato di poter agire quasi indisturbato.
Doveva
prestare attenzione perché avrebbe corso il rischio di rimanere fulminato e,
per quanto resistente fosse, erano molti, forse troppi volt, anche per lui
tenendo inoltro conto che in quel momento non era al massimo della sua
resistenza. Risolvette il problema sradicando dal pavimento una grossa console
imbullonata e lanciandola contro la centralina. Ci furono scintille e scariche
e, per alcuni istanti, si pentì del gesto compiuto chiedendosi se non potesse
essere pericoloso e, magari, innescare persino un incendio.
La
fortuna fu dalla sua parte e tutto si esaurì in pochi istanti. Preso sarebbero
arrivati i controlli, avrebbero visto la porta forzata ed il disastro
all’interno. Avrebbero immediatamente realizzato trattarsi di un sabotaggio.
Corse attraverso il corridoio verso l’ascensore numero quattro, quello che lo
avrebbe portato negli uffici della Lex Corp. Aprì le
pesanti porte e cominciò ad arrampicarsi lungo i cavi d’acciaio con grande
velocità. Incontrò l’ascensore al quarto piano e non gli rimase che sfondarne
il pavimento, dopo essersi assicurato che all’interno non vi era nessuno, e fattosi
strado attraverso di esso, riprese la sua scalata.
Gli
ci volle un po’ di tempo, arrivato al piano desiderato, aprire le porte dovendo
tenere il cavo una delle mani.
Nessuno.
Era nell’anticamera della Luthor Corp,
dove c’era il grande desk da cui gli usceri in servizio di giorno davano il
benvenuto agli ospiti. Due grandi porte a vetri scorrevoli gli sbarravano la
strada. Si trattava di cristallo a prova di proiettile ma non a prova di uno
come lui. Bersaglio con un paio di diretti l’ostacolo trasparente,
provocandogli numerose incrinature ed infine, con un calcio, lo mandò in
frantumi. L’allarme primario era disattivato e dunque non si azionò alcuna
sirena ma sapeva che, nel momento in cui questo si era disattivato, alla
centrale di Polizia più vicina, così come alla sede dell’Istituto di Vigilanza
incaricato della sicurezza, era scattato un segnale che avvertiva chi di dovere
dell’anomalia. Pochi minuti per arraffare tutti i registri che poteva, magari
anche qualche hard disk ed infilare tutto nella sacca che portava come se fosse
uno zaino sulla schiena.
Gli
ci vollero quattro tentativi per trovare l’archivio e almeno cinque minuti per
fare una sommaria selezione del materiale.
“Chi
sei?”, la domanda seguì dopo quasi un minuto di silenzio il colpo di pistola
che era stato esploso. Clark, rannicchiato dietro una scrivania, si diede
dell’idiota. Era così concentrato sul suo lavoro da non essersi reso conto che
qualcuno era giunto sul posto.
Non
poteva essere una delle guardie perché non avrebbe mai sparato senza prima
rilevare che l’intruso fosse armato e in procinto di fargli del male.
Gettò
un’occhiata di sfuggita all’uomo. Alto, fisico atletico, capelli estremamente
corti, rasati quasi a pelle, indossava una vestaglia da camera e teneva davanti
a sé una glock. Non riusciva a distinguere altri
particolari perché non c’era abbastanza luce e si chiese chi fosse. Realizzò
solo dopo qualche istante. Lex Luthor
abitava nello stesso palazzo dei suoi uffici.
Si
meravigliò. Non aveva neanche preso lontanamente in considerazione l’idea che Luthor potesse accorrere di persona per verificare che
tutto fosse a posto alla Lex Corp.
“Te
lo chiedo ancora una volta. Chi sei?”, ripeté con glaciale perentorietà.
Clark
ovviamente si guardò bene dal rispondere. Non voleva udisse la sua voce.
Un
altro colpo che fischiò a pochi centimetri dal suo volto spingendolo a
ritirarsi nuovamente dietro la scrivania.
“Tra
poco la polizia sarà qui,” spiegò con
calma Luthor,”
e per quanto mi riguarda possono portarti via. Voglio solo sapere per chi
lavori. Se me lo dici, per te si conclude bene. Se non me lo dici, dirò che è
stata legittima difesa. Qui è buio e sarà facile per i miei avvocati convincere
giudice e giuria che pensavo fossi pericoloso. Dirò che sei sbucato fuori
all’improvviso. Spiegare il fatto che avevo un’arma con me non sarà difficile.
Fatti furbo e dimmi chi ti ha mandato.”
Clark
era colpito dalla spregiudicatezza di quell’uomo il cui tono di voce era ricco
di una curiosa mescolanza di seduzione e minaccia.
“Mi
manda una tua vecchia conoscenza …” Clark si stupì di sé stesso. Non sapeva di
essere capace, oltre che di alterare il colore di occhi, capelli e carnagione,
anche la propria voce. Quello che aveva parlato era un uomo di almeno vent’anni
più vecchio, forse un fumatore e bevitore incallito a giudicare dalla rochezza
con cui aveva pronunciato ogni parola. Era la voce di uno dei personaggi dei
western che guardava da piccolo con il nonno Eben.
Non sapeva come o perché ma gli era tornata alla mente, forse perché ad un certo
punto quel personaggio si era trovato in una situazione simile a quella da lui
vissuta. Intrufolatosi nell’ufficio dello sheriffo,
si era ritrovato sotto tiro dopo essere stato sorpreso mentre cercava di
liberare un compagno di malefatte.
“Ho
molte vecchie conoscenze,” osservò Luthor,” devi
essere più specifico.”
“L’Intergang”, a Clark, in quella situazione parve di non aver
nulla da perdere. Dalla reazione avrebbe potuto capire se Lex
Luthor era a conoscenza o meno del fatto che la sua
azienda aveva ricevuto soldi provenienti dal mondo del crimine.
Ci
fu un terzo colpo di pistola. “Mossa sbagliata, amico.” , ammonì severo Luthor,” ora vediamo di finire questo inutile
gioco.”
Clark
avrebbe potuto facilmente sbaragliarlo e averne ragione. Sapeva che l’arma non
l’avrebbe ferito ma non voleva che Luthor potesse
vedere di cosa era in grado. Nessuno doveva sapere dell’esistenza di qualcuno
come lui, o quanto meno nessuno al di fuori delle ristretta cerchia delle
persone di cui si fidava.
Scattò
e sfondò la vetrata di una delle grandi finestre dell’ufficio.
Cosa
gli fosse preso nemmeno Clark avrebbe saputo dirlo. Non poteva essere certo di
sopravvivere a quella caduta ma sul momento gli era sembrata la sua unica
possibilità di fuga.
Quante
accadde dopo lo fece dubitare della sua
stessa sanità mentale.
Lori
lo attendeva nel punto prestabilito, dopo aver recuperato la sua macchina.
Stava bevendo del caffè preso ad un fast food non
distante e osservò preoccupata Clark avvicinarsi quasi brancolando.
“Che
ti è successo?”, gli fece spaventata nel vedere il volto cereo di lui.
Per
tutta risposta Clark si limitò a prendere posto vicino alla sua socia e disse
con un filo di voce, “guida”.
Lari
non se lo fece ripetere, mise in moto e gli chiese di allacciare la cintura per
far spegnere la fastidiosa spia che si era attivata.
“È
andato storto qualcosa?”, Lori cercò di decifrare qualcosa di quell’espressione
inebetita che scrutava con la coda dell’occhio.
Lui
le mostrò lo zaino con dentro i registri e poi, “è arrivato Luthor.
Lui in persona. Mi ha sorpreso mentre frugavo nei suoi uffici. Ha aperto il
fuoco, senza dire nulla. Le domande le ha rivolte dopo. È coinvolto. Sa che i
soldi arrivano dall’Intergang. Probabilmente li
ricicla per loro ed in cambio la sua compagnia prospera. Voleva uccidermi ad un
certo punto ed io sono scappato, me ne sono volato via dalla finestra.”
“Hai
saltato da quell’altezza?! Ti sei ferito?”
“No.
Non ho saltato. Sono volato via.”
Lori
tentò di valutare il senso delle parole udite e, quando decise che doveva
essersi sbagliata, accostò la macchina, ormai lontana dal Bonaventure
e chiese: “cosa significa? Non puoi aver veramente detto quello che ho
sentito.”
“Sono
volato via,” insistette Clark, il
volto privo di qualsiasi espressione,”
semplicemente. All’inizio cadevo, come mi aspettavo accadesse ed ero pronto
all’impatto. È stato tutto veloce, così tanto che quasi non me ne sono reso
conto. L’aria intorno a me a preso come a crepitare e ho rallentato,
velocemente, e più mi avvicinavo all’asfalto più quel rumore, quasi un ronzio
appena percettibile, è aumentato, intensificandosi, facendosi più veloce
fintanto che ad un certo punto sono rimasto fermo, sospeso ed allora, dopo meno
di un istante, è stato come se fossi rimbalzato su di una gigantesca molla.
Capisci?!” Lori sobbalzò per
l’improvviso cambio umorale di Clark che ora le pareva quasi in preda ad una
febbrile esaltazione.” Sono finito in
alto, come un missile, fendevo l’aria e guadagnavo distanza dal terreno e la velocità
non diminuiva. Il cuore batteva veloce ed io continuavo a divorare la distanza
a velocità crescente. Non so nemmeno quando la spinta che mi proiettava in alto
è terminata. La parabola che mi ha portato a superare diversi grattacieli si è
fatta discendente e mi sono ritrovato sul tetto di un palazzo, dopo avergli
sfondato una serie di antenne paraboliche e alcuni pannelli solari. DIO MIO! Ho
volato, Lori! Io ho volato!”
Lori
rimase come stordita ed inebetita lo fissò a lungo, senza che lui dicesse più
nulla.
Rimise
in moto e riprese la via. Quell’uomo poteva volare.
Clark
Kent poteva volare, solo questo pensava Lori Lemaris.
L’aveva
visto sopportare il fuoco delle armi dei chucillos, sfondare porte e mura
come se fossero di carta pesta ed ora aveva scoperto che Clark poteva anche
questo.
“Chi
sei?”, non si limitò a pensarlo ma lo disse e prima che avesse tempo di
rendersene conto,
“Non
lo so”, fu la risposta angosciata che ricevette.
Los
Angeles – Un anno dopo.
George
Taylor teneva tra le mani il Curriculum Vitae di Clark Kent. Gli dette alcune
occhiate e cosa ne pensasse era difficile da decifrare. Parlò con la sua voce
profonda e un po’ vibrante:
“Hai
una laurea da in Management and Ethics ed un diploma
di un anno in Studi Biblici conseguiti alla Manhattan Christian College in
Kansas, dopo di che hai conseguito una laurea da associato presso la Colorado Journalism School in giornalismo ed etica giornalistica.
Studi biblici? Volevi diventare un pastore o qualcosa del genere?” incalzò con
tono provocatorio l’Editor in Chief del Daily Star. Clark non aveva nascosto né il suo timore, né
il suo entusiasmo nel trovarsi nell’ufficio di quel veterano dell’informazione,
un vero gigante nel suo campo, a capo di uno dei giornali più prestigiosi di
sempre. Tuttavia non voleva apparire troppo remissivo o tanto meno debole:
“Volevo
approfondire i miei studi sulla religione. Sono cristiano e quindi ho sentito
l’esigenza di capire più a fondo i sacri testi alla base del mio credo.”
“Sei
cristiano? E se dovessi scrivere un pezzo, non so, sulla Jihad islamica?”
“Essere
cristiani e dirlo tranquillamente non pregiudica l’obbiettività, se è questo
che vuol dire. Scriverei che sono dei terroristi e assassini, non per via della
loro religione ma perché ammazzano persone innocenti per raggiungere i propri
scopi.”
George
sorrise. Gli era piaciuto il piglio con cui gli aveva risposto. Aveva capito
che il ragazzo voleva impressionarlo ma per ora ci stava riuscendo.
“Come
mai ti sei buttato sul giornalismo? È stato un bel cambio passare dagli studi
biblici a questo.”
“Mi
interessano i grandi temi come l’attualità, l’etica, la moralità nella politica
e nel mondo degli affari. Credo fermamente che la gente abbia il diritto di
farsi un opinione su di essi e che la stampa abbia il potere ed il dovere di
dargli gli strumenti per farlo.”
“E
come mai questo tuo interesse per l’Intergang?”
Clark
non rispose. Guardava incredulo l’uomo chiamato dai suoi collaboratori “il
vecchio” o “il mastino”. Lui dall’altra parte della scrivania lo scrutava quasi
sornione, giocherellando ora con un sigaro estratto da una scatola d’argento
che teneva in bella vista, quasi fosse un trofeo.
“Come
fa a …?”
“Credevi
che mi bastassero tre fogli in croce per riceverti qui? Hai idea di quanti neo
laureati e aspiranti giornalisti bussano alla mia porta, mi implorano per un
colloquio e quanti ne rimando a casa,
con la coda tra le gambe e le lacrime agli occhi?
Clark
Kent, un nome che mi suonava famigliare e così ho fatto un giro di telefonate.
Eri
la disperazione dei tuoi professori lì, in Colorado. Tipo sveglio ma seguivi
poco le lezioni, hai ripiegato su un diploma da associato perché ad un certo
punto hai sentito l’esigenza di andare via. Hai incontrato un paio di mie
vecchie conoscenze durante la caccia all’Intergang
che hai condotto negli ultimi tre anni. Caccia iniziata seriamente quando ti
mancava ancora un anno al conseguimento del diploma e questo spiega il calo del
tuo rendimento.
Le
persone che tendono ad interessarsi all’Intergang di
solito fanno una brutta fine ma tu hai comunque voluto impicciarti. La domanda
rimane: perché?”
“Perché
un delinquente che lavorava per loro quasi ammazzò mio padre. Per me l’Intergang divenne una vera ossessione. Inoltre credo a
tutto quello che le ho detto prima e l’Intergang è un
cancro che sta avvelenando l’esistenza di tanta brava gente. Volevo inchiodarli
alle loro responsabilità ma da solo non ci riesco.”
Clark
decise quasi immediatamente che, con quell’uomo dallo sguardo inquietante, non
valeva la pena mentire.
“Così
vuoi servirti del mio giornale?” chiese divertito Taylor.
“Voglio
servirmene e voglio anche mettere al suo servizio le mie idee e la mia
volontà.”
“Sei
un presuntuoso figlio di puttana”, lo apostrofò George Taylor.
“Forse,
però ho raccolto un bel po’ di materiale sull’Intergang
e potrebbe venirne fuori un grosso
scoop”, era la prima volta che rivelava a qualcuno che non facesse parte
del suo progetto l’esistenza delle prove raccolte durante quei tre anni. Era il
suo asso nella manica e quello era il momento di giocarselo.
George
Taylor se ne rimase lì, immobile come una statua, gli occhi scuri fissi nei
suoi, gomiti al tavolo, le mani intrecciate davanti la bocca.
Scoppiò
in una fragorosa risata. “Sei davvero un figlio di puttana! Cerchi di
ingolosirmi con la storia del materiale e sai una cosa? Ci sei riuscito! Però
ricorda quello che sto per dirti, ragazzino, questo è un mondo duro e la gente
con cui ti sei invischiato potrebbe risalire a te, come ci sono riuscito io.
Fino ad ora sei stato solo un piccolo giornalista dilettante, protetto da un
sicuro anonimato ma se scriverai per il mio giornale, allora lo farai alla luce
del sole e quando comincerai ad occuparti pubblicamente di quei criminali
potresti avere un sacco di problemi.”
“Me
ne rendo conto. La ringrazio per l’avvertimento ma sono determinato ad andare
avanti per la mia strada.”
“Allora
intanto togliti dai piedi. Ora ho da fare e hai abusato sin troppo del mio
tempo. Domani passa all’Ufficio del Personale, ore 9 in punto, non un minuto
prima, non un minuto dopo. Troverai la mia proposta di collaborazione ma non ti
aspettare che sarà semplice. Inizierai facendo gavetta prima di poter usare il
mio giornale per i tuoi scopi. Dovrai dimostrarmi quanto vali altrimenti, per
quanto mi riguarda, puoi tornartene nello stramaledetto Kansas, da dove sei
venuto. Tutto chiaro?”
“Tutto
chiaro. Non se ne pentirà.”
“Vedremo.”
Clark
Kent salutò educatamente ed uscì dall’ufficio.
George
Taylor osservò il giovane andarsene via, diretto verso gli ascensori.
“Sei
in gamba,” ammise con sé stesso,” però rischi troppo e forse anch’io ho fatto un azzardo nel darti
una possibilità. Però mi sei simpatico, campagnolo figlio di puttana. Non si
può certo dire che tu non abbia le palle.”
George
Taylor non poté vedere il sorriso sul volto di Clark mentre questi prendeva l’ascensore.
Clark
si era sforzato di concentrarsi solo sulla voce di Taylor, nonostante tutto il picchettare sulle tastiere dei
computer, le stampanti e le fotocopiatrici in funzione, le battute, le risate,
le telefonate, le porte dei bagni che si aprivano e chiudevano. Era riuscito a
captare quelle parole e lo ripagavano di tutti i suoi sforzi.
Clark
Kent aveva 26 anni e stava per iniziare a lavorare per uno dei più grandi
giornali del Paese. Non poteva non sentirsi emozionato. Quattro anni di caccia
all’Intergang avevano dato i suoi frutti ed ora era
intenzionato a raccoglierli.
Continua