Yuri
Lucia
Lois
Lane fece il suo ingresso senza degnare la servitù di uno sguardo, nel modo
altezzoso ed un po’ arrogante che l’aveva resa particolarmente desiderabile
all’uomo che, seduto su una costosa sedia dal design ergonomico, la osserva con
un sorriso sul volto.
“Lex Luthor, non pensavo mi
avresti ricevuta con così poco preavviso”, fece lei sarcastica.
Per
nulla infastidito lui replicò gentilmente, “ Lois, te l’ho detto, il mio
ufficio e la mia casa sono sempre aperti per te.”
“Sono
qui per parlarti dell’uomo volante”, andò dritta al sodo lei.
“Pensavo
piuttosto per scusarti della mancata intervista”, si finse risentito lui.
“L’intervista
si è fatta, anche se ad intervistarti è stata un’altra persona”, disse non
potendo esimersi dal pensare alla faccia che Olsen
doveva aver fatto quando Perry gli aveva negato la possibilità di occuparsene.
“Un
signore simpatico, indubbiamente, ma preferivo te. Del resto sei stata tu a
convincermi a concedermi alla stampa”, la rimproverò bonario.
“Non
serve sforzarsi molto. Ami stare sotto i riflettori. Comunque te lo concedo,
l’accordo prevedeva fossi io ad intervistarti e tu sei stato un vero tesoro a
non far saltare tutto”, pronunciò le ultime parole quasi in un sussurro che
però arrivò alle orecchie del diretto interessato.
Lex
Luthor congedò con gentilezza i domestici presenti e
rimasto solo con Lois, “però, tesoro o meno, non rinuncio alla mia ricompensa”,
le disse con malizia.
“La
ricompensa è dei giusti, diceva la mia povera mamma.”
“Ed
io lo sono?”
“Sei
un farabutto”, gli rivolse un sorriso tagliante.
“E
tu hai fegato,” fece ammirato,” e sei anche un po’ impudente. Non sono
in molti quelli che lo direbbero ad alta voce, specie davanti a me.”
“Non
neghi nemmeno di esserlo.”
“Servirebbe?
Lo sanno tutti che per essere arrivato dove sono non posso essere stato tenero.
Del resto molti di quelli che mi circondano hanno le mani in pasta, esattamente
come me. L’importante è fare tutto con discrezione.”
“Ecco
cosa mi piace di te.”
“Oltre
al mio fisico da atleta?”
Un
guizzò di desiderio balenò negli occhi di Lois, “ di fisici da atleta ne posso
avere e ne avuti quanti ne voglio. Sei un duro, un vero duro Lex e a me gli uomini decisi piacciono.”
“Anche
le canaglie come me?”
“Se
sono pendagli da forca hanno ancora più fascino.”
“Cosa
dovrei fare con l’uomo volante, ammesso che esista veramente?” Intrecciò le
dita e la guardò con l’aria di chi era divertito dalla situazione.
“Esiste.
Voglio informazioni.”
“Ed
io come dovrei procurartele?”
“Se
è un uomo volante, uno sguardo dai cieli potrebbe essere d’aiuto.”
“Ho
cinque satelliti, d’accordo. Tre sono per le telecomunicazioni, uno lo uso per
i rilevamenti geologici ed uno per la pesca dei tonni ma non posso certo
spostarli dalle loro orbite per dare la caccia ad un’ombra.”
“Hai
contribuito a costruire diversi satelliti spia per conto del Governo.”
Il
sorriso di Lex era tutt’altro che gentile o allegro.
I suoi occhi erano freddi e distanti.
“So
cosa vorresti insinuare.”
“Sai
che immagino benissimo, conoscendoti, che ti sei riservato il modo di poter
aver accesso alle informazioni che qui satelliti trasmettono.”
“Se
quello che pensi è vero, e sottolineo il se, avrei commesso un reato
gravissimo, anzi, più di uno e potrei persino essere accusato di tradimento. Lo
sai, vero?”
“Solo
se qualcuno lo sapesse e tu sei un tipo in gamba. Non ti scopriranno mai mentre
tu, potresti ricavarne qualcosa di buono.”
“Ad
esempio?”
“Lex, parliamo di un uomo che vola. Un uomo che vola e
solleva un elicottero in caduta. Un uomo che vola, solleva un elicottero in
caduta a cui hanno sparato senza ferirlo.”
“Mi
sa molto di Batman questa storia. Quanti giuravano di averlo visto? Com’era
quella storia pubblicata dal tuo giornale? Io sono Batman s’intitolava.”
“Perry
ha fatto un errore colossale ma io non ero coinvolta. Per quanto mi riguarda
Batman è come il ciupacabra ma qui è diverso. L’ho
visto con i miei stessi occhi. L’hanno visto centinaia di persone
contemporaneamente. L’hanno ripreso diverse telecamere. Esiste. Punto ed è la
cosa più sensazionale dall’avvento di Gesù.”
“Credevo
fossi atea e poi non ti sembra un po’ blasfemo il paragone?”
“Gesù
ha camminato sulle acque, questo vola ed è a prova di proiettile, cosa che Gesù
ha dimostrato di non essere.”
“Non
gli hanno mica sparato.”
“Se
fosse stato antiproiettile pensi che lo avrebbero ferito chiodi e punte di
lancia?”
“Logica
inoppugnabile ma dimentichi una cosa.”
“Cosa?”
“Anche
il Governo, quello a cui dovrei sottrarre informazioni, lo starà cercando. Se
esiste davvero, come dici tu, allora più di una persona ai piani alti vorrà
metterci le mani sopra. Senza contare i servizi segreti di metà pianeta.”
“Allora
dobbiamo arrivare per primi. Io avrò il mio scoop e tu potresti parlargli.”
“Per
dirgli cosa?”
“Hai
già pensato ad almeno venti modi in cui un individuo del genere potrebbe
recarti vantaggio.”
“Cinquantadue
a dire il vero”, ammise Lex.
“Allora?
Cosa mi rispondi?”
“Se
fossi in grado di fare una cosa del genere, scusami cara Lois, perché avrei
bisogno di coinvolgerti?”
“Perché
magari potresti trovarlo ma avrai bisogno di avvicinarlo e tu lo sai, in questo
sono una vera maestra.”
Lois
Lane si avvicinò a Lex Luthor,
prese la sua cravatta e lo tirò leggermente a sé. L’uomo non oppose resistenza
e continuò a fissarla negli occhi, nuovamente divertito dalla situazione.
“Stasera
ho un impegno di lavoro ma potremmo vederci dopo.”
“Ho
un impegno anch’io. Staccherò molto tardi.”
“Se
non vai a letto presto …”
“Non
vado mai a letto presto.”
“Allora
siamo intesi. Ci vedremo dopo.”
“Ed
il nostro accordo.”
“Voglio
darti il tempo di pensarci. Mi risponderai domani.”
“Dopo
che mi avrai sedotto?”
“Mi
prendo sempre qualche vantaggio.”
Lois
Lane salutò Luthor e uscì dal suo ufficio.
Lex
Luthor era un uomo pericoloso, questo Lois lo sapeva
bene. Non era solo un corruttore e un faccendiere come molti suoi colleghi.
Sospettava avesse fatto persino di peggio anche se non aveva prove. Tuttavia
era stata sincera nel dirgli che lo trovava affascinante.
Del
resto, si disse, il male esercita sempre un forte fascino sugli esseri umani.
YURI LUCIA
Presenta :
SUPERMAN
YEAR ONE
THE CHILD OF TOMORROW
N 2
… to now …
I Jefferson County, Kansas – 24 anni prima degli
eventi narrati
Alla fattoria dei
Kent, da cui in lontananza era possibile vedere la curva dove l’86ma confluiva
nella Hamilton con il suo occasionale traffico di mezzi da lavoro e camion
carichi di balle di fieno, grano o bestiame, c’era grande attività.
Due anni prima i
coniugi Kent, Jonathan e Martha, si erano trasferiti nella vecchia proprietà
della famiglia Potter e l’avevano ristrutturata, a prezzo di grandi sacrifici e
grazie ad un consistente aiuto del fratello di Jonathan, Jerry.
Eben Kent non aveva
preso molto bene quella notizia in un primo tempo ma la vecchia fattoria dei
Kent, isolata e sperduta cadeva ormai a pezzi e rimetterla in piedi sarebbe
stata una follia specie se il danaro poteva essere usato per acquistarne una in
buone condizioni, con stalle e magazzino più grandi. Eben
alla fine si era arreso alla determinazione del figlio che lo aveva convinto
con la frase “ è per il bene di Clark, del suo futuro”. Una formula magica che
riusciva a piegare la volontà del vecchio, cocciuto Kent come null’altro.
Jonathan e gli altri l’avevano imparato bene, con loro grande sorpresa. Nessuno
se lo sarebbe mai aspettato. Nemmeno la moglie di Eben,
Sarah, che non riconosceva quasi più in quell’uomo dall’aria mite e pacata,
dedito alla chiesa e al nipote, il violento ubriacone che più di una volta
l’aveva malmenata. Quasi ed era quel quasi che non aveva smorzato il rancore
nutrito nei suoi confronti. Da anni dormivano in letti separati e con Jon e Martha trasferitisi nella nuova fattoria, la vecchia
casa Kent si era fatta più spaziosa, permettendogli di prendere una stanza
tutta per sé, anche se avrebbe preferito vivere in una casa diversa da quella
dove viveva Eben.
Mary Kent, la
sorella maggiore di Jonathan e Jerry arrivò in tarda mattinata con il suo van.
I fratelli le dettero una mano a scendere dal retro l’uomo che, anche se con
una certa difficoltà, camminava ancora sulle sue gambe, rifiutando
categoricamente la sedia a rotelle e s’affidava unicamente ad un vecchio
bastone in noce e alla sua incrollabile volontà. Quell’uomo, incurvato ed
ingrigito dagli anni era sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, lasciando
in Europa due fratelli ed un figlio, sepolti in Francia ed Italia, era
sopravvissuto a due mogli di cui una, ne erano certi tutti anche se di prove
non ce ne erano e nessuno osava dirlo ad alta voce, l’aveva uccisa lui dopo
averne scoperto la relazione clandestina con un giovane pastore presbiteriano,
pastore che due anni dopo la morte di lei morì in un incidente d’auto la cui
dinamica non fu mai del tutto chiarita.
Quell’uomo incuteva
timore nonostante fosse praticamente indifeso.
Era un uomo che
veniva da una famiglia di ruvidi lavoratori, famosi per essere infaticabili
mezzadri e contadini, e altrettanto per essere di bicchiere facile e
appassionati di risse.
Hiram Kent avanzò
rifiutando altero e sprezzante l’aiuto di Jon e
Jerry. Al suo fianco poteva camminare solo la nipote Mary. Solo a lei era
concesso rivolgersi in modo confidenziale a lui. “Nonno”, così l’appellava
semplicemente. “Signor padre”, “Signor nonno” erano invece i modi in cui gli
altri si dovevano rivolgere a lui.
Eben chinò rispettosamente
il capo quando il vecchio patriarca Kent gli fu d’appresso.
“Questa sarebbe la
fattoria che tuo figlio ha comprato Eben?” chiese in
tono indifferente Hiram.
“Si, signor padre.
Spero che ti piaccia.” Eben, alla sua veneranda età,
subiva ancora forte l’influenza del padre.
Naomi e Martha si
scambiarono uno sguardo d’intesa. Entrambe detestavano Hiram e avrebbero
volentieri fatto a meno della sua presenza. Tuttavia le loro proteste erano
cadute a vuoto con entrambi i mariti. Persino Jerry, che dei due fratelli Kent
era quello più restio a rispettare le così dette tradizioni di famiglia aveva
commentato: “è il capofamiglia. È giusto che sia presente.”
Jon e Jerry si
tenevano a debita distanza, non erano neppure stati interpellati, neanche Jon che era il padrone di casa.
Per Hiram era solo
un “nipote”, ovvero poca cosa nella sua personale scala gerarchica applicata
alla dinastia Kent.
Il vecchio girò il
capo, in direzione dei nipoti. Harry e Clark erano cresciuti. Hirma li aveva visti entrambi solo in altre due occasioni.
Si spostava di rado dal suo eremo nei pressi di Paradise Point, dalla parte
opposta del Perry Lake.
Sarah, trovava
assurdo che un uomo come quello risiedesse in un posto chiamato Paradise Point.
“All’inferno, ecco
dove starebbe bene”, confidò una volta a Martha. Sarah era di tutt’altra pasta.
Sosteneva lo sguardo del vecchio e lo appellava con il nomignolo di “vecchio”,
senza troppi complimenti e senza alcuna paura. A Hiram quella donna non era mai
piaciuta. Eben aveva fatto, una sola volta nella
vita, qualcosa che al padre non era piaciuto e gli costò caro. Eben fu praticamente buttato fuori di casa a calci e Hiram
non lo aiutò minimamente quando decise di provare a rimettere in piedi la
vecchia fattoria Kent. Il non opporsi all’insediamento del figlio in quel luogo
fu il suo regalo di nozze, perché anche se con quella che lui definiva
“bagascia dalla bocca larga” il figlio si stava comunque sposando e non sarebbe
stato nelle tradizioni dei Kent lasciarlo senza un regalo di nozze.
Hirma avanzò verso i
nipoti e li passò silenziosamente in rivista. I due bambini che avevano
compiuto da poco i sei anni deglutirono. L’uomo non disse nulla. Il suo volto
era un ammasso di rughe riarso da anni di duro lavoro sotto il sole, del tutto
indecifrabile.
Fece solo un cenno
d’assenso all’indirizzo di Harry. Per Clark non ci fu nulla.
Il bambino era
stato avvertito che il bisnonno era un uomo strano, un po’ matto l’aveva
gentilmente apostrofato la madre, per via dell’età. Se Clark avesse conosciuto
termini più pesanti rispetto a matto sicuramente li avrebbe associati alla
figura di Hiram Kent.
Il patriarca andò
verso la nipote prediletta e poi accompagnato da lei partì per passare in
rassegna la nuova proprietà dei Kent.
Clark e Harry
giocavano a nascondino. Clark stava cercando Harry da un quarto d’ora
abbondante quando, nel suo girovagare intorno alla fattoria, incontrò Hiram
Kent.
Hiram era solo.
Aveva insistito per sgranchirsi da solo le gambe e nemmeno Mary osò
contraddirlo.
In realtà Hiram
voleva un po’ di solitudine ma non voleva privare Mary, la sua Mary, della
possibilità di mangiare un boccone tranquillamente.
“Nonno …” mormorò
Clark incerto sul come rivolgersi a lui. Eben era suo
nonno, Hiram gli avevano detto era il papà di Eben.
“Signor Kent”,
disse quello con freddezza.
“Sei il nonno del
mio papà, dovresti essere anche mio nonno …” obbiettò timidamente Clark,
sovrastato da quell’uomo ingobbito.
“Sono il nonno di
Jonathan, è vero. Questo però non fa di me tuo nonno”, insistette con lieve fastidio
lui.
“Perché?”
“Perché sono il
patriarca dei Kent. Sai cosa vuol dire?”
Il piccolo Clark scosse la testa.”
Vuol dire che sono il capo di tutti i Kent che abitano in queste terre, lo sono
perché sono il Kent più vecchio in vita e perché gli altri sono tutti sangue
del mio sangue, carne della mia carne. Capisci? Eben
è mio figlio, anche se è un figlio degenere. Jonathan e Jerry sono suoi figli,
e lo si capisce dal fatto che sono entrambi smidollati come lui, anche se Jerry
ogni tanto dimostra di avere un po’ di spina dorsale a differenza del fratello.
Peccato che non lo abbia coltivato da piccolo, quel virgulto aveva qualche
speranza di diventare un vero uomo mentre Jon è
sempre stato un mezzo delinquente da due soldi. In Europa ho perso il figlio
buono. Quello rimasto in cui riponevo le speranze me lo ha portato via una
brutta polmonite. Nathaniel, che si chiamava come mio
padre e Jebediah che si chiamava come mio nonno se ne
andarono da qui e scomparvero, perché la vita nei campi era troppo dura per loro
e per questo la loro sorte non mi riguarda più. Eben
è tutto quello che rimane e da lui non si può pretendere molto, anche se non mi
aspettavo si sposasse una donnaccia come quella Sarah bocca larga. Mary è
figlia di Eben ma per fortuna ha ripreso la forza dei
Kent e mi somiglia, per questo le ho da tempo perdonato di essere stata
partorita da bocca larga. Tuttavia, anche se privi del nerbo dei Kent, Eben, Jonathan e Jerry sono sempre dei Kent per diritto di
nascita. Harry è piccolo, non ho grosse aspettative su di lui anche se ha
reagito bene al mio piccolo esame di prima. Non ha frignato, non si è mostrato
troppo impaurito.”
“Ed io?” chiese
Clark.
“Questo è quello
che sto cercando di spiegarti. Da te non mi aspetto nulla. Possono anche averti
messo il nome dei Kent ma per me sei quello sei. Un estraneo. Non hai il nostro
sangue nelle vene. Non so da dove vieni o chi siano i tuoi genitori. Jonathan e
quella sua moglie con la puzza sotto il naso possono anche essersi convinti che
sei davvero figlio loro ma questo non mi riguarda. Per me non sei un Kent. Non
lo sarai mai. Qualsiasi cosa farai o qualsiasi sforzo compirai. Ora torna pure
a giocare con Harry. Voglio starmene da solo.”
Clark non raccontò
mai di quell’incontro ai suoi genitori. Non disse niente delle parole udite,
del tono di gelida noncuranza con cui vennero pronunciate, dello sguardo freddo
ed assente fisso su di lui, uno sguardo che giudicava con leggerezza e
disprezzo.
Harry si chiese
come mai Clark ci mettesse tanto a trovarlo e quando, partito a sua volta a
cercarlo, lo trovò seduto su di un sasso in lacrime non seppe cosa dirgli e ne
gli chiese nulla.
Abbracciò solo
l’amato cugino intristito per quel suo pianto sconsolato.
II –
Nei pressi della Nuova Fattoria dei Kent, Contea di Jefferson – 4 anni dopo
I ragazzi mandarono
un lungo fischio d’approvazione. La Dodge Charger del
’69, color arancio chiaro, la bandiera dello stato del Kansas disegnata sul
tettuccio e con i cerchi in lega che Joseph Ross Jr
guidava era semplicemente mozzafiato, la macchina più bella mai vista o almeno
era così per i tre giovani che stavano lì imbambolati.
Clark e Harry, i
cugini Kent ed il fratello più piccolo di Joseph Jr, Peter stavano lì a
guardare quella macchina con lo sguardo sognante, immaginandola lanciata in
qualche folle corsa, magari inseguita dall’auto dello sheriffo
Parker o impegnata nell’inseguimento di qualche pericoloso delinquente o
semplicemente a correre, il motore tutto rombi e ruggiti, verso il sole.
Joseph se ne stava
lì, vicino la sua nuova ragazza, Daisy Bach, la liceale più desiderata di tutta
la Contea, compiaciuto per lo stupore suscitato nei ragazzini. S’accese una
sigaretta, incurante del fatto che Peter potesse far la spia al padre.
“Questa qui era di
mio padre e del Signor Kent,” fece
con malcelato orgoglio,” la
comprarono a mezzi, modificandola con le loro stesse mani. Ci facevano le corse
clandestine,” lo disse come se fosse
un segreto quando, in realtà, tutta la contea lo sapeva,” e qualche volta si sono lasciati alle spalle gli sbirri. Io l’ho
tirata fuori dal garage dove l’avevano dimenticata, ci ho messo le mani ed
eccola di nuovo pronta a mangiarsi l’asfalto. Allora? Che ne dite di un giro?”
I cugini Kent erano
entusiasti, persino Clark che di solito era timido e riservato.
“Andiamo Clark?”
chiese Harry e l’altro assentì energicamente.
Peter invece si
fece leggermente da parte d provò a dissuadere il fratello: “papà lo sa che
l’hai presa? J.J., non hai ancora la patente, ti mancano due mesi. Papà ha
detto che avresti potuto farti un giro sulla sua vecchia auto solo quando
saresti stato patentato.”
“Pete, Pete, Pete.
Ah, sei sempre così giudizioso. Il cocco di papà e di mamma,” lo sfotté il fratello maggiore e,
rivolgendo uno sguardo a Daisy, divertita dalla situazione,” non lo trovi adorabile?”
La ragazza
ridacchiò. Peter “Pete” Ross non la prese bene ma
tentò comunque di insistere.
“Se papà lo scopre
sarai nei guai.”
“Se tu lo dici a
papà sarai nei guai”, la minaccia giunse a segno.
“D’accordo,” fece con malcontenta riluttanza,” ma se gliela ammaccherai, io non
voglio saperne niente.”
“Bene, allora tu
rimani a terra ed io ed i tuoi amici andiamo a farci un giro. Allora, voi due
che ne dite? Questa Dodge rende al meglio solo quando sopra ci sono sia un Ross che un Kent.”
“E dove andiamo?!”
Chiese entusiasta Harry.
“Non so. Potremmo
fare un salto a Oskaloosa o Perry, o alla Contea di Lavenworth. Con questo gioiellino si va do si vuole. Magari
potremmo metterci sulla 75 ed arrivare in Texas! Tu che ne pensi Daisy?”
“Con te andrei
ovunque!” Le fece lei civettuala.
I Kent salirono
sull’auto, accomodandosi sul sedile posteriore.
La macchina partì
lasciando Pete lì, da solo. Era andato a giocare alla Fattoria dei Kent ed il
padre sarebbe andato a riprenderlo prima di cena. La giornata era iniziata nel
migliore dei modi. Harry era arrivato in Kansas con i genitori, per trascorrere
qualche giorno con il cugino e i nonni. I Kent, i genitori di Clark e Harry,
erano andati a pranzare in un ristorante di Ozawkie.
Avrebbero dovuto avere una giornata tutta per loro, sotto la tutela di Natty, la loro babysitter. Babysitter che però aveva pensato
bene di usare il fienile dei Kent per incontrare il suo ragazzo.
“Voi siete liberi,
a patto di non allontanarvi troppo dalla fattoria. In cambio io passo un po’ di
tempo con il mio ragazzo”, questo era stato il patto ed ora non sembrava più
una cosa tanto bella come all’inizio.
J.J. era una testa
calda, lo diceva sempre loro padre. Pete guardò l’auto allontanarsi veloce e
sospirò, sperando sarebbero tornati in tempo.
Jerry strinse forte
a sé Naomi che non riusciva a trattenere le lacrime. Jonathan e Martha se ne
stavano poco distanti, quasi fossero due fantasmi a tal punto parevano
increduli ed assenti. Eben e Sarah erano seduti, il
giovane Pete Ross tra di loro, pallido e gli occhi
gonfi e arrossati per il pianto.
Poco distante lo sheriffo Parker che dopo aver dato la notizia alla famiglia
aveva voluto sincerarsi personalmente delle condizioni dei ragazzi.
“Mi dispiace,” gli aveva detto,” l’auto era lanciata a velocità folle”.
La famiglia Kent
era nuovamente riunita nell’ospedale dove dieci anni prima Jon
e Martha erano stati ricoverati dopo la tempesta di cui, di lì a poco, si
sarebbe celebrato l’anniversario. A Martha pareva crudele e assurdo. Era lì che
aveva perso suo figlio e lì, forse, avrebbe perso l’altro figlio, Clark.
Joseph Ross fece la sua comparsa, così silenzioso che non
l’avevano sentito. Solo la sua voce, distaccata e quasi meccanica, fece
accorgere della sua presenza.
Il volto di Joseph
era cereo, lo sguardo pareva fisso su di un punto indefinito della sala
d’attesa. La sua divisa era sporca di sangue.
“Jo’ …” tentò di dire Jon ma
quello non l’udì e disse loro, “Clark sta bene. È stato un miracolo. Un vero
miracolo. Ha solo pochi graffi e qualche livido ma sta bene. Harry purtroppo è
politraumatizzato. Torace, schiena, addome, collo e testa più diverse fratture
che interessano braccia, bacino e gambe. Ha perso molto sangue. Aveva una
brutta emorragia interna e per fermarla hanno dovuto clampare
un paio di grossi vasi. Al momento è incosciente. Per aiutarlo a respirare lo
hanno collegato ad un ventilatore meccanico.” Jonathan e Martha avrebbero
voluto urlare dalla gioia nel sapere il loro Clark vivo ed illeso ma si
trattennero, sentendosi quasi subito in colpa per quel moto di gioia appena
represso viste le condizioni di loro nipote Harry. Jerry e Noemi erano stati
devastati dalla notizia. Lei si lasciò scappare un “no…” quasi una negazione
del dramma che stavano vivendo.
“Jo’, come sta J.J.?” chiese allora Jonathan solo per
pentirsene subito quando realizzò lo stato emotivo in cui si trovava l’uomo.
“Avevo detto a
Junior che avrebbe potuto guidare la nostra vecchia Stella del Kansas solo
quando avrebbe avuto la patente ed almeno un anno di esperienza al volante. Lui
è riuscito a metterla in moto senza le chiavi e questo perché gliel’ho insegnato
io. Ricordi Jon? Lo facevamo spesso quando avevamo la
sua età. Andava veloce. Aveva lanciato la vecchia Stella a tutto gas sulla
Ferguson Road. Era diretto sulla Route 70. Voleva
impressionare Daisy Bach, la sua ragazza.
Lei è morta sul
colpo. È finita fuori dal parabrezza. L’hanno trovata distante da dove la
macchina si era andata a schiantare.
Quando hanno
portato i ragazzi qui, io non sapevo.
Mi sono ritrovato
Junior su di una barella. Per estrarlo dalle lamiere hanno dovuto, i paramedici
hanno dovuto …” esitò e tentennò
diverse volte, il sudore che imperlava la fronte,” lo avevano già rianimato sul posto e poi un’altra volta in
ambulanza. Harry era lì vicino e hanno subito capito che dei due era quello che
aveva più possibilità. Siamo in pochi, siamo sotto personale sapete? Hanno
dovuto scegliere in fretta ed io anche.”
Lo sguardo si posò su Pete che aveva sentito tutto.” Mi dispiace tanto Pete. È tutta colpa mia. Se non avessi
insegnato a Junior quelle cose. Se non gli avessi parlato delle mie corse per
la contea, se fossi stato più presente, se fossi stato …”
“Papà …” disse con voce rotta dal pianto Pete,” non è stata colpa tua … avrei dovuto
chiamarti subito … io …”
“Pete,” disse Joseph Ross,” anch’io sono andato con gli altri da
Harry.”
Nessuno riuscì a
dire nulla. Nemmeno Jerry e Naomi. Non lo ringraziarono mai perché sapevano che
questo avrebbe solo aumentato la sua sofferenza. Non tentarono mai di
consolarlo perché non si poteva consolare un padre che si era visto morire il
figlio sotto gli occhi. Non si poteva consolare un padre che aveva salvato loro
figlio, lasciando morire da solo il suo.
III Memorial Hospital, Contea di Jefferson, Winchester – Dieci
giorni dopo
“Le condizioni di
Harry, purtroppo, non migliorano.” Il
vecchio Dottor Whitney aveva pronunciato con gravità
quelle parole.” A Lawrence c’è una
struttura migliore, un trauma center attrezzato ma hanno paura che spostandolo
lui potrebbe non farcela. Lo tengono in coma farmacologico per il momento ma le
condizioni sono critiche. Fegato, reni e polmoni sono stati lesionati gravemente
e forse anche il cervello è stato compromesso. Temono che anche se dovesse
sopravvivere, potrebbe riportare a vita i segni di quanto successo.”
Jerry Kent assentì
anche se non pareva aver capito veramente.
Eben era lì vicino.
Aveva ascoltato tutto. Dette un’occhiata a Withney, un’occhiata di cui Jerry
era incurante ed inconsapevole, concentrato com’era sulle sorti del suo amato
figlio, un’occhiata che però non sfuggì al medico.
Eben gli si fece
d’appresso e gli mormorò: “Clark è guarito completamente?”
“Quasi”, rispose in
un sussurro lui.
“Non ha più segni.”
“Vero. So cosa stai
pensando, Eben. Dovremmo parlarne con Phineas, Eben.”
“Parlare di cosa?”
“Sai che la
guarigione di Clark ha del miracoloso. Tenere lontani i giornalisti è stata
un’impresa. Cosa accadrebbe se quello che hai in mente funzionasse e casa Kent
fosse benedetta con due miracoli?”
“Lascia pure che
gridino al miracolo …” disse quasi in un ringhio di disperazione Eben afferrando la manica della giacca di George Withney.
“Eben, te ne prego. Sono venuto qui, ho parlato di persona
con i medici che seguono il ragazzo, sto cercando di aiutarvi in ogni modo
possibile e continuerò a farlo. Siamo amici e fratelli in Cristo da tempo e non
ti tradirei mai. Quando però io e Phineas ti abbiamo affidato il bambino ti
chiedemmo di prendertene cura come se fosse davvero sangue del tuo sangue. Quel
ragazzino è speciale, è benedetto e tu lo sai meglio di ogni altro, visto che
lo trovasti tu quel giorno e ti rivolgesti a noi perché lo prendessimo in
custodia. La riprova è l’essere sopravvissuto all’incidente senza quasi aver
riportato ferite e la velocità con cui quelle sono poi guarite. Se Harry si
rimettesse ora allo stesso modo, non so se riusciremmo ad evitare la stampa.”
“George, è mio
nipote! Amo Clark con tutto il cuore e manterrò il giuramento che vi ho fatto
così come il voto all’Onnipotente. Lo proteggerò sempre. Non chiedetemi però di
scegliere tra lui e Harry.”
“Ad Abramo venne
chiesto di sacrificare Isacco”, gli fece serio George Whitney,
curandosi che Jerry non ascoltasse quella conversazione. Il figlio di Eben era seduto, il capo tra le mani, i gomiti poggiati su
di un tavolino di plastica in quella impersonale stanza, un angolo ricreativo
per i parenti e gli ospiti dell’ospedale dalle pareti un tempo bianche ed ora
quasi grigie ed i mobili vecchi di almeno vent’anni. Ovunque fosse Jerry, non
era realmente lì. Lì c’era il suo corpo, stanco per le lunghe veglie ed
esaurito dal dover mantenere fermezza e contegno con la moglie al fine di
esserne il supporto e non un ulteriore fardello.
“Dio mandò un
angelo che all’ultimo fermò la mano di Abramo”, replicò con fermezza Eben.
“Potrebbe non
accadere stavolta. Potrebbe esserti chiesto l’estremo sacrificio.”
“Sarà Dio a
decidere, non tu.”
“Saremo noi”, gli ricordò
con severità l’altro.
Clark osservava da
dietro il vetro suo cugino Harry. La zia Naomi era seduta vicino a lui, i
capelli raccolti e contenuti in una cuffia, un camice verde usa e getta. Teneva
la mano delicatamente poggiata su quella ancora gonfia del figlio. Sul braccio
del ragazzino era stato montato un fissatore esterno che ricordava una
complicata impalcatura di metallo. Clark si chiese se il tubo inserito nella
gola non desse fastidio ad Harry. Il cugino non dava cenni che facessero capire
se provasse qualcosa. Solo il torace che si alzava e si abbassava al ritmo
imposto dal ventilatore meccanico indicava che Harry fosse ancora vivo.
“Se non fosse stato
per me non saresti salito sulla macchina di J.J.” gli disse silenziosamente.
Poggiò la fronte
contro il vetro. Non avrebbe dovuto essere lì ma aveva insistito con i genitori
ed i medici. “Vi prego, devo vederlo. Voglio essergli vicino”, e quegli occhi
alla fine, con la loro disperata determinazione avevano convinto gli altri a
cedere.
“Sono cattivo … è
tutta colpa mia. Non sono nemmeno un vero Kent,” mormorò pieno di disprezzò a sé stesso,” Hiram aveva ragione. Se non mi avessero adottato tu non saresti
lì. Ora di peccati da scontare ne ho due. Persino il mio angelo custode non
viene più da me in sogno da quel giorno. Finirò all’inferno lo so ma se
servisse a farti svegliare e farti tornare sano, ci andrei a piedi dal
diavolo.”
Phineas Potter si
affiancò al giovane Clark Kent e lo salutò con un sorriso.
“Ti ricordi di me?”
gli chiese semplicemente.
“Lei è l’ex
sindaco. L’amico di mio nonno”, confermò Clark, un po’ sorpreso per quella
improvvisa apparizione. Aveva un udito molto sviluppato e di solito non
riuscivano mai a prenderlo di sorpresa. Quel giorno però era assorto sulla
figura martoriata del suo amato cugino. Era da qualche anno che Potter si era
ritirato a vita privata. Si faceva sentire spesso con suo nonno e da quanto
sapeva pescavano insieme e continuavano a frequentare, con il Dottor Whitney la stessa chiesa.
“Sai che cosa facevo
prima di essere sindaco?” Clark non capì il senso della domanda. Pur essendo
poco più di un bambino suonò fuori luogo in quel contesto, mentre suo cugino
era in bilico tra vita e morte.
“No, signore”,
rispose nonostante i dubbi.
“Ero uno
scienziato. Lavoravo come ricercatore e poi sono stato anche un Professore
Universitario. Lasciai tutto ad un certo punto perché non condividevo più le
idee e gli obbiettivi dei miei colleghi e così mi dedicai ad obbiettivi forse
più modesti ma per me molto più importanti: la cura del mio spirito ed il
benessere dei miei concittadini; Eben è stato un buon
amico, Clark. Eben è stato come un fratello per me.
Ci siamo conosciuti perché ho sposato una sorella di suo padre, Hiram ma il
nostro rapporto si è fatto più profondo che quello tra due parenti acquisiti.
Vedi, Clark, Eben oggi ha chiesto il mio aiuto ed io
gli ho detto che glielo avrei dato. Lo avrei fatto ad una sola condizione: che
tu fossi disposto ad aiutare me.”
“Aiutarla a far
cosa?” Clark era confuso e sorpreso da quel discorso.
“Aiutarmi ad
aiutare Harry. Clark, sono uno scienziato, come ti dicevo, è so tante cose. So
per certo che solo tu puoi aiutarmi a salvare tuo cugino. Tu sei un bravo
ragazzo e gli vuoi bene, vero?”
“Si”, disse subito
Clark, in cui si riaccendeva la speranza.
“Allora, Clark
dimmi, lo aiuterai?”
“Cosa devo fare?”
chiese senza esitazione alcuna.
Phineas sorrise
soddisfatto.
IV Nuova
Fattoria dei Kent, Contea di Jefferson, Kansas – Tre mesi dopo
Harry lanciò la
palla verso il canestro montato sul retro della fattoria e quando la palla
s’infilò nel cesto urlò soddisfatto con entrambe le mani al cielo. “Un altro
punto per il grande H.K.! Il più grande giocatore che la NBA abbia mai avuto!”.
Clark applaudì e lo
sfidò, “vediamo se te la cavi bene in difesa, signor H.K.! C.K. ti darà del
filo da torcere, visto che ora è il suo turno di andare a canestro!”.
Naomi rideva felice
nell’osservare, dalla finestra della sua camera, il figlio giocare con il
piccolo Clark.
Martha le mise una
mano sulla spalla e quella si voltò dolcemente verso di lei, “non mi stancherei
mai di guardarli, di guardare mio figlio ridere e giocare nuovamente. Solo tre
mesi fa non sapevo se avrebbe mai più riaperto gli occhi.” Le scese una lacrima lungo la guancia.” Quando si è svegliato i medici mi hanno detto di essere cauta, di
non sperare in una ripresa totale. Mi hanno detto che l’incidente lo avrebbe
segnato per sempre ed invece guarda! Guarda mio figlio!”
“Si, è un miracolo
Naomi”, concordò Martha.
“Lo dobbiamo anche
al Dr. Whitney, è stato lui a seguire il regime
terapeutico e riabilitativo di Harry.”
“A proposito? Ti ha
detto quanto dovrà ancora continuare?”
“Ha detto che per
ora è meglio se io e lui restiamo ancora qui in Kansas. Ha detto che ai
miracoli delle volte bisogna dare una mano e che Harry ha bisogno di ancora un
po’ di fisioterapia e che vuole monitorare per ancora qualche settimana le sue
condizioni fisiche. A proposito, Martha, io e Jerry stiamo cercando un
appartamento a Perry e …”
“Non dirlo. Non
dirlo nemmeno per scherzo. La fattoria dei Kent è sempre aperta per mia
sorella, suo marito e per il mio splendido nipote.”
“Mi sento così in
debito con te e ho paura che la nostra presenza pesi troppo a te e a Jon! Non avete voluto nemmeno un contributo per le spese!”
“Le cose alla
fattoria ora non vanno così male. Abbiamo dato via una buona parte delle bestie
e ci siamo concentrati soprattutto sulla coltivazione del grano. Inoltre stiamo
pensando di riprovare con l’emporio. Solo che stavolta sarei io a gestirlo.
Persino la contea sembra rinata. Le donazioni degli enti privati sono state
messe a buon frutto e di questo devo darne il merito a Potter che se ne è
interessato in prima persona. La zona si è ripopolata, contro ogni previsione,
e questa terra sta guarendo dalle sue ferite. È un miracolo proprio come quello
che ha protetto mio figlio e fatto guarire il tuo. Magari è perché sono
entrambi Kent e il nume tutelare che protegge questi luoghi e lo stesso che
protegge la nostra famiglia. Sai, non siamo mai stati molto credenti io e Jon. Ultimamente però abbiamo riconsiderato molte nostre
posizioni. Non sto dicendo di aver avuto l’illuminazione o aver sentito la
chiamata del Signore però guardiamo alla vita da un’angolazione diversa.”
Naomi sorrise e
assentì, “ti capisco perché anche per me è lo stesso. Sai, dopo tutto il tempo
che Jerry è stato qui sembrava che la sua azienda fosse sull’orlo del
fallimento. Al momento non ce ne importava, avevamo pensiero solo per Harry e
lui era intenzionato a liquidarla per trasferirsi in pianta stabile qui. Quando
Harry si è ripreso, ci siamo resi conto che avremmo dovuto sostenere diverse
spese e che quelle dei conti medici accumulatisi avevano gravato sulle già
compromesse entrate della Kent Eletronics. Jerry però
non si è perduto d’animo, ha detto che se Harry si era svegliato dopo aver
combattuto contro le ferite che lo affliggevano, lui aveva il dovere di
combattere contro il brutto momento che stavamo vivendo. L’azienda è riuscita a
non perdere gli appalti che aveva conquistato e sta partecipando ad un
importante gara per assicurarsi delle commesse con le Forze Armate. Si, sembra
che qualcuno ci protegga da lassù.”
“Una volta Clark mi
disse di aver visto il suo angelo custode.”
“Come?”
“In sogno. Quando
era piccolo diceva che il suo angelo custode lo aveva visitato diverse volte in
sogno. Diceva che era vestito tutto di bianco avvolto in una luce che però non
feriva gli occhi. Magari l’angelo che ha protetto mio figlio a benedetto anche
il tuo.”
Le due sorelle non
dissero altro e tornarono a guardare i loro bambini.
Clark e Harry
giocarono fino allo sfinimento, o almeno fino allo sfinimento di Harry. Clark
si era scoperto piuttosto resistente. Si stancava difficilmente e negli ultimi
tempi dormiva poco. Credeva fosse per via dei brutti pensieri ma al mattino non
si trovava mai intontito o assonnato. Inoltre tutto nella sua vita andava bene.
Gli pesava un po’
mantenere il segreto con i suoi genitori ma aveva giurato a suo nonno, al
Dottor Whitney e all’ex sindaco Potter.
Avevano dovuto
usare un ago speciale per prelevargli il sangue e lo avevano fatto dopo aver
ammorbidito la pelle con dei prodotti chimici e pezze bollenti.
Lo avevano
prelevato dalle braccia ed i segni sparivano velocemente.
Lo facevano quando Eben portava suo nipote alla vecchia casa dei Kent. Lo
facevano quando Sarah era intenta in qualche commissione. Era facile per loro.
Mentre Harry era in ospedale la scusa era far divagare un po’ il piccolo, e poi
era stata quella di concedere a Jon e Martha un po’
di tempo libero.
Eben era molto
affezionato al nipote e nessuno ci trovò nulla di strano o da obbiettera.
Tutto avveniva il
più rapidamente possibile. Riempivano almeno tre provette e poi gli
raccomandavano il silenzio.
“Mi sembra che
diventi sempre più resistente”, commentò un giorno Phinneas
Potter.
Gli avevano detto
che la terapia di Harry era basato sull’utilizzo del sangue ma doveva mantenere
il silenzio su quel particolare perché altrimenti avrebbero tormentato lui e la
sua famiglia per sempre. Un ragazzino dal sangue che guarisce gli altri
significava folle urlanti di giornalisti che davano l’assalto alla fattoria,
uomini del Governo che lo avrebbero portato via, trascinandolo in qualche
laboratorio, orde di disperati in continuo pellegrinaggio da lui, per
chiedergli un po’ del suo sangue miracoloso.
“Inoltre,” gli disse Whitney,” dobbiamo essere sicuri che il tuo
sangue sia veramente efficacie. Dobbiamo sincerarci che gli effetti siano
duraturi. Quando ne saremo sicuri, troveremo un modo di usarlo per il bene.”
Usarlo per il bene.
Clark poteva fare del bene e questo lo rendeva felice ed orgoglioso.
Hiram aveva torto.
Lui non era quella nullità che avrebbe voluto fargli credere di essere con quel
suo discorso di alcuni anni prima. Era un Kent e un Kent che poteva fare del
bene al mondo.
Di sicuro ne aveva
fatto ad Harry. Era stato il suo miracolo.
V Oskaloosa High School, Oskaloosa, Kansas – Quattro anni dopo.
“Non è può essere!”
Clark era indignato. I suoi occhi si posarono più e più volte sull’elenco degli
ammessi alla squadra di football per quell’anno. Non riusciva ad accettare che
il suo non fosse tra quelli.
“Sembrerebbe invece
che sia proprio così,” replicò
placido Pete Ross che gli stava di fianco,” e trovo incredibile che te ne meravigli.
Pensavi che il coach ti ammettesse dopo la figura di merda che hai fatto
rimediare a suo figlio? Clark Kent, che solo fino a due anni fa era noto come
chiodo Kent, travolge la giovane speranza del football qui, nella gloriosa
Contea di Jefferson.”
“Era una maledetta
audizione!” Replicò con veemenza lui,” ed eravamo lì per giocare! Non è stata
colpa mia se ero più bravo di lui!”
“Il mister non la
pensa così e dunque l’argomento è chiuso. Niente football per Clark Kent
l’ammazza giganti.”
“Che?”
“Non lo sapevi? È
il nomignolo con cui ti ha ribattezzato il pubblico che ha assistito al tuo
numero ed effettivamente Moose è un gigante,
soprattutto se paragonato a te.”
“Chi esattamente è
stato ad usarlo per primo?”
“Io.”
“Tu?”
Pete sfoggiò il suo
solito sorriso da incorreggibile canaglia, quello con cui riusciva a farsi
perdonare quasi tutto,” siamo
realistici, chiodo Kent ti avrebbe marcato per tutto il resto delle superiori e
sia mai che io, Pete Ross, lasci il mio quasi miglior
amico Clark Kent subire gli sberleffi dei compagni per uno solo giorno ancora.
Ammazza giganti Kent invece è il tuo biglietto per il successo e la fama. Basta
essere considerato un mezzo sfigato, Clark. Da oggi sei anche tu un vincente.”
“Scusami, perché
quasi miglior amico?”
“Non voglio che tu
ti adagi troppo e dia per scontata la mia amicizia. Devi meritarti quel posto
da miglior amico, bello!” Picchetto con l’indice sul torace dell’amico che,
vinto, rise dimentico dell’arrabbiatura di poco prima.
“Ti hanno scartato,
eh?” La provocazione arrivata alle sue orecchie lo rimise di nuovo di pessimo
umore ed il fatto che a pronunciarla fosse stata Lana Lang peggiorò le cose.
Pete maledisse
silenziosamente la reginetta delle cheerleader e dei bagni dei maschi, come qualcuno
l’apostrofava alle sue spalle.
“Sembra che il
padre del tuo ragazzo non mi abbia reputato all’altezza”, si lasciò scappare
stizzito Clark, gli occhi scuri che vennero attraversati da un guizzo di
rabbia.
La cosa sorprese
Lana, abituata a considerarlo una pecora vigliacca, visto il carattere timido e
remissivo. Era la seconda volta che succedeva. La prima era stata quando
l’aveva visto ai provini dove aveva fatto mangiare, letteralmente, l’erba a Moose.
“Sembrerebbe di no.
Chi l’avrebbe mai detto che chiodo Kent sia un giocatore così violento”, il
codazzo di amiche adoranti che la seguiva quasi ovunque ridacchiò divertita.
Pete era
preoccupato, vedeva Clark alterato e per lui era uno spettacolo nuovo. Temeva
potesse lasciarsi scappare qualche parola di troppo. Aveva già il problema di Moose che, conoscendo il tipo, si sarebbe voluto vendicare
sul ragazzo dei Kent, se poi avesse anche insultato la sua ragazza allora
probabilmente lo avrebbe ammazzato.
“Chi l’avrebbe
detto che il tuo così detto ragazzo fosse un uomo di latta, così grande e
grosso.”
Calò un silenzio a
dir poco preoccupante nel corridoio della scuola. “Ecco, ora è fatta” pensò atterrito Pete Ross.
Lana Lang fissò a
lungo, senza dire una parola, Clark Kent che sostenne il suo sguardo senza fare
una piega.
Clark uscì dal
bagno, pronto ad intraprendere l’uscita della scuola. Moose
però non era d’accordo con questo suo progetto e gli si parò innanzi.
“Ho saputo che oggi
hai dato fastidio alla mia ragazza”, esordì quello, sguardo torvo, sorriso
sardonico sul volto.
“Sei stato male
informato,” ribatté Clark per nulla
turbato o intimorito,” se mai è il
contrario. È la tua ragazza che ha dato fastidio a me.”
“Stai dicendo che
sono un bugiardo?”
“Sto dicendo che la
tua ragazza è una bugiarda, perché è lei che ti ha riferito del nostro incontro
vero?”
Moose serrò i pugni ma
Clark mantenne la calma.
“Sai che potrei
farti a pezzi ora? Non c’è nessuno qui, solo noi due.”
“Non lo farai.”
“Ah, no? E perché?”
“Perché sei in
debito con me.”
Moose rimase sorpreso, a
tal punto che per un attimo la sua rabbia scemò e con tono interrogativo
chiese: “che vorresti dire?”
“Sei un buon
giocatore, Moose. Lo sai. La fama che hai te la sei
guadagnato sul campo. Non mi piaci per niente, né tu, né la tua ragazza ma sei
un atleta forte e da quanto ne so, leale. Oggi sul campo ti ho battuto.”
“Mi chiedo come tu
abbia fatto”, Moose era incerto sul cosa dovesse
provare o come dovesse comportarsi a quel punto.
“L’ho fatto. Punto.
Tuo padre mi ha tenuto fuori dalla squadra perché non vuole eventuali rivali
per la primadonna che saresti tu e questo lo sai bene. Sono fuori perché tu
possa continuare a primeggiare senza nessuno che ti rubi la scena. Direi che
sei in debito con il sottoscritto.”
“Tu sei matto”, nel
pronunciare quella parola scoprì, con sua sorpresa, di non riuscire a provare
aggressività nei confronti di Clark Kent.
“Ammettilo. Ti ho
battuto lealmente.”
Moose sospirò e, alla
fine capitolò: “era incazzato nero con te. Ero incazzato perché mi hai fatto
fare la figura del dilettante oggi, perché Moose è
stato battuto da chiodo Kent ma è vero quello che dici. Sarò anche grande e
grosso ma non sono scemo. Mi sono accorto di cosa sta facendo mio padre e
probabilmente dovrei oppormi. Voglio fare carriera nel football ma non sulle
spalle degli altri. È vero, mi hai messo sotto oggi ed è una cazzata mostruosa
non averti ammesso in squadra.”
“Perciò vedi, ho
ragione io. Cosa farai adesso? Mi prenderai a pugni?”
“Kent, hai fegato.
No, non ti prenderò a pugni anche perché, visto come mi hai fatto volare oggi,
non sono poi così sicuro di riuscirci.”
I due scoppiarono a
ridere quasi all’unisono.
“Senti Moose, non ho niente contro di te o tanto meno contro Lana.
Non capisco però perché mi prenda sempre di petto ed oggi, credimi, mi ha
davvero fatto uscire di testa. Sembrava contenta nel vedermi mortificato per la
mia esclusione.”
Moose sospirò e allargò
le braccia: “la verità? È una stronza. Oh, la amo Clark, credimi. È una ragazza
meravigliosa, intelligente, spiritosa ed ha un corpo che beh, non credo di
dovertelo spiegare. Però è una stronza micidiale quando ci si mette. Il
problema è che ti ha preso in antipatia perché ti vede sempre sulle tue, con
una buona media di voti, superiore alla sua ed inoltre la tua famiglia si è
presa la sua fattoria.”
Clark rimase come
imbambolato e fu il suo turno di essere sorpreso. “La sua fattoria?”
“Lana è imparentata
con il Potter che vi ha ceduto la fattoria.”
“Si, questo lo
sapevo ma perché gliela avremmo tolta?”
“So che quel tipo
l’aveva promessa in eredità alla madre di Lana, la sua nipote preferita ed
invece l’ha data ad un prezzo stracciato a voi altri. Lana lì ci andava a
trascorrere le estati. Insomma, c’era legata quando era piccola.”
“Ma sono passati
anni!”
“Che vuoi farci, le
donne non dimenticano mai.”
“E tra l’altro
l’acquisto l’hanno fatto i miei genitori, senza costringere Potter a vendere.
So che il fratello di quel Potter che è un amico ed un parente acquisito di mio
nonno ha mediato per farcela avere ma in ogni caso io non c’entro nulla.”
“Non dentro quella
bella testolina. Mi dispiace. Non credo che, a questo punto, lei cambierebbe
idea su di te, nemmeno se mi mettessi di mezzo io.”
“Capisco”, fece con
tono afflitto Clark.
Moose porse la mano a
Clark che, dopo averla guardata qualche istante, la strinse.
“Sei un fottuto,
buon giocatore di football e posso solo augurarmi che troverai una squadra alla
tua altezza. Dal canto mio, se non posso fare molto per risolvere il tuo
problema con la mia ragazza, parlerò con mio padre, chiedendogli di ritornare sulla
sua decisione, anche se non posso prometterti nulla.”
“Va bene così. Sei
passato dal voglio uccidere chiodo Kent al, facciamo amicizia con chiodo Kent.
Direi che ci si può accontentare.”
L’espressione di Moose si era rabbonita e divertito per quell’affermazione,
“ amici è una parola grossa ma potrebbe comunque essere l’occasione per
conoscerci meglio. Su una cosa ha ragione Lana. Sei un tipo un po’ sfuggente e
questo magari crea qualche problema a chi ti sta intorno. Però mi piacerebbe
scambiare qualche chiacchiera con te, di tanto in tanto.”
“Con vero piacere.”
Moose salutò con un
cenno del capo e lascio un soddisfatto Clark Kent che, dopo poco, imboccò a sua
volta l’uscita e si preparò a raggiungere Pete Ross
nel cortile esterno della scuola.
Clark
prese, come sempre, posto vicino al suo amico Pete sul bus.
“Ci
hai messo parecchio in bagno. Eri imbarazzato?” chiese allegramente Pete.
“Sempre
delicato, vedo.” Si guardò intorno
per accertarsi che nessuno avesse sentito il poco discreto amico.” Sei sicuro che Moose
è uscito da scuola prima del solito oggi?”
“Certo!” Fece un po’ risentito quello,” le mie fonti sono attendibili!”
“Attendibili,” con un accento appena percettibile di
presa in giro ed una rapita alzata di sopracciglio,” certo.”
Clark,
per il resto del viaggio, rimase in silenzio. Guardava fuori dal finestrino le
fattorie alternarsi una dopo l’altra. Alcune erano ancora disabitate, altre
esponevano da anni i cartelli “vendesi”
esposti nei cortili, sugli steccati. Molte di quelle case le avevano comprate
le banche, gli unici acquirenti interessati dopo il disastro del Kansas, l’era
glaciale istantanea. Temperature cadute a picco per un paio d’ore, uragani e
trombe d’aria comparsi dal nulla all’improvviso e chicchi di grandine, i più
grossi mai visti. I raccolti vennero distrutti, molti capi di bestiame morirono
in capo a poche ore e, peggio, morirono anche molte persone. La Contea sembrava
destinata a seguire nella tomba i suoi abitanti ma invece, miracolosamente, si
era rianimata. Il giornale locale aveva titolato “DIECIMILA” in prima pagina. Era il numero di chi risiedeva a
Jefferson. Diecimila forse non era un gran numero rispetto agli abitanti delle
metropoli americane ma era un buon punto di partenza per quei luoghi e presto i
campi sarebbero tornati ad essere tutti coltivati.
“Sei
pensieroso”, fece notare Pete.
“Cosa
ne pensi dell’odio?” La domanda posta da Clark prese un po’ in contropiede
l’altro che rifletté qualche istante su quelle parole. A Clark piaceva questo
di Pete, il suo pensare prima di parlare. Era giovane Pete Ross
ma molto saggio per la sua età, anche se le figuracce che faceva rimediare a
chi gli stava intorno erano leggendarie, e chi gli stava intorno di solito era
quasi ed esclusivamente Clark Kent.
“Brutta
bestia. Credo sia l’odio, insieme ai soldi e alla libido a far girare il mondo.
L’odio muove un sacco di cose e nel nome dell’odio si è capaci di tutto.”
“Non
era nel nome dell’amore?”
“L’amore
è un motore potente ma l’odio ancor di più. L’odio fa dimenticare anche l’amore
e di solito nasce proprio quando l’amore muore. Si può dire, per certi versi
che l’odio sia figlio proprio dell’amore, solo che è più coriaceo e prima di
estinguerlo ce ne vuole. Delle volte ti accompagna per tutta la vita e si nutre
persino dei brandelli dell’amore che lo ha partorito.”
“Come
può nascere l’odio dall’amore?” Clark non aveva mai pensato nulla del genere e
si stupì che l’amico avesse correlato due sentimenti apparentemente tanto
distanti tra loro.
“Pensa
ad una storia d’amore che finisce. Quando accade di solito, tranne rare
eccezioni, tra le due persone cosa rimane? Amarezza, rimpianti, recriminazioni
ed ovviamente lui, l’odio che in sé racchiude tutto quanto elencato in
precedenza. Più grande è l’amore, più tempo dura e più intenso e travolgente
sarà l’odio che prenderà il suo posto. Pensa a chi perde una persona cara. Non
è l’amore che lo legava ad essa che poi in qualche modo sarà la ragione
dell’odio che quella persona proverà per chi o cosa lo ha privato del proprio
caro? Potrei andare avanti per ore.”
“Ho
capito il concetto. Ma si può odiare qualcuno che non ti ha fatto nulla?” Le
parole di Moose ancora risuonavano nella testa di
Clark Kent.
“Certo.
Ovvio, anzi per certi versi forse è ancora meglio. Quando il bersaglio appare
indifeso aumenta la propria frustrazione perché magari vorresti vederlo
reagire, rispondere al tuo odio con altro odio, al disprezzo con il disprezzo.
L’odio è competitivo e ha bisogno ad un certo punto di scontrarsi con altro
odio.”
“Ma
ci deve essere una scintilla che accende quest’odio! E se tu non fai nulla,
perché qualcuno dovrebbe odiarti?”
“Trovare
motivi per odiare è facile, Clark. Non mi piace il modo in cui cammini, il tuo
taglio di capelli è da idiota, puzzi, le tue idee politiche sono ridicole, hai
guardato una volta di troppo la mia ragazza e anche qui potrei andare avanti
per ore anzi, per giorni. Non importa che l’oggetto dell’odio capisca o no le
motivazioni, a chi odia basta pensare che in qualche modo tu abbia leso la sua
dignità o messo in pericolo quello che ha, quello che ama per odiarti.”
Clark
sospirò, “e non c’è un modo per fermare l’odio?”
Pete
lo guardò serio e con gravità, “l’odio è un fuoco, Clark. Un fuoco che brucia
con violenza e fin quando non avrà consumato tutto quello che può, non lo spegnerai
mai.”
Le
parole di Moose e quelle di Pete correvano dentro la
sua testa. Clark si rigirò più volte nel letto e maledisse la sua cronica
mancanza di sonno. La notte trascorse via senza che riuscisse a chiudere occhio
e, finalmente, arrivò l’alba.
Salì
sul tetto di casa e attese di poter salutare il sole. In qualche modo la
presenza in cielo dell’astro luminoso lo rassicurava sempre. Vide il suo
profilo infuocare l’orizzonte e ne osservò il progressivo sollevarsi fin quando
i primi raggi non lo investirono regalandogli quella sensazione di indefinibile
benessere mista ad una leggera euforia.
Si
chiese perché, nonostante fosse stato fatto oggetto del suo disprezzo e del suo
odio ingiustamente, Clark non riuscisse a togliersi dalla testa il volto di Lana
Lang.
VI
Contea di Jefferson, Kansas – due anni dopo
“Non
desiderare la donna d’altri!” lo ammonì divertita con una punta di malizioso
sarcasmo Lana Lang che fece come per scappare da lui.
Clark
studiò ogni particolare del suo volto. La curva delle sopracciglia leggermente
sfoltite e quella formata dalle labbra di lei, atteggiate in un invitante
sorriso.
Lana
ancheggiò facendo un cenno, come ad invitarlo a correrle dietro.
Erano
seminudi, entrambi, lì in quell’angolo di mondo chiamato Paradise Point, nome
che in quel momento al figlio dei Kent parve più che appropriato.
Quella
piccola spiaggia incastonata nel bosco probabilmente di rado riceveva
visitatori. L’aveva scoperta lui per caso, alcuni anni prima.
“La
mia fortezza della solitudine,” aveva spiegato la prima volta che Lana la vide.
“Perché
questo nome?” chiese lei tra la meraviglia per la bellezza di quel luogo, una
gemma sabbiosa circondata da una corona di sempre verdi, e la curiosità della scelta di chiamare in
modo tanto triste e malinconico quel luogo di delizie.
“Non
lo so,” si era giustificato Clark,” ma quando ci sono venuto la prima
volta mi è venuto naturale farlo. Vengo qui ogni volta che ho bisogno di
quiete, di solitudine e di riflettere” ma ormai era divenuta la sua alcova, il
luogo dei convegni clandestini con quella che non avrebbe saputo definire. La
sua ragazza? No. La sua amante? Forse. La sua amica? Gli parve improbabile. E
pure Lana Lang era tutte queste cose contemporaneamente e nessuna di esse.
“Sei
il peccato fatto donna”, le disse in quel momento mentre avanzava verso di lei.
“E
tu sei il peccatore che s’abbevera alla mia fonte”, le fece civettuala.
All’inizio
leggevano i versi dei poeti amati da entrambi. Yats, Tennyson, Kipling, Coleridge ed
il loro preferito, Byron. Poi avevano inaugurato la loro giornata del
Mercoledì, durante la quale confrontavano le poesie ed i racconti brevi scritti
da loro. Scoprire, quasi per caso, quella comune passione era stato l’inizio di
tutta quella dolce follia e a Clark la sua fortezza della solitudine sembrava
il luogo adatto per mantenere segreto al mondo quella relazione clandestina.
Se
suo nonno Eben lo avesse saputo, se il Pastore Shuster, il Professor Potter ed il Dr Whitney
lo avessero saputo lo avrebbero condannato. Se lo avesse saputo Hiram
probabilmente lo avrebbe rinnegato ma poi ricordò quasi subito che il vecchio
non lo aveva mai considerato un Kent, pensiero che gli provocò un moto di
tristezza, una veloce ombra che incupì il suo volto per un istante, istante che
non sfuggì alla succulenta tentazione chiamata Lana.
“Lascia
fuori i brutti pensieri,” gli fece
poggiandosi lasciva su di una roccia e alzando una gamba e agitando uno dei
piedini nudi quasi a dirgli di correre da lei,” è questa la regola, ricordi? Niente pensieri tristi, niente
pentimenti, niente rimorsi, niente preoccupazioni. Prima di riprendere il bus
per tornare a casa ti voglio, ti voglio qui, adesso, con me ed in me. Ne ho
bisogno.” Pronunciò quelle ultime parole quasi fossero state la richiesta di
acqua di un assetato nel deserto. Il lago pareva avvampare sotto i raggi del
sole ed Hiram era lontano, perso per sempre nel tempo ed avvolto nel freddo
sudario della morte con la sua malalingua, la sua cattiveria, il suo bieco
cinismo. Lì c’era Lana, viva, calda, pulsante e Clark le fu sopra in un
istante.
Sul
bus sembravano quasi una coppia felice, lei che teneva la testa sulla sua
spalla e lui che le stringeva delicatamente la mano. Quando lei scendeva alla
sua fermata non diceva nulla, non un saluto e nemmeno uno sguardo.
Il
giorno dopo l’avrebbe rivista al liceo, stretta tra le braccia di Moose, mentre lui la ricopriva di famelici baci a cui lei
avrebbe risposto con la sua esuberanza e la sua voglia di vita.
Non desiderare la donna d’altri,
lo incalzava lei per farsi beffe della sua fede, del suo attivismo nella
parrocchia di suo nonno, per la partecipazione ai sermoni.
Poteva
aver ingannato tutti, lasciandosi andare a commenti cattivi su di lei,
guardandosi quasi in cagnesco lungo i corridoi della scuola. Poteva aver
ingannato il suo migliore amico, Pete, e persino Moose,
con cui se non proprio amico era comunque in buoni rapporti. Era risaputo:
Clark Kent e Lana Lang si detestavano, anche se cordialmente per via della
persona che avevano in comune, ovvero Moose; poteva
aver ingannato tutti ma in cuor suo sapeva la verità e nonostante qualcosa gli
dicesse che quanto faceva era profondamente sbagliato, una parte di lui invece
era felice di quel suo peccato. Non
desiderare la donna d’altri, pensò aggiungendo poi, io non mi sono certo limitato al solo desiderio.
Per
lui era stata una sorpresa scoprirsi capace di dissimulare così bene i propri
stati d’animo e soprattutto quello che faceva. Era come se stesse vivendo una
doppia vita.
Da
una parte Clark Kent, ragazzo tranquillo e amante delle cose semplici, studente
con buoni voti e il sogno di andare al college, attivista nella parrocchia e
pronto ad aiutare i genitori con la fattoria ed il negozio e dall’altra il vero
Clark, quello amante della poesia, delle forti emozioni e delle cose proibite.
“Credevo
che le cose andassero bene,” Jerry
era piuttosto stupito dalla rivelazione di suo fratello Jon.
“Ed
in effetti,” ammise Jonathan Kent,” era così ma tra il negozio di Martha e
il fatto che abbiamo deciso di mandare Clark al College avevo bisogno di soldi,
molti altri soldi che non avevo e non potevo chiedere un prestito a nessuno.
Non a nostro padre, non ad Henry e nemmeno a te”, si sentiva umiliato nel
confessare al fratello minore le sue debolezze, il suo nuovo fallimento.
“Quello
che non capisco di te, Jon, è perché tu debba sempre
dare tutto per scontato! Se me ne avessi parlato prima avrei cercato di
aiutarti! Ti rendi conto che ti sei andato ad immischiare con gente pericolosa!
Ora ascoltami, ti darò io i soldi da ridare al tipo. Mi serve solo una giornata
e mezzo per reperirli e farti un versamento sul conto. Non voglio sentire
storie. Mio nipote e mia nuora non devono essere in pericolo e per quanto tu
sia uno scriteriato rimani sempre mio fratello e non voglio che nemmeno a te
accada qualcosa di male”.
Jonathan
si sentì ancora più in difetto con Jerry dopo aver udito quella sincera
affermazione.
Lo
spontaneo slancio di affetto di cui era oggetto aumentò il suo malessere, non
perché non ne fosse felice o grato ma perché gli ricordava gli errori che
continuava, uno dopo l’altro, a commettere sebbene avesse più volte giurato di
cambiare e cercare di essere un padre ed un marito migliore. Il problema era
che Jonathan Kent non si sentiva però un uomo migliore di quanto non fosse
stato in passato, nonostante tutto l’amore che nutriva per la famiglia.
Jon
salutò il fratello al telefono e si alzò dalla sedia, dando un occhio
all’orologio per capire quando Martha sarebbe tornata dal negozio.
Sentì
una macchina fermarsi al cancello della fattoria e s’apprestò ad andare a
vedere chi fosse.
Clark
rimirò per un po’ l’auto, una mustang rosso metallizzato, rimasta al cancello.
Chiunque
fosse non era entrato nel cortile. Pensò ad un amico di suo padre, uno di
quelli con cui condivideva la passione per le auto sportive anche se,
ricordava, dal giorno dell’incidente non era più stato fatto accenno a quel suo
interesse. Jonathan Kent aveva perfino smesso di seguire i campionati Natscar e le corse dei kart che tanto gli piacevano.
In
casa non c’era nessuno. Lo capì subito dal silenzio che c’era. Non varcò
neppure la soglie ma ristette lì, per diversi secondi, forse un minuto o poco
più, gli occhi socchiusi a cercare di captare un movimento, uno scricchiolio,
persino l’eco di un respiro, qualunque cosa che gli dicesse che in casa ci
fossero persone.
Nulla.
Lo
sguardo allora andò al terreno e le vide. Gli servì solo il tempo per metterle
a fuoco, impronte di stivali che non erano quelli del padre o tanto meno quelli
della madre.
Distinse
i segni lasciati da quei vecchi, usurati stivali da cow-boy per cui sua madre
prendeva in giro il padre, accusandolo di essere così vanitoso da preferire
vesciche e dolori ai piedi piuttosto che non comprarne un paio nuovi e più
comodi.
La
scia lasciata dal genitore s’accompagnava a quella del nuovo arrivato e
giungeva fino al punto in cui, dietro il fienile, partiva il terreno coltivato.
Seguì il piccolo sentiero che passava attraverso il campo da cui spuntavano le
spighe fino al capanno che ormai era praticamente nascosto alla vista, un
prefabbricato quasi addossato al melo che i Potter avevano piantato lì quando
edificarono la fattoria di cui i Kent erano divenuti i proprietari.
Jonathan
si era raccomandato più volte con il figlio di non mettere piede lì perché ci
teneva pesticidi ed altri prodotti chimici pericolosi. Clark si era sempre
limitato ad accondiscendere rassicurando il padre ma sapeva che questi non gli
aveva detto la verità. Primo perché Martha, sua madre, era all’oscuro del fatto
che approfittando di un viaggio per andare a trovare i genitori in Iowa,
Jonathan aveva fatto dei lavori di ristrutturazione della piccola struttura.
Secondo perché quando Clark dava una mano nei campi, portando il trattore o
aiutando con il concime, non aveva sentito provenire da lì nessun odore
sgradevole e Clark si era scoperto molto sensibile agli odori, così come ai
suoni.
Se
ci fosse stato quello che il padre diceva lì dentro, se ne sarebbe accorto
immediatamente ma invece l’odore che proveniva dal capanno era diverso. Un
odore che Clark aveva imparato a riconoscere a scuola e durante le feste a cui
aveva partecipato.
Decise
di non dire nulla a sua madre. Non poteva condannare suo padre per il segreto
che custodiva visto che anche Clark ne aveva uno e, moralmente parlando, non
poteva certo definirsi migliore di lui.
“Non giudicare gli altri se non vuoi esser
giudicato”, disse il Pastore Shuster durante un
appassionato sermone riguardante la carità ed il perdono.
Sentì
un rumore e poi un mugugno. L’impatto di un pugno, forse, e aria che
fuoriusciva improvvisa dai polmoni lasciando senza fiato e confusi.
“Papà!”, pensò allarmato.
Percorse
in silenzio i venti metri che lo separavano dalla baracca e si concentrò sui
rumori che proveniva dall’interno.
“Te
l’avevo detto, ti avevamo avvertito,”
disse Norman Edge”,
non si entra con leggerezza in affari con noi”, agitò in direzione di Jonathan,
che stava con un ginocchio a terra davanti ad una piccola pozza di succhi
gastrici mista a sangue tenendosi la mano sullo stomaco, un indice ammonitore.
“Norman,” tentò di dire Jon
a cui una fitta improvvisa di dolore tolse per alcuni istanti il fiato,” ti ho detto che tu e tuo fratello
avrete tutto quello che vi spetta. Sono un uomo di parola, lo sai, non ho mai
avuto problemi con lui”, sottolineò quasi con disperazione le ultime parole.
Norman era il fratello più piccolo ed era il maggiore a comandare la piccola
brigata Edge. Sperò che sottolineare la cosa lo
avrebbe dissuaso ad andarsene, temendo che Martha o Clark potessero tornare in
qualsiasi momento.
Norman
Edge non ci era andato giù leggere con Jonathan. Lo
aveva colpito duro alle reni, al fegato, alla bocca dello stomaco prestando
cura ad evitare il volto in modo da non lasciargli segni visibili.
La
glock che si era portato dietro aveva dissuaso Jon a tentare di resistere al pestaggio, anche se non era
certo, vista la stazza e la forza dimostrata da Normie
detto “il piccolo”, che le cose sarebbero andate diversamente senza.
“Jon, voglio essere chiaro perché non mi piace che tra noi
ci siano fraintendimenti. Io rispetto mio fratello e non metterei mai in dubbio
la sua leadership nella nostra, diciamo, piccola impresa famigliare. Sono in
affari con lui e conosco alla perfezione i nostri ruoli ma lui, quando si
tratta di te, diventa sempre troppo sentimentale. Avete gareggiato insieme in
quelle cazzo di corse clandestine e tu sei l’unico, insieme a Joseph Ross ad avergli dato filo da torcere. Siete riusciti
persino a batterlo quattro volte. Non so perché ma invece di essere incazzato
per la cosa, ricorda le sue sconfitte con grande piacere e credo ti consideri
la cosa più vicina ad un amico che abbia. Ora, tu avevi promesso di procurarci
una certa quantità di roba. L’accordo era che noi ti avremmo procurato la
materia da coltivare, il fertilizzante, le cassette per fiori, il telo di
plastica, un ventilatore silenzioso e persino queste stramaledette lampade al
sodio e tu ci avresti messo il posto e il tuo pollice verde. C’erano delle
tempistiche da rispettare e 300 piante da consegnare. In cambio ti avremmo dato
un 30% del ricavato. Cazzo! Una percentuale così non ce l’ho nemmeno io che
sono il suo stramaledetto fratello! E tu che fai? Ci vieni a dire che le cose
non sono andate come previsto, che le piante non crescono velocemente come
dovrebbero, ci hai rifilato la storia che alcune sono morte quasi subito. Mio
fratello ha deciso di darti altro tempo, capisci? Il problema è che anche noi
però dovremo renderne conto a qualcuno. I chicos
dell’Intergang con cui siamo in contatto non sono
certo tipi pazienti come mio fratello che ci sta rimettendo la faccia e i
soldi!
Doveva
essere un lavoro facile e tu stai rovinando tutto, per questo sono qui. Voglio
che sia tu a pagare di tasca tua tutti i danni che hai fatto e non dirai niente
a mio fratello riguardo questo nostro piccolo incontro. Insisterai per
rifondergli tutto e ti offrirai anche di coltivare roba per lui a gratis per
almeno un anno. Intesi?” Norman aveva quasi ringhiato l’ultima richiesta, tanto
era lo scorno per quella storia.
“Norman,
ascolta, non dirò nulla a Morgan di questa visita, proprio come vuoi tu. Per i
soldi però devi darmi tempo. Sono pronto a ridare tutto a Morgan, ci avevo già
pensato ma mi serve almeno un altro giorno per metterli insieme” Jonathan si
ritrasse intimorito vedendosi avvicinare Norman nei cui occhi brillava una
sorta di febbrile rabbia.
“Non vuole i soldi”, si ritrovò
improvvisamente a pensare Jon. Non era lì per i
soldi, quelli erano una scusa. Ripensò a quanto gli aveva appena detto. Norman
non aveva digerito che Morgan fosse così condiscendente con il vecchio rivale e
che addirittura lo beneficiasse di una percentuale sull’affare con l’Intergang maggiore di quella che spettava a Norman.
Norman
Edge non tollerava essere secondo a nessuno, tranne
che a suo fratello ma non poteva di certo accettare che fosse surclassato da Jon.
“Perché
mi guardi così …” quasi sussurrò Norman.
“Gesù.
Tu non sei qui per riscuotere nulla”, probabilmente il debito di Jonathan era
stata la scusa che Norman si era dato per infrangere il divieto del fratello ad
occuparsi di quella storia e per tutto il tempo lo aveva provocato e sottoposto
a tutte quelle angherie sperando in una reazione che giustificasse l’aprire il
fuoco su di lui.
“Forse
non hai tutti i torti”, ammise alla fine Norman in cui la frustrazione ormai
aveva preso il controllo. Sollevò la pistola contro Jon,
puntando alla testa.
“NO!”,
risuonò con vigore e potenza nel prefabbricato.
Norman
Edge era allibito, così come Jonathan. Quest’ultimo
aveva urlato, o così gli era parso, in perda al terrore quando la pistola aveva
ruggito contro suo figlio, irrotto nell’ambiente dopo aver letteralmente fatto
a pezzi la porta caricandola.
Clark
era lì, in piedi, che fronteggiava l’uomo, il respiro pesante, la collera
trattenuta a stento.
Nessun
segno di ferita, niente che indicasse fosse stato vittima di un colpo d’arma da
fuoco.
Ma
quanto accadde in quel momento aumentò, se possibile, lo stupore dei due
uomini.
“Come
è possibile?...” mormorò tra l’impaurito e lo sbigottito Norman Edge.
Il
colore dei capelli di Clark era cambiato, improvvisamente, passando dal biondo
rossiccio dei Kent ad un nero corvino e anche gli occhi, si erano fatti da
castani ad un indefinibile blu, così chiaro da conferire qualcosa di distante
ed alieno al suo sguardo. La carnagione si era schiarita velocemente e persino
i lineamenti parvero mutati.
“Chi
sei?...” incalzò Norman spaventato,” cosa cazzo sei? COSA CAZZO SEI?!” aprì
il fuoco una seconda, una terza, una quarta volta ottenendo solo e sempre il
medesimo risultato. Nulla.
Clark
rimase piantato lì, sconvolto da quello che ora vedeva. Era come se la luce
fosse andata via e le cose avessero preso a brillare per conto proprio. Il
corpo dell’uomo che aveva minacciato suo padre era ridotto ad una sagoma
circondata da una corona formata da un elevato numero di ramificazioni che
pulsava di luci, le stesse che parevano sprigionarsi dal suo interno e dalla
sua superficie. Le pupille di Clark erano rosse come braci in quel momento. Non
sentiva nulla, concentrato com’era su quella nuova visione del mondo, fin
quando l’ultimo sparo non penetrò il muro del suo stupore e gli ricordò perché
era lì.
Strappò
di mano la pistola a Norman e nel farlo gli ruppe il dito che premeva il
grilletto. Pieno di adrenalina in corpo quello non sentì subito il dolore e
provò a colpirlo con un pugno in pieno volto. All’inizio non capì che il rumore
che sentì era quello delle sue ossa che si rompevano ma poi arretrò
piagnucolando, la mano al petto. C’era un falcetto posato su di un tavolino su
cui erano accumulati teli di plastica ripiegati alla meno peggio, prolunghe per
la corrente e altri attrezzi da giardinaggio. Lo afferrò con la mano buona
scagliandosi nuovamente contro il giovane che non reagì quando la punta tentò
di insinuarsi, spinta dalla forza impressa da Norman, nello spazio sopra la
clavicola destra. La punta non solo non ci riuscì ma si spezzò e allora Norman
capì di essere indifeso. Clark lo afferrò per un braccio.
Il
rumore che ne venne fu ben più agghiacciante di quello udito al momento in cui
Norman lo aveva colpito in faccia. Pelle e carne si erano lacerate e quando
Clark s’avvide di quello che aveva fatto sentì la rabbia svanire, facendo posto
al terrore.
“Oddio
…” mormorò.
Norman
riuscì a fuggire approfittando di quel momento di smarrimento ma Jonathan che,
mentre assisteva a tutto, era riuscito a tornare padrone di sé corse a
recuperare l’arma caduta in terra tra alcune piantine di cannabis e poi si
gettò all’inseguimento di Norman che era giunto nei pressi della Mustang.
Norman
Edge solo allora realizzò che con la mano ed il
braccio ridotti nell’attuale stato non poteva aprire la portiera o tanto meno
guidare. Pensò di correre lungo la strada di servizio che conduceva dalla
Fattoria dei Kent a quella principale e lì chiedere aiuto a qualche passante.
La pressione esercitata dalla canna della pistola sulle costole lo raggelò,
mettendo subito fine a quei propositi.
Martha
ascoltò con attenzione tutto il racconto del marito che non omise nulla, né i
particolari riguardanti l’accordo con gli Edge, né
tanto meno quanto accaduto al figlio.
“Non
lascerò che mi portino via Clark”, disse subito la donna con decisione.
“Come?”,
Jonathan era stupito nel sentire che quella era stata la prima frase
pronunciata dalla moglie in relazione all’accaduto.
“Se
si sapesse di cosa è capace, ce lo toglierebbero subito, lo sai anche tu. Non
so come sia possibile o perché. Ora non mi interessa. Quello che conta è che sta
bene, è vivo nonostante gli abbiano sparato. Norman Edge
lo ha visto, sa. Hai detto che Morgan non sapeva fosse venuto qui, vero?”
“Sono
passate due ore da quando è accaduto tutto e tra poco Morgan si chiederà come
mai il fratello non si fa sentire”, Jonathan non si preoccupò di nascondere la
paura.
“Faremo
un accordo con lui”, disse con fermezza Martha.
“Con
Norman?”
“Andrò
di la a parlargli. Tu resta qui.”
“Martha,
perché dovrebbe? …”
“Lo
farà. Non lascerò che un delinquente da quattro soldi mi porti via il mio
bambino. Mai più, capisci? Mi sono ripromessa che non succederà mai più e non
voglio nemmeno che la vita di Clark sia rovinata da tutto questo. Lui non
c’entra. Lo sbaglio lo abbiamo commesso noi.”
“Noi?”
“Sospettavo
che qualcosa non andasse in questa maledetta fattoria ma ho voluto chiudere gli
occhi, Jon. Non volevo fare domande, nemmeno quando
ho sospettato fossi tornato al tuo vecchio giro d’affari. La colpa, quindi, è
mia tanto quanto tua. Ora però poniamo fine a questa storia”, e senza aggiungere
altro si diresse al capanno dove Norman,
legato mani e piedi ed imbavagliato, attendeva di conoscere la sua sorte.