Yuri Lucia

 

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“Ne vuoi uno?”, chiese Perry White porgendo il portasigari al Lois Lane.

“No, grazie. Declinò gentilmente lei. Preferisco rimanere fedele a queste”, gli mostrò il pacchetto di sigarette spiegazzato.

“Per fortuna quando non siamo in redazione non dobbiamo attenerci a quella stupida politica anti-fumo”, fece sollevato Perry.

“Politica a cui tu, se non ricordo male hai aderito entusiasticamente”, lo rimproverò bonaria Lois.

“Solo perché il cavallo su cui ho scommesso nella corsa al governatorato dello Stato è notoriamente contrario al fumo”, si giustificò senza troppa convinzione mentre accendeva uno dei suoi cubani preferiti.

“Tua moglie non torna stasera?”, chiese Lois mentre lo imitava, tirando un paio di profonde boccate dalla sigaretta appena accesa.

“Credo sia dal suo amante”, rispose lui con indifferenza.

“Si frequenta ancora con quell’istruttore di aerobica?”

“Manuel? No, no. Credo abbiano rotto qualche tempo fa, ora frequenta questo guru della cucina, un tipo protagonista di uno di quei reality che vanno tanto di moda.”

Lois si stirò nel letto e osservò il profilo appesantito dall’età di Perry White, un uomo non certo più giovanissimo ma, doveva ammetterlo, ancora prestante.

A Lois, Perry piaceva. Certo, aveva cominciato a frequentare il suo letto per questioni di carriera ma lui aveva un solido passato giornalistico alle sue spalle, aveva reso il Planet un giornale venduto in tutto il mondo, dalla sua “scuola” erano uscite alcune delle più grandi firme del giornalismo americano e di certo non era uno stupido. Era un uomo carismatico ed energico e il fatto che fosse maturo non lo disturbava più di tanto. Gli uomini maturi gli erano sempre andati a genio.

“Sto per fare il colpaccio”, gli disse all’improvviso la donna.

“Hai trovato un modo per contattarlo?”

“Forse”, ammise lei divertendosi a rimanere sul vago.

“Nulla di illegale, voglio sperare”, la preoccupazione di Perry per quella questione non era di certo scherzosa.

“Non troppo” sorridendo sorniona.

“C’entra lui?”

“A chi ti riferisci?”

“All’uomo nel cui letto ti andrai ad infilare quando sarai uscita da qui.”

Lois Lane si tirò su a sedere fissandolo negli occhi con i suoi grandi e scuri occhi.

“Sei geloso di lui?”

“Andiamo! Non sono mica un liceale che si è preso una cotta per la sua compagnia di classe. So bene il perché dei nostri incontri ma non è certo un problema per me. Sei una buona giornalista e hai le carte in regola per fare successo ma delle volte, Lois, sei troppo avventata. Lex Luthor non sono certo io, accondiscendente e malleabile. Se pensi di manipolarlo con il sesso, stai commettendo un grosso errore.”

“Sembri conoscerlo bene.”

“Ho seguito la sua carriera e posso dirti una cosa di lui: quell’uomo non ha pietà o scrupoli; se qualcuno diventa un ostacolo per lui, lo spezza, lo distrugge e ne fa un esempio per gli altri. Ci sono tante di quelle ombre nella sua vita da chiedersi se quello sia davvero il suo nome. I suoi segreti li ha saputi mantenere bene, Lois. Attenta a fare patti con lui. Ricorda che quell’uomo esige prezzi molto alti per il proprio aiuto.”

“Lo terrò a mente”, si allungò verso di lui e lo bacio. Fu un bacio lungo, caldo e sensuale. A Lois piaceva il modo di baciare di Perry, un po’ ruvido ed egoista ma estremamente passionale.

Montò a cavalcioni su di lui, dopo aver scostato il lenzuolo.

“Avrai il tuo scoop”, gli promise solennemente lei.

“Mi basta che non sia un’operazione Batman 2”, gli confessò lui.

“Non sarà la Little Big Horn del Planet, né tanto meno la tua”, tentò di rassicurarlo lei.

“Mi basta che tu non ti faccia ammazzare.”

“Da chi? Da Luthor?”

“Dall’uomo volante. Per quanto ne sappiamo, potrebbe non gradire troppe attenzioni e se quello che sa fare è vero, allora io avrei seriamente paura a mettermi contro ad uno del genere.”

Lois premette con forza il bacino contro Perry, “non preoccuparti, sono grande e vaccinata”.

 

Il taxi sfilò lungo le strade della grande città, portandola verso quell’appuntamento fonte di preoccupazione per Perry. Lois non era ingenua e sapeva che Luthor era un soggetto difficile con cui avere a che fare. Non avrebbe mai abbassato  la guardia con lui.

Quello che la inquietava era quanto detto da Perry sul fatto che l’uomo volante potesse non essere contento di ricevere troppe attenzioni o di essere braccato da una giornalista.

Le cose che aveva fatto erano tutte vere e l’avevano spaventata. Non riusciva a pensarci senza trasalire lì, nella cabina maleodorante di quel taxi.

Un uomo del genere era qualcosa di spaventoso, sempre che di un uomo si trattasse perché era difficile pensare a lui come ad un comune essere umano.

Sarebbe stata al sicuro da qualcuno del genere? Qualcuno poteva essere al sicuro da lui?

Quell’idea la atterrì ed immaginò per un istante lui in preda ad un attacco di collera scagliarsi contro di lei o contro chiunque avrebbe potuto irritarlo o minacciarlo.

Non lo aveva detto a nessuno ma in realtà non c’era solo la questione professionale dietro all’intervista che voleva strappargli ma un motivo personale: voleva essere rassicurata sulle sue intenzioni; “ma le verrebbe a dire a me anche se fosse?”, pensò dandosi della ragazzina per quelle sue assurde paure. Doveva mantenersi fredda e distaccata ma quando le tue certezze venivano contraddette da qualcosa di apparentemente impossibile, era difficile rimanere indifferenti e calmi, fingendo che le cose erano uguali a prima.

Lois accese una sigaretta.

“Signorina, mi dispiace ma in questo Taxi è vietato fumare”, le fece con un pesante accento dell’est europeo il conducente mentre indicava una targhetta metallica sul cruscotto su cui era scritto a chiare lettere il divieto.

“Venti verdoni extra per farmela fumare in pace”, li avrebbe aggiunti come rimborso spese del mese.

L’uomo le sorrise dallo specchietto retrovisore e non obbiettò più nulla.

Lois si concentrò sul prossimo incontro con Lex, incontro durante il quale le avrebbe dato una risposta alla sua proposta e in cui avrebbero concordato i particolari del piano che le frullava per la testa.

Dal giorno di quel primo, assurdo incontro, superato il frastornamento iniziale, non aveva fatto altro che pensare ad un modo per incontrarlo.

“Purtroppo non credo sarà propriamente legale”, disse a bassa voce, quasi rispondendo nuovamente alla domanda che poco prima le aveva posto Perry.

“Come?”, chiese il tassista convinto si fosse rivolta a lui.

“Niente. Continui a guidare. Anzi, può accendere la radio o metter su un po’ di musica?”

L’uomo la accontentò, e le note di Fly me to the moon di Sinatra riempirono improvvisamente la vettura.

 

 

 

YURI LUCIA

 

Presenta :

 

 

 

SUPERMAN

 

YEAR ONE

THE CHILD OF TOMORROW

 

N 3 Pt I

 

… a Bright …

 

 

I Kansas – 16 anni prima

 

 

L’urlo che si levò svegliò bruscamente Alan Siegel. Andò a tentoni, cercando la lampada per accenderla con l’unico risultato di rovesciarla in terra, cosa che per poco non gli tirò fuori dalla bocca un’imprecazione. “Cosa è successo?”, chiese invece preoccupato a Clark Kent, la cui sagoma debolmente illuminata da una mezza luna che se ne stava lì, nel cielo appena fuori dalla finestra, era ancora scossa da tremiti.

“Un brutto sogno”, si giustificò lui.

“Ne fai sempre prima di andare a casa per le vacanze. Questo però sembra peggiore degli altri,” Alan mise i piedi in terra, cercando con essi le pantofole in modo da infilarle ed intanto inforcò gli occhiali che stavano sul comodino di fianco al suo letto. Riuscì ad accendere la lampada dopo averla recuperata constatando con sollievo che non si era rotta nella caduta di poco prima.

Per un istante, solo per un istante rimase basito nel guardare il suo amico. Si stropicciò gli occhi chiedendosi se non fosse ancora mezzo addormentato e quando il suo sguardo tornò a fissarsi sull’altro era tutto normale, tutto come avrebbe dovuto essere, eccezion fatta per l’evidente stato di disagio in cui Clark Kent, suo compagno di stanza da diversi mesi, vessava.

Ad Alan quel solido ragazzo cresciuto in una fattoria del Kansas piaceva. Aveva senso dell’umorismo, era ironico senza essere irritante, realista senza scadere nel cinismo, amava la letteratura e la poesia condividendo con lui la passione per alcuni autori, aveva dimostrato nel primo semestre di essere un tipo in gamba e studioso ma non era un secchione fissato per i libri o tanto meno uno di quegli arrivisti che volevano sempre mettersi in mostra.

“Magari stavolta hai voglia di parlarne”, gli suggerì Alan.

Clark meditò su quelle parole e, finalmente, alzò lo sguardo su di lui. L’espressione del volto tradiva la paura, una paura forse eccessiva per un semplice sogno che spinse Alan a chiedersi cosa gli fosse capitato di così terribile in quella casa, la fattoria in cui era cresciuto, di cui normalmente parlava con trasporto ed entusiasmo.

“Non fraintendermi, Alan, quella premessa fece subito capire all’interessato che Clark si stava mettendo sulla difensiva, in modo gentile ed educato in accordo con il suo carattere ma di certo non avrebbe arretrato dalla sua posizione, ne parlerei volentieri ma non so nemmeno io di cosa dovrei parlare. Questi sogni che faccio sono sempre confusi, vaghi, persino assurdi. La fattoria è un posto meraviglioso, credimi e non capisco perché il tornarci mi dovrebbe provocare gli incubi. Mio padre e mia madre li adoro. Adoro i miei nonni ed i miei amici della Contea.”

“Ma?”, aggiunse provocatorio Alan, deciso a non mollare la presa tanto facilmente. Anche Alan era un tipo discreto e riservato, come Clark, e come lui non eccedeva in questo sui aspetto caratteriale ma preoccupazione a parte, si sentiva chiamato in causa, visto che era lui a venir svegliato di soprassalto dalle grida del suo compagno di stanza, grida che stavolta, se non fosse stato praticamente già mezzo vuoto il dormitorio, avrebbero messo in allarme più di una persona.

Clark non si aspettava quel contrattacco e parve perplesso sul cosa rispondere.

“Non lo so, Alan. Delle volte mi chiedo se in me non ci sia qualcosa che non va. Amo quel posto, amo i miei e la mia famiglia ma mi sento …”

“Un alieno?”

Quella parola fece trasecolare Clark. Alieno. Risuonò nella sua mente per diversi istanti lì, nel silenzio calato nella loro stanza.

Il dormitorio maschile del Manhattan Christian College era immerso nella calda quiete di una primavera che andava sfumando nell’estate. Fuori solo il rumore sommesso di alcuni insetti ed in lontananza un gufo che pareva cantare alla luna.

“Alieno?”, ripeté Clark incapace di dare una risposta.

“Capita anche a me. Ti senti come un alieno perché alla fine, quella che è stata casa tua, il tuo mondo, i tuoi amici, tutto si stempera in un mondo dalle prospettive più ampie dove le certezze di ieri, gli assoluti solo qualche mese prima indiscutibili si fanno vaghi, persino un po’ ridicoli. Magari in campagna ci stavi meno bene di quello che credevi. Sai una cosa? Da quello che mi hai raccontato, credo che per te quel posto fosse una sorta di guscio protettivo.”

“Un guscio protettivo? Per proteggermi da cosa?”

“Da tutto il resto. Ovvio. Sei un bravo studente e un ragazzo brillante, Clark. Però delle volte mi sembri terribilmente insicuro. C’è qualcosa nella tua vita che ti ha reso ferito, spaventato e questo emerge in certe occasioni. Sembri preda del panico quando è il momento di dare il meglio di te, come se corressi il rischio di deludere qualcuno. Magari sono i tuoi che hai paura di deludere e questo genera in te un po’ di risentimento?”

Clark ascoltava l’amico con grande attenzione. Puntò un gomito contro il letto e poggiò la guancia sulle nocche del pugno per sostenere la testa. “Stai dicendo che ce l’ho su con i miei?”, chiese come se quell’idea lo sfiorasse per la prima volta.

“Quel guscio chiamato Jefferson è stato il luogo in cui potevi gestire tutto, in cui potevi essere all’altezza delle attese che la famiglia aveva per te. Insomma, un piccolo mondo su misura per l’uomo che i tuoi avrebbero voluto che tu fossi. Poi sei venuto qui e hai visto che c’era anche dell’altro.”

“E cosa dovrei fare secondo te?”

“Dovresti pensare seriamente a che tipo di uomo vorresti essere da qui a qualche anno e dovresti farlo dando ascolto ad una persona che forse hai ascoltato poco in questi anni. Clark Kent.”

 

Alan si era nuovamente addormentato e Clark ne studiò il profilo dal suo letto. La poca luce che filtrava dalle imposte che avevano semi chiuso bastava a rendergli chiara la visione, quasi fosse giorno. Nessuno conosceva quel suo piccolo segreto, nessuno esclusi suo padre e sua madre ovviamente. Alan era un ragazzo un po’ sgraziato, dai lineamenti slavati e dall’aria perennemente distratta ma Clark sospettava si trattasse di una maschera, come quei finti occhiali che indossava.

“Quando la gente ti sottostima, Clark, è quello il momento in cui sei veramente libero di agire. Nessuno bada a quello che fai e questo significa poco controllo e poca pressione addosso.”

Clark aveva riso la prima volta in cui, dopo aver scoperto quel segreto e chiesto spiegazioni, Alan gli aveva fatto quel discorso ma più andava avanti e più non poteva che provare una forte ammirazione per il suo acume e per l’ironia con cui affrontava la vita. L’unica cosa che tradiva il vero io di Alan erano gli occhi. Quando lo si osservava di nascosta, senza che lui se ne rendesse conto, rivelavano una profonda intelligenza ma anche una grande tristezza.

Clark aveva i suoi segreti ma sapeva che anche Alan ne aveva diversi. Poche volte aveva cercato di indagare sul suo passato, visto che l’amico si era rivelato sempre più che discreto e rispettoso della sua privacy, così si era sempre accontentato dei suoi “sono un ragazzo come tanti altri” e “dalle mie parti non accade mai nulla di particolare”.

L’incubo di prima, quello di cui non aveva voluto parlare, era una sovrapposizione del giorno in cui il vecchio Hiram lo apostrofò in modo crudele, rivelandogli di non essere un vero Kent e di quello in cui la madre andò ad affrontare il trafficante di droga con cui suo padre faceva affari. Socchiuse per un istante gli occhi e il rumore del respiro di Alan fu coperto da uno sparo che veniva dal passato.

Le due situazioni si alternavano, senza soluzione di continuità, confondendosi l’una con l’altra.

Gli pareva che legato e ferito nel capanno ci fosse proprio il vecchio Hiram che diceva con il suo  tono sprezzante e strafottente alla madre che Clark non sarebbe mai stato uno di loro. Mai.

Poi, in mezzo al turbinio di immagini e suoni, per alcuni istanti, rivide l’angelo bianco.

Era lì ma senza far veramente parte di quelle scene che piuttosto parevano vorticargli intorno, quasi lui si trovasse nell’occhio dell’onirico ciclone e lo fissava con quegli occhi di un azzurro innaturale e gli parlava ma lui non riusciva a comprendere le parole pronunciate.

Si scosse, per cacciare quelle immagini.

Non era solo il sogno, Alan aveva avuto ragione nel pronunciare quelle parole. Forse Clark provava davvero risentimento per i suoi genitori.

 

II Contea di Jefferson, Kansas – 5 giorni dopo

 

Camminava tenendosi al lato della strada, diretto verso la vecchia via che tagliava tra i campi da cui avrebbe poi raggiunto casa sua. L’autobus l’aveva lasciato a cinque chilometri di distanza. Avrebbe potuto correre e fare molto più in fretta ma lì, in quel punto, qualcuno avrebbe potuto anche vederlo.

Alzò lo sguardo al cielo e fissò il sole. Nessun fastidio, per quanto a lungo lo facesse.

Il sole era suo amico. Gli piaceva pensarla così, vista la sensazione di benessere che provava ogni volta che i suoi raggi lo colpivano.

Aveva sentito la macchina avvicinarsi ben prima che iniziasse a suonare il clacson.

Si voltò e ricambiò il sorriso di Lana che stava sulla sua Chevrolet decappottabile.

“Bel giocattolo”, fece lui squadrando la macchina.

“Tutto qui? Lana mise su il suo broncio, quello della ragazza un po’ viziata e facile all’essere indispettita che tutti conoscevano e che in Clark provocava un misto di tenerezza e desiderio. Mi aspettava che qualche complimento lo facessi anche a me. Vergogna, vergogna Clark Kent. Arrivi di soppiatto qui, nella vecchia e cara contea senza nemmeno fare un colpo di telefono alla sottoscritta.”

“Perdonami, pensavo di chiamarti non appena arrivato a casa. E poi lo sai, sono restio a farlo, ho sempre paura di trovarti con Moose.”

Moose è un mio problema, non certo un tuo”, fece lei con tono di rimprovero.

“Direi che è tuo quanto mio visto che se scoprisse questa storia, mi verrebbe a cercare per farmi secco”, disse, ma senza la minima speranza di riuscirci, pensò con un certo autocompiacimento di cui si vergognò subito, visto che moralmente ed eticamente si trovava in difetto nei confronti del ragazzo.

“Perché non salti su? Ti do un passaggio fino alla fattoria”, Lana Lang voleva cambiare argomento. Non le andava di parlare di Moose con Clark, era solo una perdita di tempo. Aveva atteso con una certa impazienza quel momento, quello in cui il suo amante sarebbe tornato.

Si era sentita arrabbiata con sé stessa quando capì fino a che punto si era legata a Clark Kent.

All’inizio era stata solo un divertimento, una valvola di sfogo ma avevano troppo in comune e soprattutto avevano condiviso troppo perché alla fine il desiderio non si facesse qualcosa di più.

“Grazie”, replicò semplicemente Clark accettando così il passaggio. Sistemarono il suo ridotto bagaglio nel piccolo portabagagli e lui le si accomodò vicino.

“Vuoi provare a guidarla?”, propose lei.

“No, no grazie”, declinò Clark irrigidendosi un po’. Il ragazzo ricordava ancora il giorno in cui il fratello di Pete Ross e la sua ragazza erano morti. Anche suo cugino Harry quel giorno era quasi morto.

 

Martha Kent gli corse incontro. Lo tirò a sé e lo strinse con forza.

“Bentornato, campione”, gli fece il padre avvicinandosi.

“Di chi era quella macchina?”, chiese la madre dopo averlo liberato dall’abbraccio.

“Lana Lang, mi ha dato un passaggio”, disse lui deciso a non creare sospetti con inutili bugie.

“Lana Lang? Pensavo che vi odiaste!”, fece sorpreso il padre.

“Quella è storia vecchia. Ora ci detestiamo cordialmente. Diciamo che siamo venuti ad una sorta di tregua qualche tempo fa. Siccome sono una specie di amico del ragazzo, ha deposto l’ascia di guerra con me. Confesso che un po’ mi ha sorpreso il fatto che mi abbia offerto un passaggio. Ho pensato fosse bene accettare, magari avrebbe potuto anche offendersi. Stava andando da un’amica a Perry e si trovava a passare vicino dove l’autobus mi ha scaricato. Allora? Cosa si racconta qui nel cuore del Kansas?”

“Le solite cose, fece la madre afferrando il braccio che lui le aveva offerto, piuttosto devi raccontarci tutto del College. I nonni verranno più tardi, ceneranno con noi. Ora entriamo a mangiare qualcosa. Sarai affamato.”

“Come un bisonte”, fece allegro Clark.

 

“Il semestre è andato bene, disse non senza orgoglio Clark, il corso mi piace davvero molto. Sono orientato a prendere un certificato e un bachelor degree.”

“In cosa?”, chiese il padre.

“Il certificato in letteratura biblica per la laurea ho diverse opzioni interessanti davanti a me. Mi sono trovato bene a seguire i corsi di etica e affari. Credo che alla fine sceglierò il LEAD.”, i genitori assentirono soddisfatti.

“Hai fatto nuove conoscenze?”, chiese Martha.

“Se intendi, hai la fidanzata Clark? No, per il momento no ma state tranquilli. Non sono gay se questi sono i vostri sospetti, i Kent risero divertiti per la battuta, comunque ho fatto amicizia con un ragazzo dell’Arkansas che mi piacerebbe presentarvi. Si chiama Alan Shuster. È il mio compagno di stanza. In generale comunque mi trovo bene con tutti. Sono nella squadra di ping pong. Non ve l’avevo detto?”

“No”, Jo’ e Martha erano sorpresi.

“Insomma, un’attività sportiva la dovevo pur intraprendere, anche se ho sempre sognato di giocare a football.”

“Clark, posso farti una domanda schietta?”, il padre aveva pensato bene se porgliela oppure no ma pensava che quella potesse essere l’occasione migliore.

“Certo pa’”, fece Clark mentre finiva il suo piatto di patate, pancetta e formaggio fuso accompagnato da un paio di fette di pane abbrustolito, pane impastato a partire dalla farina ottenuta con il grano della fattoria Kent.

“Pensi di diventare un pastore dopo il College?”, si augurò che quella domanda in qualche modo non urtasse il figlio o lo mettesse in imbarazzo. Clark aveva vinto una borsa di studio per merito presso quell’università raccomandata dal Pastore Siegel e si era più volte chiesto se suo figlio volesse o meno diventare un uomo di chiesa. Non ci avrebbe trovato nulla di terribile, alla fine. Del resto Clark era di sicuro più legato di loro agli ambienti della chiesa, visto che per un periodo era stato attivo presso l’organizzazione giovanile ad essa legata ed aveva frequentato con grande regolarità le funzioni ed i sermoni.

“Non credo”, fu la sua sincera risposta.

“Posso chiederti allora perché hai scelto quel tipo di università ed il percorso di studi che hai intrapreso?”, stavolta era Martha a voler soddisfare la propria curiosità. Il figlio si era dimostrato molto diligente. Non aveva chiesto nulla alla famiglia, nonostante si fossero offerti ripetutamente di aiutarlo. Gli aveva sempre replicato che sarebbe andato al college con una borsa di studio o non ci sarebbe andato per nulla. Clark lavorava alla caffetteria del suo college per garantirsi anche un’entrata extra e si impegnava seriamente in quello che faceva. Non voleva dunque mettere in discussione le sue scelte ma solo conoscerle. Dentro di sé temeva che quello fosse stato un modo per allontanarsi da lei, per fuggire da quanto accaduto quel giorno.

“Perché sono attratto da quello che noi chiamiamo fede. Perché sono convinto che nel cristianesimo ci siano dei principi buoni e sani che vorrei conoscere meglio. Perché vorrei divenire una persona migliore e poter aiutare il prossimo. Per un certo periodo ho pensato di divenire pastore ma ho capito che non faceva per me. È stato proprio il pastore Siegel a farmelo capire. Tuttavia mi ha anche fatto capire che per fare del bene non necessariamente si deve essere ministri di un culto. Lo si può fare in molte vie. Io devo trovare la mia ma credo che questo percorso alla fine mi aiuterà.”

Martha e Jonathan si scambiarono uno sguardo di compiaciuto orgoglio per quel figlio così maturo e così buono.

“Posso farvi io una domanda ora?”

“Certo”, gli replicò il padre.

“Perché non mi avete mai detto che sono stato adottato?”

 

Jonathan e Martha Kent boccheggiarono diverse volte, riuscendo solo ad articolare un tremolante “Clark”, o un “noi” subito interrotti dalla sorpresa della rivelazione fatta dal figlio.

“Lo so da tanto tempo e non sono arrabbiato, li rassicurò pentendosi di averglielo detto così, solo che mi sono domandato tante volte quando me lo avreste detto. Ho pensato me lo diranno quando sarò maggiorenne e poi mi son detto che invece sarebbe stato quando sarei partito per il college ma mi sono sbagliato entrambe le volte. Clark posò la forchetta e con tono tranquillo, non volevo mettervi in una situazione difficile e ho sempre pensato che se non me ne avevate parlato ci fossero dei buoni motivi ma ora credo sia arrivato il momento di affrontare la questione. Per me siete e sarete sempre mio padre e mia madre. Punto. Vorrei però che l’argomento non fosse un tabù o che pensaste che il parlarne potrebbe in qualche modo allontanarmi.”

Martha sospirò e dopo aver ricevuto un cenno d’assenso da parte di Jon’ gli disse: “avevamo dei timori, hai ragione. Siamo stati stupidi a non dirti nulla ma nella nostra famiglia sono successe tante cose, alcune traumatiche. Non si riferiva solo all’incidente  in cui morì Joseph Jr ma anche a Nathan Edge, non volevamo gravarti di un ulteriore peso. Abbiamo valutato male la situazione. Sei evidentemente più che in grado di affrontare la cosa. Vorrei sapere però come ne sei venuto a conoscenza.”

“Hiram.”, rivelò placido Clark.

“Hiram?”, chiesero in coro i genitori piuttosto sorpresi.

“Quando era piccolo, alla festa di inaugurazione della nuova fattoria, lo incontrai mentre giocavo a nascondino con Harry e lui mi disse che ero stato adottato. Non so perché ma gli credetti subito anche se la cosa sul momento mi fece soffrire molto.”

“Maledetto vecchio stronzo!”, si lasciò scappare in preda alla rabbia Jonathan Kent, rabbia a cui però la moglie non replicò o a cui tentò di porre moderazione, visto che lei stessa, se avesse potuto, avrebbe resuscitato il patriarca dei Kent solo per ammazzarlo personalmente con le proprie mani.

Clark fece un cenno, quasi a tentare di calmarne gli animi: “il bisnonno non era certa una brava persona, non voglio fare il buonista o l’ipocrita ma ormai è passato a miglior vita e affronterà le sue colpe, reali o presunte, con chi di dovere. Almeno io la penso così. Non voglio che vi avveleniate con il rancore. Non vi ho mai detto niente perché avevo paura che poteste fare qualche sciocchezza. Comunque ebbi conferma delle sue parole un paio di anni più tardi. Trovai il certificato d’adozione frugando nei vostri cassetti. Sperò che ora non vi arrabbiate con me. Non avrei dovuto farlo, lo so ma dovevo assolutamente fare in modo di togliermi quel tarlo che mi stava rodendo da dentro.”

Jonathan prese un respiro per calmarsi, “ Clark, ragazzo mio, sono felice nel sapere che questo per te non cambia niente. Sei mio figlio. Sei nostro figlio e sei e sarei sempre parte di questa famiglia. Se sono particolari sulla tua famiglia biologica quelli che vuoi sapere, purtroppo non posso dartene molti. Ti dirò quello che so perché meriti delle risposte franche alle tue domande. Ci dissero che tuo padre e tua madre erano in un programma di protezione per testimoni. Da quanto ho capito, lui era un ex malavitoso. Ti detterò in adozione poco dopo la tua nascita perché credevano che la loro situazione non fosse adatta ad un bambino piccolo. I loro nomi sono coperti dal più stretto anonimato.”

“Perché mi avete adottato?”

“Il giorno del disastro, l’era glaciale istantanea, per poco non morimmo in un incidente stradale. Eravamo su di un pick-up quel giorno”, Jonathan non proseguì. Guardò sua moglie che assentì e continuò il racconto, “io ero incinta, Clark. Aspettavo un bambino. Mi salvai ma lo persi e rimasi ferita in modo tale che mi fu sconsigliato di affrontare una nuova gravidanza. Tuo nonno Eben ci propose la tua adozione perché era in contatto con l’istituto in cui eri stato portato. Accettammo perché sentivamo un vuoto incolmabile dentro ed è stata la decisione giusta. Sei tu che hai riportato il sorriso e la gioia nelle nostre vite”, insieme a quelle ultime parole, rotte dai singhiozzi, vennero anche le lacrime e Martha Kent non riuscì più ad aggiungere altro.

Clark allungò la mano ponendola su quella della madre. Quella mano un tempo morbida e affusolata, indurita dal lavoro nei campi e da quello al negozio di ferramenta. La carezzò e poi la strinse con infinita attenzione, lui che era in grado di spaccare una palla da biliardo.

Non chiese altro. La cena proseguì e dopo un po’ la famiglia Kent tornò a scherzare, come se nulla fosse accaduto.

 

III – Contea di Jefferson, Winchester, Kansas – 4 anni dopo

 

Douglas Parker guardò con aria interrogativa il giovane Clark Kent. Voltò il capo e disse solo, “non sapevo avessi iniziato a portare gli occhiali.”

Clark non si era aspettato di certo una reazione differente ma era deciso a non mollare facilmente la presa.

“Dicono che abbia sforzato troppo la vista. Troppi libri.”

“Ti è sempre piaciuto leggere. Il piccolo Kent che ricordo io era un appassionato di ogni genere di romanzi e se non erro te ne ho regalati anch’io qualcuno.”

Clark sorrise ripensando a quei giorni, “classici polizieschi e gialli ma anche Mark Twain, la Becheer Stowe, la May Alcott, Melville, Thoreau,  Jane Austen, Lord Byron, Tolstoj; avete contribuito in modo significativo ad accrescere la mia biblioteca, sceriffo.”

Stavolta a sorridere fu Parker. Da sempre aveva avuto un debole per Clark e avrebbe preferito che i suoi ragazzi venissero su come lui. Evidentemente non era stato un buon padre quanto lo era stato Jonathan ed in gioventù Jonathan era stato un mezzo delinquente.

“Speravo che la lettura ed il college ti avessero messo più sale in zucca, lo rimproverò affettuoso e preoccupato, invece sei qui ad impicciarti di cose che non dovrebbero riguardarti. Tra l’altro, non sono più sceriffo da un bel pezzo. Ho appeso il cappello al chiodo e mi godo la pensione. Annaffiò con cura un vaso dove crescevano delle superbe begonie, vanto ed orgoglio dell’uomo il cui giardino curato ed il portico pieno di fiori multicolori testimoniavano la sua abilità come giardiniere e floricultore. Morgan Edge è un nome che ancora oggi, a sentirlo, mi da i bruciori di stomaco. Non siamo mai riusciti a collegarlo a nulla che ci permettesse di sbatterlo dentro per sempre. Sono sicuro che sia stato il mandante e l’esecutore di almeno sei omicidi, forse c’entra anche qualcosa con la sparizione di suo fratello Nathan. Clark per un istante si irrigidì ma l’uomo era voltato e non se ne avvide, riprendendo a parlare dopo essere passato a dar acqua a dei gerani. Nathan è sempre stato una spina nel fianco per Morgan. Era impulsivo, irrazionale, incapace. Ho sempre pensato che Morgan lo tollerasse solo perché era il fratello minore ma magari, chissà, ha fatto qualche passo falso che a Morgan è costato troppo e così decise di farlo svanire nel nulla. Tuo padre, quando era ragazzo, sfidò Morgan più di una volta nelle corse clandestine, lo sapevi?”

“Si, ammise Clark a disagio nel pensare a suo padre come ad un teppista alla Gioventù Bruciata, ma sono passati tanti anni e lei sa che da allora ha rigato dritto. Mio padre è un uomo buono ed onesto”, “sorvolando la parentesi da coltivatore di droga” particolare che si limitò solo a pensare, guardandosi bene dal dargli voce.

“Tuo zio, Jerry era un bravo ragazzo. L’ho presi come assistente e poi se ne andò verso est dove ha fatto il poliziotto. Era in gamba ma sono contento abbia lasciato quel lavoro. Troppo rischioso e troppo poco pagato.”

“Lei si rifiuta ancora di dirmi quello che sa”, osservò Clark per nulla intenzionato a farsi sviare dal suo obbiettivo primario.

Parker sospirò pesantemente e, arrendendosi, sicuramente Edge se la faceva con l’Intergang. Contattai il CBI e la polizia di Los Angeles per avere informazioni su di loro. L’Intergang aveva base sulla costa ovest, in California, ma si stava espandendo in diverse altre zone. Gestivano un traffico di armi e stupefacenti come non si era mai visto da anni e di certo erano diventati molto di più che una delle tante gang latine o nere che infestano la riviera del Pacifico.

La struttura interna era regolata da una severa gerarchia e agivano come una struttura piramidale con affiliati che procuravano altri affiliati allargando il giro degli affari. Presero in gestione il traffico di coca soppiantando gli stessi boliviani grazie a rifornimenti a prezzi concorrenziali che arrivavano dal sud e centro America. La coca che vendevano era allungata con prodotti chimici di vario tipo ma più di una morte non è bastata a fermarne il consumo. Anche l’uomo comune voleva sentirsi come i grandi magnati ed i ricconi che alle loro feste o nell’intimità delle proprie case, si gustavano una fetta di paradiso in polvere. Si voltò verso Clark, picchettandosi eloquentemente il naso con l’indice. Poco importava se non era pura. Era a buon mercato. Avevano indovinato il giusto segmento a cui fare la propria proposta e l’accoglienza all’offerta fu entusiastica. Il consumo di droga aumentò del quindici per cento in capo a soli cinque anni. Cifre da capogiro, capisci? Non erano disperati o reietti ma casalinghe, impiegati, piccoli commercianti e persino diversi appartenenti alle forze dell’ordine.”

“Trovo difficile credere che persone normali facciano queste cose”, ammise Clark.

“Sbagli. Sono proprio le persone comuni quelle da cui devi aspettarti il peggio. Vedi Clark, nel mio lavoro ho imparato una cosa. Ci sono persone le cui azioni parlano da sé e che risulteranno piuttosto prevedibili. Un ladro, uno spacciatore, un tossico, una prostituta si comporteranno sempre in un certo modo, anche se con piccole varianti. C’è invece quella categoria ampia e delle volte un po’ anonima che chiamiamo i regolari, quella di cui ad esempio facciamo parte io e te che può divenire davvero pericolosa, per sé stessa e per gli altri. Tutti abbiamo desideri ed istinti e delle volte li reprimiamo, per vari motivi, necessità di rispettare le regole, quieto vivere, vergogna e via discorrendo. Se però all’uomo comune gliene dai la possibilità, ebbene agirà proprio come il ladro, lo spacciatore, il tossico e la prostituta.”

“Una visione della vita sconfortante”, Clark era sorpreso dalle parole udite da quell’uomo che, nonostante l’aspetto severo e tutto d’un pezzo, con i bambini era sempre stato gentile e paterno.

Un uomo che aiutava le persone in difficoltà con abnegazione e senza mai chiedere nulla in cambio, che godeva della stima di tutta la comunità cittadina e rurale.

“Una visione che ho maturato guardando mogli che, preda dello stress, uccidevano i figli appena nati. Mariti che tradivano la propria compagnia coltivando in segreto due vite. Soci che, nonostante fossero amici da anni, si derubavano l’uno con l’altro. La vita non è semplice, Clark. Non è tutto bianco e nero. Dio ci offre la grazia ma noi abbiamo pur sempre la libertà di rifiutarla, capisci? Le persone, forse, seguono i modelli sbagliati e solo il cielo sa se in quest’epoca non ce ne sono fin troppi. I media dicono alle persone di consumare, di modernizzarsi, di abbracciare ogni novità a loro proposta senza però invitarli a riflettere su chi sono, su cosa sono e cosa danno in cambio del benessere offerto. Forse avrebbero bisogno di modelli migliori.”

“Crede che cambierebbero le cose?”

“Credo che un atto di bene possa farlo. Credo che un singolo atto di generosità o il sacrificio di sé, possano scuotere le coscienze.”

“Per questo Nostro Signore ha accettato il martirio dei romani e ha preso la croce”, commentò pensieroso Clark.

“Eppure anche con il  suo sacrificio il mondo rimane, a tutt’oggi, sospeso, in bilico tra il proprio futuro e la propria auto-distruzione.”

“Però senza quel sacrificio, forse si sarebbe già auto-distrutto.”

Douglas Parker posò una mano soddisfatto sulla spalla di Clark, molto probabile. Dio ci ha dato una possibilità di scegliere e magari gli uomini buoni e giusti, con il loro esempio, possono ricordarci che c’è quella possibilità. Prima di proseguire in questa conversazione, vorrei che mi dicessi perché tutto questo interesse riguardo quel farabutto di Morgan ed i suoi contatti con la criminalità organizzata.”

“Morgan Edge ha avvelenato la Contea per anni e, come ha detto lei, è rimasto impunito per troppo tempo e per più di un delitto. Vorrei solo dare una mano a fare in modo che questo cambi.”

“Forse quel corso di giornalismo che stai seguendo lo hai preso troppo sul serio”, lo ammonì Parker.

“Forse ma abbiamo la libertà di scegliere, giusto? I scelgo di orientare i miei sforzi a smascherare quell’uomo perché è giusto così.”

Parker rise di cuore. L’entusiasmo di quel giovane era contagioso. Lo invitò ad entrare in casa e preparò per entrambi del caffè. Seduti davanti ad una tazza fumante proseguirono quella conversazione.

 

Continua

 

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