“Esteban! Ti prego! Cosa siamo venuti a fare qui? Torniamocene a casa prima di finire in guai seri.”

Esteban lanciò un’occhiata di feroce disapprovazione nei confronti del fratello che con le sue chiacchiere stava compromettendo seriamente il morale dei suoi uomini.

Non era stato facile convincerli a seguirlo in quella parte della città, nel territorio che una volta era appartenuto alla gang dei giamaicani. Da quando avevano lasciato la loro base, c’era stata una disputa per chi dovesse gestire le attività illecite nella zona e lui credeva fosse il momento per i portoricani di reclamare la propria fetta di business. Un accordo con i messicani era la via migliore: lo spaccio di droghe leggere e pesanti sarebbe stata loro mentre Esteban avrebbe preteso per sé ed i suoi uomini la gestione di prostituzione e scommesse; formare un sindacato latino-americano per opporsi ad eventuali pretendenti quali italiani, russi e cinesi era, a suo avviso, il modo migliore di scalare i vertici della malavita.

“Jesus! Se non fossi mio fratello di avrei già piantato un proiettile in quella zucca vuota! Come te lo devo dire? Abbiamo un appuntamento a cui non voglio mancare e se temi che Zap ed i suoi uomini tentino qualche stronzata, ho preso le mie precauzioni! Scostò il trench di pelle per mostrare il mini uzi che faceva bella mostra di sé, oscillando sotto l’ascella. Perché credi che ci siamo portati l’artiglieria? Per sparare agli scoiattoli al parco? Jesus! Te l’ho ripetuto più di una volta! Devi smetterla di fumarti la roba che ti passa Vic e se lo ribecco a rifornirti di merda, giuro su Dio che faccio secco lui e quella merda di cane che si porta sempre dietro!”

Gli uomini si lasciarono scappare un risata subito soffocata da un’altra occhiataccia di Esteban, tuttavia soddisfatto di quella reazione: non voleva che avessero paura perché la paura li avrebbe rallentati e sottratto lucidità in caso di bisogno; la paura era una brutta bestia e lo sapeva bene.

Per un paio di secondi si disse che Jesus aveva capito l’antifona ed invece, imperterrito, tornò alla carica: “Matilde, la ragazza di Gustavo, ha avuto una visione! L’altra notte  ha visto che el Caballero Oscuro arrivava a prendersi la mia anima!”

“E tu stai facendo tutto ‘sto casino solo per le farneticazioni di una puttana drogata?” Chiese incredulo Esteban.

Gli occhi di Jesus riflettevano la follia di cui da tempo il fratello maggiore era a conoscenza.

Forse farlo fuori sarebbe davvero stata la cosa migliore ma, nonostante tutto, era pur sempre il fratello e fastidio o non fastidio era l’unica persona al mondo verso cui provava qualcosa di autentico e a cui sentiva di dover qualcosa.

“Lei è una veggente, fratello! Non sbaglia mai.”

“Jesus, tentò in tutti i modi di dominare la rabbia, non esiste un Caballero Oscuro. Lo capisci?”

“No, no Esteban. Lui esiste. Esiste ti dico. È un santero, come quelli che la nonna ci ha insegnato a rispettare da piccoli. Te lo ricordi? Lui, dice Matilda che conosce bene queste cose, è figlio di Oggùn e di Obba.”

“Jesus, senti, facciamo così: non voleva mettere in scena un teatrino di fronte ai suoi scagnozzi, minando così la sua autorità  e tentò un’ultima mediazione prima di assestare un calcio al culo del fratello minore. Non eri obbligato a venire qui ma mi hai voluto accompagnare lo stesso e, credimi, questo lo apprezzo molto ma non sei di certo obbligato a rimanere.”

“Capo…” fece con voce preoccupata e tremante Julio.

“Zitto! Non ti ci metterai anche tu?” Lo scatto di Esteban fu tanto improvviso che i suoi sobbalzarono temendo che estraesse l’arma e gli sparasse contro.

“Capo, insistette così angosciato da far bloccare Esteban, Paolo è scomparso.”

Rotterdam Street era stata, un tempo, l’arteria principale di quello che era conosciuto come l’Orange District di New York City, cresciuto fino a divenire una vera città, nella città.

Aveva retto, per decenni, il confronto con zone come la 5° Avenue e Broodway, affermandosi come centro finanziario e culturale della città o almeno fino all’inizio del suo declino, iniziato alla fine degli anni ’50 e mai arrestatosi.

Il Cine-Teatro Majestic era stato l’orgoglio di quella zona ma ora era solo un cadavere di mattoni in disfacimento che occupava mestamente quell’angolo di mondo, simbolo malinconico di un tempo che non sarebbe mai più tornato.

Le mura erano imbrattate da graffiti osceni che ricoprivano persino il pesante portale di legno. Le teste delle mensole che sorreggevano le balconate esterne erano state decapitate e sulla scalinata era riversato un tappeto di sudiciume formato da spazzatura di tutti i tipi.

Intorno a loro si dipanava quanto rimaneva d’un quartiere sfiorito e vinto dal passare degli anni, in condizioni non certo migliori dell’imponente costruzione davanti i loro occhi.

“Cosa vuol dire sparito?” Chiese Esteban severo.

“Sparito… Juan tentò di trovare le parole più adatte per non aumentare l’evidente stato di irritazione del suo capo. Era qui, fino a pochi minuti fa e, mentre stavate discutendo, è scomparso. Mi sono accorto di non averlo più dietro di me.”

“Paolo è un armadio di 1.80 per 90 chili di muscoli. Come cazzo fa ad essere sparito così? Hai le pigne nel cervello!? Sarà andato a pisciare in uno dei vicoli qui intorno! Fissò negli occhi, passando in rassegna, tutti i suoi uomini, fratello compreso, a chiarire che il comando era ancora saldamente nelle sue mani e che nessuno poteva prenderlo in giro. Sentite! Sono stanco! Ho le palle piene di tutte queste cazzate sul Caballero Oscuro o come cazzo si chiama! I giamaicani sono sgommati dalla zona perché la concorrenza si era fatta troppo forte e quei fattoni di merda erano troppo impegnati con le loro cazzate rasta per tenere il passo! Non c’è nessuno spirito, nessun  demone che giri da queste parti! È tutta una cazzo di puttanata tirata fuori da qualche gang per tenere sgombro il territorio! Ora andremo a cercare Paolo e quando lo trovo lo riempirò di calci nel culo per essersi allontanato così senza preavviso!”

Sorrise soddisfatto mentre osservava tutta la sua gang assentire rassicurata, tutti tranne il fratello che, improvvisamente, cacciò un urlo da far temere fosse definitivamente uscito di senno.

I 90 chili di muscoli di Paolo volarono battendo violentemente la spalla ed il braccio a pochi centimetri da Esteban che trasecolò. La bocca era bloccata da nastro adesivo, le mani legate dietro la schiena. Pesto e livido rotolò in terra. Subito i ragazzi estrassero i rispettivi ferri aprendo il fuoco in direzione del buio vicolo da cui il corpo del compagno era stato lanciato.

“CAZZO! CAZZO!!! METTETE VIA LE ARMI! FIGLI DI PUTTANA! MERDAIOLI DEL CAZZO!!!!” Esteban sbraitò come un cane inferocito. La zona era off limits per la polizia ed i pochi residenti nell’immediato circondario, tutti immigrati o quasi, si facevano i fatti loro ma una sparatoria avrebbe inevitabilmente attirato l’attenzione e una pattuglia, presto o tardi sarebbe arrivata quando tutto ciò che voleva era concludere, con discrezione, un affare. Inoltre, se non fosse saltato di lato in tempo, sarebbe stato falciato dal fuoco dei suoi.

Jesus era scappato, senza nemmeno assicurarsi che il fratello fosse ancora vivo, cosa che fece infuriare Esteban che estrasse l’uzi puntandolo in direzione della sua schiena ma si dominò e prese di mira gli appartenenti alla sua gang: “FINITELA CON QUESTA STRONZATA O VI STENDO TUTTI!”

Il concerto di pistole terminò ma non tanto per l’ordine tanto quanto per la necessità di ricaricare.

Ora, ne era certo, aveva perso il controllo e doveva rimettere in riga quei pazzi prima che lo facessero finire tra le braccia della polizia.

Juan urlò, portandosi una mano al volto: quelle che sembravano due lame da lancio gli erano penetrate nella guancia destra e nel sopraciglio destro; “SANGRE DE CRISTO!” Urlò in preda al dolore e sparando un colpo, senza volerlo, al piede del vicino, Marcos.

L’ombra sembrò materializzarsi dal l’aria stessa, piombando tra i cinque, una figura che si stemperava tra le tenebre e che si produceva in una velocissima sequenza di colpi che non mancarono mai  il segno e che ruppero clavicole, tibie, anche, peroni, ulne, costole e mascelle;

Esteban, gli occhi sgranati, madido di sudore, il cuore martellante aprì il fuoco senza curarsi della vita dei suoi. Doveva uccidere quella cosa. Doveva eliminare lo spirito vomitato dall’inferno, a qualunque costo. L’uzi urlò la sua spietata rappresaglia, abbattendo uno dopo l’altro quelli che erano stati amici e compagni di Esteban. Usò entrambe le braccia per tenere quanto più possibile ferma l’arma senza riuscire però nello scopo. Semi sdraiato, la schiena premuta contro l’asfalto sporco. Quando il nastro fu esaurito, si alzò lentamente. Non riusciva a scorgere traccia del mostro sotto i corpi dei suoi. Possibile? Era troppo vicino e aveva aperto il fuoco troppo rapidamente perché quello gli fosse sfuggito.

Non ebbra il tempo di gridare per l’orrore di esserselo ritrovato alle spalle girandosi.

 

Jesus correva come un ossesso. Più veloce che poteva, verso casa, verso la salvezza o comunque il più lontano possibile da quel posto maledetto. Aveva cercato di avvertire il fratello ma quello era troppo ingordo e pieno di sé per capire che non si doveva mai e poi mai scherzare con gli spiriti.

Voltò il capo solo una volta, guardando da sopra la spalla per assicurarsi che non fosse inseguito e, nel mentre che tornava a fissare la strada davanti a sé, inciampò finendo con la faccia a terra.

Sputò sangue e denti, tenendosi la bocca con entrambe le mani mentre lo spirito avanzava verso di lui dopo avergli fatto lo sgambetto.

Sei veloce, gli fece in ispanico, con una voce che sembrava provenire da un luogo buio e lontano, fredda come una notte d’inverno, ostile come una nera e fitta foresta, ma i morti lo sono di più. Tuo fratello è voluto venire qui, nonostante avessi lasciato molti avvertimenti che tu, invece, sei stato abbastanza saggio da tenere in considerazione ed è in virtù di questo che stanotte tornerai a casa, nonostante per stoltezza tu abbia seguito comunque il sangue del tuo sangue. Vai, scappa, non tornare mai più qui, non rimanere neppure in questa città. Non m’importa dove ma entro due albe, voglio che tu parta e vada via. Prima di farlo, ricorda, di a tutti quelli che conosci che questa non è terra di nessuno. Questa è casa mia. Questo è il mio regno e nessuno lo rivendica. Se ci proveranno, sappiano cosa e chi li aspetta.

Jesus non riusciva a parlare, la bocca martoriata e si limitò ad assentire, completamente sottomesso. Quando riaprì gli occhi, riuscì a vedere tra le lagrime che l’essere era sparito.

A fatica si rimise in piedi e per poco non morì dal terrore quando sentì la voce sussurrare dalle tenebre: “Ti osservo, ti controllo, ti seguo sempre. Dillo a tutti. Dillo che questa è casa mia e che io sono Batman…”

 

 

 

 

 

 

 

 

Yuri Lucia

 

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                                                                                                                                                          Presenta :

 

 

                                                                                                                       YEAR ONE

 

 

 

 

 

 

 

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BATMAN

( Creato da Bob Kane e Bill Finger)

In the Begin

 

Di Yuri Lucia

 

 

 

 

 

N.1

 

From the Dark…

 

 

I Villa Wayne, Line Count, Gotham City, New York City – 21 anni prima degli eventi narrati. novembre.

 

 

Bruce Wayne, nove anni, salì le scale, attento a non inciampare nel tappeto che le copriva. Voltò subito alla sua destra, percorrendo il ballatoio sino ad entrare nel corridoio che dava sull’ala ovest di Villa Wayne.

Gli sguardi dei suoi ancestori parvero fissarsi su di lui al suo passaggio, carichi di vacua disapprovazione che lo spinse a moderare la sua andatura. Non importava il tempo passato o tanto meno che da tutta una vita li osservava: non si sarebbe mai abituato a loro; i lineamenti di quei volti non avevano nulla della gentilezza paterna. Assomigliavano di più al vecchio patriarca degli Wayne, che lui aveva visto solo in foto. Non avevano l’aria di appartenere all’aristocrazia ed effettivamente, dai racconti di suoi padre, aveva scoperto che le origini della sua famiglia erano quanto mai lontane dal mondo dorato dei benestanti e dal chiassoso jet set gotamita che, per questioni d’affari, i suoi genitori erano delle volte costretti a frequentare.

Pirati, loschi trafficanti, mercenari e persino severi inquisitori erano stati tra i suoi antenati.

Era certo che, per quanto il padre fosse stato onesto con lui, gli aveva sottaciuto diversi particolari, magari i meno adatti ad un bambino, riguardo il modo in cui il patrimonio degli Wayne era stato accumulato.

“Al, credimi, le tue preoccupazioni sono eccessive!”

“Eccessive? Tom, scusami ma ora mi sembra che tu stia prendendo troppo sottogamba tutta la vicenda. Lo sai cosa stanno facendo? Cercano di farti le scarpe per arrivare a prendere il controllo. Ti stanno estromettendo ma non capisco perché, sembra che a te non interessi niente al riguardo. Non so cosa tu voglia fare ma a questo punto, o molli e lasci che finalmente possano ottenere quello che vogliono oppure, se vuoi ostinarti nel giocare alla parte del rampollo di casa Wayne, è ora che tu tiri fuori le palle!”

Bruce si irrigidì. Le voci di suo padre, Tom, e di Al, il suo vecchio amico, sembravano alterata dalla rabbia e ben lontane da quei toni confidenziali e bonari che di solito le caratterizzavano quando parlavano tra di loro.

Decise che entrare in quel momento nello studio del padre per chiedergli il permesso di andare a giocare nel grande giardino fosse fuori luogo.

Bruce era stato educato a chiedere sempre il permesso di uscire di casa: ai suoi genitori o a chi, in quel momento, era responsabile per lui; tuttavia il fine settimana a Line Count volgeva ormai al termine e lui voleva approfittarne il più possibile perché se c’era un luogo che amasse al mondo, che sapeva portargli la serenità, era proprio quel giardino.

Per quanto ben educato, un bambino era pur sempre un bambino e, delle volte, la tentazione di fare qualcosa, anche quando gli fosse stato espressamente proibito, si faceva troppo forte.

Sarebbe stato il suo segreto. Il suo piccolo segreto. Sorrise, mentre percorreva il tragitto all’inverso, cercando di dimenticare lo stralcio di conversazione che lo aveva turbat poco prima.

 

Villa Wayne si ergeva maestosa, sovrastando il grande Giardino che la circondava cingendola d’un verde e rigoglioso abbraccio. Vi erano piante d’ogni tipo, cespugli ben curati, fiori di vari colori, file ordinate di alberi, eppure, nonostante tutto, il terrapieno che costituiva gran parte del giardino, riusciva a conservare un aria perennemente selvaggia, quasi le regole del mondo ordinario non avessero valore lì. Ogni volta che Bruce ci andava, aveva la sensazione che nulla potesse raggiungerlo o fargli del male. Si sentiva al sicuro. Si sentiva a casa.

Molti trovavano quel luogo irrimediabilmente tetro e sconfortante, così come la vecchia Villa, un incubo in cui all’originale stile colonico tipico di quella parte del paese, s’erano sovrapposte visioni neo-gotiche e liberty che ne avevano fatto un monumento all’eccentricità, simbolo del potere che la sua famiglia aveva ad un certo punto, detenuto su quei luoghi, il loro personale feudo in una terra da  dove monarchie e regni avrebbero dovuto, teoricamente, essere bandite.

La Villa invece era un’eccezione, il segno che una stirpe di spregiudicati commercianti e affaristi aveva lasciato attraverso il tempo, una nera cicatrice che atterriva tutti. Tutti tranne lui.

Bruce Wayne, nove anni, decise che il posto migliore dove giocare sarebbe stato accanto al roseto che piaceva tanto alla madre, unico luogo in quella proprietà che sembrasse non detestare. Il vecchio capanno della servitù era stato restaurato qualche settimana prima e, durante i lavori, era venuto alla luce quello che sembrava essere un vecchio pozzo. La bocca del pozzo era stata chiusa con delle tavole. Un lavoro alla buona, in attesa che il proprietario si decidesse a farlo riempire di terra. Tom però non si era deciso, distratto dai suoi molti pensieri. Tutte cose che Bruce ignorava, così come ignorava l’esistenza del pozzo ed il fatto che le travi usate fossero molto meno solide di quanto gli adulti avessero pensato. Solidità che una recente pioggia aveva ulteriormente minato. Corse, mentre immaginava di essere uno dei cavalieri delle storie che gli raccontava la mamma. I Kane, gli aveva raccontato, discendevano invece da nobili uomini d’arme che difendevano i buoni ed i deboli.

Onore, Coraggio, Pietà e Lealtà erano le quattro parole che costituivano il motto di quella famiglia.

Ora Bruce era uno di loro e stava calcando, nel suo solitario gioco, verso un’eroica impresa, ignaro invece che ad attenderlo c’era il suo destino.

Le tavole non scricchiolarono neppure, cedendo quasi immediatamente, così che chi avesse assistito alla scena, avrebbe pensato di vedere il bambino inghiottito senza preavviso da un’invisibile bocca.

 

 

II Commissariato del Distretto di Gotham, Independence Plaza n2, G.C. – Novembre, il presente.

 

 

Bullock entrò nell’ufficio senza bussare, la sigaretta ancora in bocca, del tutto indifferente allo sguardo di disapprovazione che l’agente dell’F.B.I. Montoya gli stava lanciando.

Il Detective James Gordon avrebbe riso in un’altra circostanza, consapevole del fatto che quel comportamento non era solo delle maniere spicce del vecchio amico ma del suo piacere nel creare fastidio ad un federale. Montoya, poi, era persino meno amata del precedente agente di collegamento. Del resto i suoi modi da prima della classe erano al limite dell’arroganza e Gordon stesso, solitamente pacato e misurato in ogni sua azione, trovava difficile tollerarla.

“’sera Jim!” Salutò con allegria e senza alcuna formalità il maturo Sergente, ignorando di proposito Montoya che lo squadrò con un’occhiataccia, del tutto incurante di nascondere il suo risentimento.

“Bene, ora che il Sergente Bullock è qui, fece Reneé Montoya in tono gelido, direi che si può fare il punto della situazione sul caso Dark Knight.”

Jim Gordon la osservava dal momento del suo arrivo e si era sempre detto che quell’agente sarebbe stato una fonte di guai per il Dipartimento di Gotham.

Erano successe molte cose negli ultimi anni: la tradizionale indipendenza nell’amministrazione del Distretto, che gli era sempre valso l’appellativo di “City”, era stata praticamente ufficializzata in seguito all’appello che l’amministrazione locale aveva presentato alla Corte Suprema, ricordando come effettivamente Gotham, più che di un Distretto di New York, nella cui aria urbana rientrava, avesse avuto carattere di città indipendente, abituata a gestire i propri affari da sé; negli anni ’70 la forte ondata criminale che aveva investito tutta la Grande Mela pareva aver prodotto i suoi danni più imponenti proprio a Gotham, dove s’erano installate delle vere e proprie centrali del crimine organizzato. I sindaci del tempo, erano stati colpevoli di non aver fatto abbastanza, anzi, d’essersi disinteressati a tal punto del Distretto da farlo apparire veramente come qualcosa di avulso dal resto della città. I vari Procuratori Distrettuali e Commissari, che parevano esercitare da sempre una sorta di funzione di “sindaco de facto”, ne avevano approfittato per accrescere i propri poteri personali, fin quando, cinque anni prima, c’era stata la causa per far riconoscere l’autonomia amministrativa a Gotham.

La causa aveva portato ad un risultato parziale, tuttavia ben al di sopra delle reali aspettative di chi l’aveva iniziata: a Gotham era riconosciuto uno statuto speciale come Distretto e pur facendo parte di New York City, e rientrando dunque nella sua giurisdizione, era stato istituito un Ufficio per gli Affari Distrettuali al cui vertice c’era l’Amministratore Speciale, titolo provvisorio per quello che era l’autorità che deteneva il vero potere politico ed amministrativo.

Jim non era mai stato d’accordo con quella mossa che secondo il suo parere avrebbe solo isolato ulteriormente Gotham, rendendola persino più appetibile di quanto non fosse alle forze della criminalità organizzata.

L’11 Settembre aveva influenzato molto l’opinione pubblica americana che, catalizzata l’attenzione sulla tragedia vissuta e preoccupata per il proprio futuro, s’era disinteressata di quella piccola “guerra di secessione” che riguardava N.Y.

La “Piccola Secessione”, era così che la chiamavano tutti e quando Gordon esprimeva chiaramente i suoi dubbi in proposito, gli veniva risposto: “Certo! Tu hai votato Giuliani. Però dimentichi che tutti gli altri ci hanno lasciato nella merda.”

Quasi si lasciò scappare un sospiro. La comparsa di un violento vigilante che stava decimando le bande criminali era vissuto piuttosto male dal Vice Commissario Loeb, prossimo a ricoprire la carica di Amministratore Speciale. Secondo la sua opinione, minava l’autorità delle istituzioni locali agli occhi dei cittadini e, visto che quelle autorità avevano da poco guadagnato la tanto agognata autonomia, non era pensabile permettere di lasciare un simile individuo operare impunemente. Gordon aveva sempre temuto, per via della sua esperienza, il vigilantismo, potenzialmente il primo passo verso l’anarchia ma più che adoperarsi nel tentativo di neutralizzare il fantomatico Cavaliere Oscuro dispiegando tutti i mezzi a disposizione ed impiegando i soldi dei contribuenti, l’aspirante Amministratore avrebbe dovuto lavorare sulle cause che ne avevano portato alla nascita e all’ascesa: la dilagante corruzione, la delinquenza, l’alto tasso di crimini; la Crisi che aveva colpito gli U.S.A., non aveva risparmiato di certo Gotham e sembrava aver rinvigorito il mondo del malaffare.

“Il punto della situazione, ammise Gordon senza troppi preamboli o fronzoli, è che stiamo dando la caccia ad una legenda metropolitana, per quanto ne sappiamo. Del Cavaliere Oscuro, non c’è praticamente traccia se non nei racconti incoerenti di criminali sulla cui affidabilità c’è più di un dubbio. Sappiamo tutti che molti di loro cercano di evitare il carcere fingendo di essere incapaci di intendere e volere e altri, sono talmente bruciati da esserlo veramente. Non abbiamo una foto, una ripresa video, nemmeno una ripresa satellitare che ce ne confermi l’esistenza. L’abbiamo accusato di non ricordo nemmeno più io di quanti crimini e non sappiamo neppure se sia reale o meno. È come se fossimo dietro allo Yeti o a quell’Uomo d’Acciaio che si dice s’aggiri nel Kansas. Agente Speciale Montoya, con tutto il rispetto, il Bureau e l’Ufficio dell’Amministratore stanno concentrandosi troppo su uno spauracchio, senza occuparsi delle questioni importanti.”

Reneé Montoya fissò lo sguardo in quello di Gordon che lo sostenne senza alcun problema, cosa che aumentò ulteriormente il suo malcontento e la sua mal disposizione nei suoi riguardi. A Bullock non sfuggì e rise sotto i baffi.

“Detective Gordon. Le ricordo che lei, per via della sua passata esperienza a Chicago, è stato messo a capo di questa divisione speciale per la Questione Vigilantes. Le è stato chiesto di mettere la sua professionalità al servizio del Distretto di Gotham e se non ricordo male lei ha accettato.”

“Non senza aver espresso i miei dubbi al riguardo, Signora.” Ricordò il poliziotto senza timore di inimicarsi ancora di più Montoya.

“Tuttavia, puntualizzò con fastidio, lei ha accettato e, perché credo sia giusto lo sappia, in quanto Agente di Collegamento con l’FBI per il Distretto di Gotham, ho espresso i miei di dubbi su tale nomina.” Se quell’affermazione avesse sortito l’effetto sperato non poteva dirlo. Gordon rimaneva impassibile, tranquillo come sempre. Montoya sentì aumentare il risentimento e la frustrazione.

“Ne prendo atto, replicò come se non fosse stato un tentativo di offenderlo quello sentito poco prima, Agente, non fu casuale l’omissione dello speciale, né del nome eppure lei ha accettato i suoi ordini, lavorando con me. Io ho fatto lo stesso. Senso del dovere, Signora, è questa la motivazione e sa bene che mi sono impegnato per scoprire se questo Cavaliere Oscuro esista oppure no ma né io, né gli uomini dell’F.B.I. sotto il suo comando abbiamo fino ad ora ottenuto risultati.”

“Gordon, lei può giocare quanto vuole ma sa bene che i ranghi delle gang che infestavano le strade di questa città sono stati fortemente ridimensionati. Crede forse nei miracoli?”

“Credo che ci siano state delle faide, Signora, tra gang e magari anche interne. Credo che le grandi famiglie del crimine, la vecchia Mafia gotamita possa aver deciso di dare una sfoltita in un panorama forse divenuto ingestibile anche per loro. O forse ci sono stati dei tentativi di infiltrazione da parte di nuovi gruppi emergenti. Le alternative ad un vigilante che sembra essere onnipresente e onnipotente, se me lo permette, ci sono e anche in abbondanza. Se poi vogliamo a tutti i costi fingere di essere miopi per non riconoscere i nostri stessi limiti ed i nostri errori, è tutta un’altra storia. Vogliamo indagare sul Cavaliere Oscuro? Va bene ma perché escludere ogni altra pista?”

“Gordon, la pazienza di Montoya sembrava veramente prossima ad esaurirsi, lei parla bene, davvero ed è uno dei motivi per cui si è fatto degli amici ma non creda siano così tanti o così potenti da pararle sempre il culo. Non so a che gioco stia giocando ma non le lascerò sabotare ancora l’operato di questa unità.”

Per un attimo Renée Montoya ebbe un sussulto. Lo sguardo di Gordon, da dietro gli occhiali dalla montatura antiquata, s’era indurito in un modo in cui lei non avrebbe mai creduto possibile.

Bullock conosceva Gordon dai tempi di Chicago ed era invece consapevole di che pasta fosse veramente fatto quel poliziotto dall’aspetto scarno e un po’ smunto. “La ragazza ha fatto un passo falso.” Si disse divertito tra sé e sé.

“Agente Speciale Renée Montoya.Ora era il suo tono ad essere freddo e distaccatamente formale. Questa è un’accusa? Perché se è un’accusa speri di avere prove più che ottime a suo sostegno, altrimenti, Signora, con rispetto parlando, Bureau o no, le farò passare un brutto quarto d’ora di fronte al tribunale a cui la trascinerò.

Non permetto a nessuno, tanto meno ad una novellina che puzza ancora di latte, convinta di essere il pezzo grosso della situazione solo perché a Quantico qualcuno le ha detto di essere in gamba, di mettere in dubbio la mia integrità, la mia professionalità o quella degli uomini che lavorano nella mia squadra. Non osi mai più lanciare accuse campate in aria, tanto meno così gravi ed infamanti. La prossima volta che si prenderà una simile confidenza e libertà, non sarò più tanto gentile e comprensivo nel risponderle.”

Montoya era rimasta spiazzata. Non s’aspettava una reazione così vigorosa.

“Gordon, senta, non lo sto accusando di …”

“Di essere un sabotatore? Buffo, perché poco fa ha affermato che non mi avrebbe più lasciato sabotare quest’unità. Se non sbaglio è il sabotaggio l’attività principale di un sabotatore, no? Il gelido sarcasmo di cui si rivelò capace lasciò l’agente dell’F.B.I. incapace di controbattere, ponendo ancora di più Gordon in posizione di forza. Io non le piaccio, Agente Montoya, e questo l’avevo già capito. Pensa che io sia un ostacolo alla sua carriera, un inetto incapace di allacciarsi da solo le scarpe. Non m’importa nulla della sua opinione, Montoya. Non m’importa dell’FBI e dei pezzi grossi che le stanno dietro e sa perché? Perché mi hanno affidato il comando di quest’Unità, e perché se non vi piace come la gestisco, potete anche accomodarvi e prendere il mio posto ma prima dovrete sollevare una formale accusa, e sappia che non lascerò che la cosa si concluda in modo indolore per voi, visti i numerosi errori compiuto dal suo team in questi giorni. Vuole comandare? Allora si prepari ragazzina: nessuno toglie la sedia da sotto il culo di James Gordon; sono stato sufficientemente chiaro, signora?”

“Si, Tenente Gordon.” Il silenzio che avvolgeva la stanza era carico di tensione ma, sconfitta, Montoya uscì senza aggiungere altro.

“Bel lavoro, boss.” Era quello che Bullock avrebbe detto se Gordon non lo avesse fulminato con uno sguardo ammonendolo: “ E tu non aggiungere altro”.

 

“Vado a fumarmi una paglia.” Aveva detto Gordon a Bullock al termine della loro consultazione privata sullo stato del “Caso Cavaliere Oscuro”. “Merda” era stato il colorito termine usato da Bullock per descrivere il punto in cui le indagini si trovavano e Gordon s’era trovato a dover concordare con lui. Salutò i colleghi nel corridoio, arrivò all’ascensore salendo fino all’ultimo piano. Montoya era una piccola arrampicatrice sociale, non meno avida di notorietà e consensi di Loeb, si disse, un uomo che non avrebbe mai dovuto divenire Vice Commissario di Gotham e che meno che mai avrebbe dovuto divenire Amministratore. Era pericolosa. Tutto quel gioco era pericoloso. Avrebbero dovuto occuparsi del problema reale: a breve, ne era certo, ci sarebbe stata una guerra tra famiglie per spartirsi nuovamente il potere; si diresse verso le scale di servizio ed uscì sul tetto, dirigendosi verso una bassa cabina. Sedette sulla superficie di cemento ed ardesia e s’accese la tanto agognata sigaretta. James Gordon non aveva l’aspetto del grande eroe che qualcuno diceva fosse in seguito alle vicende di Chicago. Era alto 1.77, estremamente magro, ragion per cui da giovane lo chiamavano “stecco”, il volto scavato, due baffi fuori moda a nascondergli il labbro superiore, un naso lungo e leggermente storto a causa di un pugno preso anni prima, i capelli castano scuro pettinati all’indietro, leggermente ingrigiti ai lati e diradati alle tempie. Tirò una profonda boccata pensando a quanto fosse ridicola e rischiosa quella storia. Osservò la city che brillava delle luci notturne, come una prostituta ingioiellata, tutti sorrisi e mosse vezzose, pronta a rubare il portafogli al cliente in qualsiasi momento mentre lo faceva ubriacare.

Montoya ti continua a creare problemi ma tu le hai tenuto bene testa.

“Ancora per poco, almeno finché non capirà che bluffo o avrà l’assoluta certezza che le sue accuse sono fondate.” Rispose alla voce profonda che proveniva alle sue spalle. Dietro c’era la cabina dell’ascensore e lui doveva essere appollaiato li sopra. Odiava quelle sue apparizioni improvvise e teatrali.

“Dovresti smetterla di cercare di impressionarmi tutte le volte, altrimenti comincerò a pensare che non stiamo collaborando ma che vuoi mettermi in soggezione.” Ciccò a terrà, lo sguardo fisso davanti a sé.

Noto che ora usi quasi senza problemi il termine collaborare.

Non gli sfuggì l’ironia delle parole ma preferì non replicare a quella e si limitò: “ Continui a spiare le mie conversazioni. Non usi cimici perché le avrei trovate ma probabilmente hai un qualche microfono direzionale d’ultima generazione. Roba sofisticata, come quella che usi per manomettere i filmati delle telecamere di sicurezza o che ti permette di capire quando un cavolo di satellite ha il suo obbiettivo puntato su di te. Non hai bisogno di fare quella voce da oltretomba per essere spaventoso.”

Anche per questo mi piaci, Gordon. Non solo sei uno dei pochi poliziotti non corrotti, forse l’unico, che io conosca. Hai un bel cervello.

“Non temi che lo usi per arrivare a te? A chi sei veramente?” Non aveva resistito alla tentazione di provocarlo un po’.

Ti sei compromesso troppo, collaborando con me ed io ho fatto in modo di documentare con dovizia di particolari questo nostro piccolo do ut des, Gordon e se Montoya o Loeb sapessero cosa hai fatto, allora avresti altre preoccupazioni che non vederti la sedia tolta da sotto il culo.

“Ti sei spiegato, si limitò a dire per nulla impressionato, rimane però un problema di fondo. Cominciano a sospettare di me e, per quanto sia una piccola opportunista testa di cazzo, la Montoya non è stupida. Novellina o meno è un agente addestrato dell’FBI ed io non posso tenerla a bada per sempre o sperare di non commettere mai errori. Li sto tenendo alla larga da te, sto facendo in modo che tu abbia il campo libero ma non ti garantistico duri a lungo.”

Non mi serve che duri a lungo. Mi serve che duri quanto basta per togliere dalla circolazione chi devo.

“Hai fatto molto rumore, ultimamente. Hai alzato il tiro, sempre di più e da qualche teppista isolato sei passato alle gang. Vuoi farti notare, questo l’ho capito.”

Devo togliere manovalanza ai pesci grossi ed inoltre, voglio che sappiano di me. Non devono avere la certezza che io esista, ed è per questo che ho bisogno di te ma devono sentire ugualmente il mio fiato sul collo.” Gordon era davvero brillante, si disse, aveva capito la natura del suo piano anche se non gli aveva rivelato nulla.

“Se vuoi provocare una reazione inconsulta da parte della Mafia, ti consiglio di avere un buon piano per gestire il casino colossale che ne verrà fuori. Non posso permetterti di scatenare una guerra tra quei balordi senza l’assicurazione che tu sappia cosa stai facendo.”

La risposta non giunse e Gordon lanciò la sigaretta oltre il bordo del tetto. Amava le entrate spettacolari e le uscite silenziose. Doveva essere una sorta di psicopatico, nella vita di tutti i giorni.

Gordon aveva accettato quel rapporto pericoloso perché sembrava l’unica via per rimettere ordine in città, sebbene avesse fatto violenza contro i propri principi. “Un patto con il diavolo ha sempre i suoi costi.” Si disse tornado verso le scale.

 

 

III Villa Wayne, Line Count, Gotham City, New York City – 21 anni prima.

 

Il respiro era sempre più veloce e cominciavano a manifestarsi i primi segni dell’ipocapnia.

Cerco di urlare, più d’una volta, senza alcun risultato. La voce era come morta nella sua gola. Gli occhi ruotavano rapidi da una parte all’altra, tentando invano di strappare alle tenebre una qualsiasi cosa: un particolare, un punto di riferimento; le dita strinsero nuovamente il terriccio umido e le lacrime caddero su di esso.

Nessuno l’avrebbe trovato. Nessuno. Bruce Wayne era morto. Quella doveva essere la morte, ne era certo, perché solo la morte poteva essere così fredda, silenziosa, distante da ogni cosa.

Tentò di rimettersi in piedi ma barcollò solo pochi centimetri, prima che una fitta improvvisa gli facesse digrignare i denti e lo costringesse nuovamente a terra, il volto tra lo sporco.

Non c’era possibilità d’avanzare o d’indietreggiare. Solo una grande macchia nera che avvolgeva ogni cosa come se fosse stato un pesante sudario.

Singhiozzò, incapace d’agire, il cuore che martellava con sempre maggior vigore.

Dalla morte non si tornava indietro: questo gli avevano detto i suoi; non gli avevano spiegato altro, lasciando tale compito ad altri.

Una delle cameriere, Fernanda, gli aveva detto che per le persone buone, dopo la morte, c’era un luogo pieno di luce, una città magnifica che stava nel cielo, chiamata Paradiso mentre per i malvagi c’erano solo il sinistro bagliore delle fiamme dell’inferno, dove Satana regnava sovrano.

Era piccolo quando per la prima volta affrontò questo discorso con la domestica che, pazientemente, rispondeva sempre a tutte le sue domande.

Eppure, in quel momento, non vedeva né luci, né fiamme.

“Aiutatemi …” Pensò disperato, incapace di credere tutto perso ma sua madre e suo padre glielo avevano detto: “Nessuno torna dalla morte.” Con i palmi si strofinò gli occhi per togliersi le lacrime ma si sporcò solo il viso con il risultato che gli occhi gli bruciarono di più. “Nessuno”. Era come se una voce sussurrasse quella parola alla sua mente, una parola pronunciata con disprezzo e crudele divertimento. “Nessuno…” si disse dentro.

 

Eppure non doveva cedere alla disperazione o alla paura. Suo padre gli aveva insegnato a reagire, anche quando la situazione sembrava essere completamente disperata e priva d’ogni via d’uscita. Così facevano gli Wyane. Gli Wayne non arretravano mai, non temevano nulla, né il fulmine, né la tempesta, né la fame, né la povertà, né io forte, né l’ingiusto. Così gli aveva sempre detto il padre. Cercò a tentoni la parete curva, seguendone la concavità, sostenendosi contro di essa. Avrebbe saltellato fino a raggiungere un’uscita, se un’uscita esisteva. Se non ce ne erano, se davvero quella era la morte, impenetrabile, definitiva, invincibile, avrebbe comunque continuato ad avanzare. Lo avrebbe fatto fin quando avrebbe avuto le forze o anche tutta l’eternità se ne fosse stato capace.

Fu così che Bruce Wayne, nove anni, sfidò la morte stessa.

Fu così che Bruce Wayne scoprì che il rischio del lanciare una sfida era che venisse accettata.

 

Da prima fu come un discreto murmore, che gli fece credere, sperare, nella presenza di qualcuno, rinfrancando un poco il suo cuore terrorizzato. Però i suoni erano troppi alti e striduli e più che un mormorio, così come la sua mente aveva voluto fargli credere in un primo momento, era una cacofonia di acuti e squittii che riempivano l’aria, con sempre maggior vigore e prepotenza.

“Chi c’è?...” riuscì a sussurrare.

 

L’urlo delle tenebre che presero vita, lo zittì.

Era ovunque, che lo lambiva, lo colpiva, ricacciandolo indietro, facendolo cadere tra la fanghiglia, irridendolo, umiliandolo, schiacciandolo a terra, privandolo delle forze, riducendo le sue budella ad acqua, spezzando le ginocchia, ormai incapaci di sostenere il suo peso, graffiandogli il volto, tirando i suoi capelli, investendolo con un odore nauseabondo, acre, marcio.

 

Allora, Bruce Wayne, urlò.

Urlò con tutto ciò che rimaneva di lui.

Urlò la sua disperata richiesta d’aiuto.

 

 

IV Gotham, Little Venice – Novembre, il presente.

 

 

Gotham City era costituita principalmente da tre grandi parti:

l’Orange District, che si era sviluppato originariamente attorno a Rotterdham street e da essa divisa in Upper e Lower side, rispettivamente sedi della vecchia cattedrale di San Michele Arcangelo e della chiesa di Nostra Madre Caritatevole, il così detto Gotham Hills, la contea costituita da antichi borghi extra urbani e in per la maggior parte dal Count Line che si incuneava tra lo stato di New York e quello del New Jersey, e la New Town che dal 1900, con il quartiere di Liberty Station avrebbe dovuto rappresentare il nuovo volto della città. Little Venice era nata negli ’50, quando la carenza cronica di spazzi sfruttabili, aveva convinto i costruttori ad edificare sul piccolo sistema di isole antistanti a quella più grande di Arkam.

Con la così detta “indipendenza” di Gotham, era stato dato l’avvio ad un processo di sviluppo della zona che avrebbe dovuto costituire il fulcro della rinascita cittadina. La Baia di Gotham sarebbe stata il cuore della rinascita di una città stanca di essere la siamese di New York e desiderosa di rendersene indipendente.

Il nuovo grattacielo “Schwartz”, proprietà della Wayne & Wayne, ospitava diverse società, tra cui la FA.ME. enterprise, ufficialmente una rispettabile impresa che offriva servizi finanziari di vario titolo, quali brocheraggio, mediazioni, investimenti sui mercati internazionali.

Ufficiosamente era una delle proprietà della Mafia Gothamita, la famigerata “Seduta”, così chiamata per il vecchio rituale, rispettato sin dai tempi della “mano bianca”, di vedere tutti i capo famiglia seduti in circolo, senza nessun tavolo, in una stanza praticamente spoglia d’ogni orpello a ricordo dei primi giorni in cui venivano mossi i primi passi nel mondo del malaffare.

Ovviamente i tempi cambiavano e qualcosa la si doveva pur concedere alla modernità e così alla Seduta non partecipavano più solo i capo-famiglia ma anche i loro luogotenenti sul campo.

Era stata un’iniziativa del vecchio boss Carmine Falcone che in questo modo aveva voluto mantenere un saldo legame tra “dirigenza” ed “operativi”.

“I capi sono oberati dal peso delle decisioni e corrono il rischio di perdere d’occhio la principale fonte dei propri introiti: la strada; inoltre, le alte sfere non devono ignorare i bisogni dei propri sottoposti perché noi non siamo un semplice insieme di uomini d’affari ed operai, non una delle tante imprese esistenti, anche se gestiamo i nostri traffici con rigore imprenditoriale, ma siamo e rimaniamo soprattutto una famiglia e questo termine, famiglia, non deve mai essere privato del suo senso più profondo.”

Carmine Falcone, morto per un attacco cardiaco alcuni anni prima, era stato l’uomo che aveva partecipato alla leggendaria guerra per strappare alla mala ebraica il controllo di New York, quando le bande di italiani s’erano stufate d’essere dei semplici manovali al loro soldo.

            Durante la Seconda Guerra Mondiale aveva collaborato con l’F.B.I. ed i Servizi Segreti nell’opera di individuazione e smantellamento della rete di sabotatori nazisti presenti in quella zona.

Aveva stabilito una e consolidato una base d’affari a Gotham, intuendone le potenzialità e l’importanza e mentre nella Grande Mela si era combattuto una guerra che tra la Mafia e le nuove mafie straniere che ne aveva visto ridimensionato il peso, a Gotham erano gli italiani che dettavano a russi, giamaicani e messicani le condizioni a cui si doveva lavorare.

A differenza di molti mafiosi aveva una grande cultura, soprattutto in campo economico e sociale, pur non avendo frequentato l’università ed era stato un teorico del “cambiamento mantenendo però intatte le proprie radici”.

Se non fosse stato un mafioso, probabilmente molti lo avrebbero trovato un uomo da ammirare ed imitare per via dello spirito e dell’intelligenza dimostrate.

“Dichiaro aperta la 997 esima Seduta.”

Sal Pascucci, nell’ordine 11esimo Maestro di Seduta e successore di Falcone, si sincerò che tutti lo seguissero attentamente. I presenti erano in tutto dieci: i cinque capi delle più importanti famiglie dell’Organizzazione ed i loro relativi comandanti sul campo; i Pascucci appartenevano al circolo della mano ma non ne era Sal l’attuale capofamiglia. Per un periodo era stato il “reggente” ma rifiutò l’incarico quando gli fu proposto di presiedere alla “Seduta”.

Era un grande onore, un posto di privilegio ma si doveva, per forza di cose, mantenere imparzialità e neutralità, anche nei confronti dei propri congiunti. Dunque, nessun Gran Maestro poteva occupare la propria carica mantenendo al contempo quella di Capofamiglia.

Persino Carmine Falcone, il grande patriarca, aveva sottostato a tale tradizione anzi, l’aveva difesa ed incoraggiata in più d’un occasione.

Il nuovo Capofamiglia, Simon Pascucci, aveva dimostrato di meritare il suo titolo, facendo un buon lavoro nel controllo del suo territorio.

“Come sapete, di recente, siamo stati testimoni di una serie di avvenimenti importantissimi per noi tutti: la Corte Suprema ha riconosciuto a Gotham uno statuto speciale, rendendo quell’indipendenza di fatto che possedeva da New York quasi ufficiale. Quasi. Siamo solo all’inizio del processo che è il primo del genere nella storia americana. La nostra personale, piccola Guerra d’Indipendenza. I presenti sorrisero alla battuta di Pascucci, più per cortesia che per sincero divertimento, cortesia che Pascucci però apprezzò con una certa soddisfazione. È l’alba di una nuova era, per noi. Finalmente possiamo realizzare il grande progetto che Falcone sognava per noi tutti. La recente guerra al crimine di Giuliani ha pesato non poco sulla nostra libertà d’azione ma qui a Gotham è diverso ed ora che si sta formando un’amministrazione locale dotata di maggiori poteri, abbiamo l’occasione per infiltrarvi uomini a noi graditi e ben disposti a chiudere un occhio su alcune delle nostre attività.

Purtroppo però, non sono tutte rose e fiori. Abbiamo assistito ad un tentativo di escalation da parte di piccoli gruppi a seguito della cessata attività di quelli che controllavamo noi. Cessazione di cui non sappiamo nulla, tra l’altro. Ci sono domande? Alzò rispettosamente la mano Paul Galluzzi. Prego Don Galluzzi, l’uso del Don era d’obbligo in quelle cerimonie quando ci si rivolgeva ad un Capofamiglia, anche se a farlo era il Maestro in persona e questo perché il rispetto dei ruoli ricoperti era importante, prenda pure la parola.”

“Grazie a Vossignoria, anche Paul conosceva e rispettava il protocollo di quelle riunioni e stimava molto il Maestro sia per il ruolo ricoperto, sia da un punto di vista umano. Pascucci e Galluzzi erano famiglia particolarmente unite tra di loro, per via dei molti matrimoni combinati che nelle ultime tre generazioni avevano insaldato i loro legami, prendo la parola e mi rivolgo a voi e ad i miei amati , comune appartenenza che gli appartenenti alla Seduta dovevano nutrire reciprocamente e nei confronti dell’Organizzazione, per esprimere tutta la preoccupazione che questa situazione, estremamente delicata, ha arrecato a me e alla mia Famiglia così come sono sicuro sia accaduto anche a voi. Fino a pochi mesi fa, avevamo una situazione d’equilibrio ed ordine, ottenuta con grande fatica e sacrifici personali. Le bande operavano sotto nostro mandato e rispettavano le regole. Qualcuno le ha eliminate, decimandole, facendone arrestare gli esponenti di spicco, intimidendoli o addirittura spingendoli alla fuga e, per quanto ne sappiamo, in alcuni casi magari ammazzandoli ed occultandone i resti. Altri sono arrivati qui, sperando di approfittare della confusione e del vuoto creatosi nel controllo di alcune strade ma, ancora una volta, intimidazioni, botte, sparizioni. Ora, francamente, temo che chiunque abbia fatto questo, non voglia fermarsi ai piani bassi, anzi, mi sembra evidente che sia intenzionato a proseguire nel suo lavoro di destrutturazione della nostra beneamata Organizzazione. Un nome circola per i quartieri da un po’ di tempo: il Cavaliere Oscuro; prese una significativa pausa per verificare che la sua affermazione avesse ottenuto l’effetto voluto e quando ebbe la sua conferma, continuò. È un personaggio di cui non sappiamo niente, nemmeno se esista o no veramente anche se sono propenso a credere che qualcuno debba aver agito. Non un uomo solo, questo no, perché per un uomo solo questa sarebbe un’impresa a dir poco impossibile. Un gruppo, ben organizzato ed esperto, che sta agendo secondo una precisa strategia: destabilizzare; un gruppo del genere deve lavorare per qualcuno ed essere da quel qualcuno ben finanziato. Io credo che dovremmo cominciare a stilare una lista dei nostri possibili nemici. Vossignoria, per ora ho finito.”

“Grazie, Don Galluzzi. Qualcuno vuole commentare l’intervento? Sal Masucci alzò subito la mano. La parola a Don Masucci.”

Salvatore Masucci era il più giovane tra i boss presenti. S’era guadagnato il posto dimostrando grande vigore ed energia nella gestione dei suoi affari. C’era stata la questione del cugino, Mark Masucci, l’erede designato a succedere al vecchio Pasquale ma si era voluto evitare di indagare su quell’incidente che a Mark era costato la vita e a Sal aveva garantito il controllo della Famiglia Maucci. Era un momento delicato, di transizione e serviva coesione tra le Famiglie e non una faida o un lotta intestina a una di esse. E poi, lo sapevano tutti, Mark non era esattamente il più adatto a guidare una Famiglia potente e rispettata come quella dei Masucci.

“Ringrazio Vossignoria e vorrei rispondere all’Eccellente Don Galluzzi, l’eccellente era usato dai boss più giovani come segno di rispetto nei confronti dei più anziani e Sal, al pari degli altri, era accorto nell’utilizzare i giusti toni e le giuste parole in seno a quella riunione, confermando che anche per i Masucci, la Famiglia che ho l’onore di guidare e rappresentare, è un momento di grande preoccupazione e che condivido i suoi sospetti. Una regia occulta, una regia ben avveduta e a conoscenza di molte delle nostre usanze e regole, guida questo misterioso commando che ha colpito i nostri caporali ed i loro sottoposti. Chi sia? Difficile dirlo ma mi sento d’escludere F.B.I. o altre forze Governative. Prevengo subito la domanda che il mio Eccellente cugino, Don Galluzzi, potrebbe pormi o che qualsiasi di voi potrebbe fare: il loro modo di muoversi è troppo spregiudicato e richiederebbe un’infiltrazione nella nostra organizzazione ad un livello di cui non sono capaci, grazie ai nostri contatti nelle maggiori Agenzie del Governo Federale. Presto o tardi, avremmo saputo di un simile piano e saremmo venuti a conoscenza dell’identità dell’agente, o degli agenti utilizzati per l’operazione. Una simile operazione richiede tempo, non può essere stata condotta dall’oggi al domani e dunque ne saremmo stati, presto o tardi, informati. La Polizia locale invece è da escludere quasi a priori. Non è nelle loro possibilità fare qualcosa del genere.

Il nostro nemico, il vero nemico, si serve di uno spauracchio chiamato il Cavaliere Oscuro, un nome pittoresco per un personaggio che non esiste, interpretato da attori bravi nella loro parte ma nulla di più. Io sospetto, che un simile accanimento nel portare avanti un piano tanto machiavellico abbia origine non tanto dall’interesse e dal profitto ma dalla sfera emotiva. Stavolta fu lui a prendere la sua pausa, per osservare le reazioni degli altri e fu il suo turno d’essere soddisfatto. Se qualcuno volesse chiedermi chiarimenti o pormi domande, sono disposto a rispondere sin da ora. Vossignoria, se volete per ora ho finito.”

“Grazie, Don Masucci. Qualcuno dei presenti vuole replicargli o sottoporgli delle domande?” Dove voleva arrivare Masucci, se lo chiese in mente Pascucci che del ragazzo, boss a soli 35 anni aveva qualche timore. Troppo giovane, anche se forse  aveva la giusta energia per guidare con il suo esempio le Famiglie. Alzò la mano Gennaro Arganese, dopo Pascucci il più anziano in quella stanza. Era un mastino della vecchia scuola, amico personale di Falcone e ai tempi d’oro era chiamato “Pugno di Ferro” per i suoi metodi di conduzione degli affari.

“Prego, Don Arganese, avete facoltà di parlare.”

“Ringrazio Vossignoria, la voce era bassa e roca a causa di un intervento alla tiroide effettuato alcuni anni addietro ma non faceva altro che rendere ancora più temibile quell’uomo che a quasi settantenni, non solo non rinunciava al timone della Famiglia Arganese saldamente stretto tra le sue mani ma era ancora una montagna che con la sua mera mole incuteva timore in chi gli stava intorno. Gennaro e Salvatore Pascucci si conoscevamo da anni e, al di fuori delle Sedute, si davano del tu, confidenza che il vecchio Arganese concedeva solo a lui e alla nipote prediletta, e vorrei andare dritto al cuore del problema. Il giovane Don Masucci, giovane non aveva nessun significato offensivo in quella circostanza ma si limitava solo ad affermare un dato di fatto, parla di motivazioni personali ed io mi chiedo, chi può avere delle motivazioni personali per agire così contro di noi? Milioni di persone probabilmente, se teniamo conto del volume e della natura degli affari trattati in questi anni dalla Seduta e dalle Famiglie che la compongono. Io direi che si tratta di una lista troppo lunga e il tempo che ci vorrebbe per un’indagine potrebbe essere altrettanto lungo. Don Masucci questo lo sa bene, e se ha fatto una simile affermazione, è perché ha qualche sospetto. Nel silenzio che seguì, tutti gli occhi si puntarono su Masucci che rimase impassibile. Don Masucci  sa anche che, se non è stata un’Agenzia Federale a fare questo, perché come giustamente notava in un arco di tempo così lungo come quello che è intercorso dall’inizio di questa storia ad oggi saremmo venuti a conoscenza già di molte cose,  solo qualcuno di vicino alle Famiglie può essere riuscito in tale impresa. Dico bene? Masucci, in osservanza del rigido protocollo non rispose ma quel protocollo non gli vietava di accennare un si con il capo e sottolinearlo con il suo sorriso sbarazzino, cosa che provocò un’esclamazione soffocata ai presenti, persino a Don Pascucci. Come tutti voi sapete, cari cugini, tra noi vige un patto lealtà e non-belligeranza che è in vigore dai decenni ed è questo patto che ci ha evitato la fine di tanti altri clan e associazioni simili alla nostra. Abbiamo osservato sempre il Patto, rispettandolo, onorandolo, facendo delle sue regole il fondamento delle nostre vite, come capi e come uomini. Il Patto non riguarda solo il  business ma anche e soprattutto la sfera privata. La rigidità dei controlli sui nostri soci esterni è tale che c’è un solo modo per cui qualcuno vicino a noi abbia potuto piazzare degli uomini spiare le nostre mosse e poter condurre così una campagna di terrore contro di noi: non si tratta di qualcuno vicino a noi ma di uno di noi; stavolta le esclamazioni non furono soffocate ed Arganese continuò a fissare negli occhi Masucci, con l’espressione di un rapace che si sforzasse di non balzare sulla preda. Si può giocare sulle parole quanto si vuole, Don Masucci, ed usare tutti i salamelecchi del mondo per tentare di addolcirle ma il significato delle sue accuse è piuttosto chiaro. Se ha un nome in mente, chiedo che sia detto immediatamente e che siano date come minimo prove più che concrete per supportare un’accusa che non solo rischia di essere infamante ma potrebbe ledere l’equilibrio alla base della Seduta stessa. Vossignoria, con il vostro permesso ho finito.”

Subito Pascucci, ringraziato velocemente Arganese, passò la parola a Masucci che, per nulla scomposto: “Grazie per il diritto di replica, Vossignoria e voi, caro Don Arganese, non era sconveniente utilizzare un termine come il caro, che esprimeva un affettuoso rispetto per un boss più anziano o particolarmente vicino ma avrebbe potuto sembrarlo in quell’occasione, nel momento in cui si doveva dare spiegazioni di quanto si era affermato poco prima, avete ragione su tutto: l’insinuazione che ho lanciato non è cosa da poco ma nemmeno quanto sta accadendo lo è e vista la gravità del momento, devo permettermi per forza di cose d’apparire brutale se necessario, pur di arrivare alla verità; mi chiedete di spiegarvi chi e perché, e soprattutto come io ci sia arrivato? Vi prego, allora, lasciate che a parlare sia il mio Picciotto. Indicò con la mano l’uomo seduto al suo fianco. Questa era una stranezza in termini di cerimoniale. I Picciotti erano i luogotenenti più fidati dei capi che li portavano con sé alle Sedute. Non era strano che parlasse ma lo era a quel punto del discorso. Il permesso di parlare ai Picciotti doveva essere prima dato dal Maestro che dichiarava che ad un certo punto anche essi potevano richiedere di prendere la parola ma l’usanza voleva che fosse comunque il loro boss a richiedere il permesso per loro. Chiedo a Vossignoria che possa parlare, e spiegare il perché dei miei sospetti.”

Pascucci rifletté bene su quanto avrebbe detto di lì a poco e nel prendere la decisione, gli fu d’aiuto l’occhiata che gli aveva lanciato di sottecchi Arganese. “Sentiamo dove vuole arrivare”, sembrava avergli detto e conosceva troppo bene Gennaro per equivocare.

Pascucci dette il permesso.

“Molto bene, stimati cugini, onorevoli Capi delle Famiglie Arganese, Consalvo, Galluzzi e Pascucci, permettetemi di presentarvi il mio generale d’armata, così come lo chiamo io, Mr. Match Malone. Gli altri Picciotti erano preoccupati. Conoscevano Malone ed i suoi metodi. Persino Muscianisi, il Picciotto di Arganese lo guardava con un certo timore. Il Signor Malone si occupa della gestione sul territorio del bussines dai due anni ed era stato scelto dal mio defunto e compianto Zio Pasquale in persona. Le sue credenziali, sono a dir poco ottime: è stato nell’Intelligence per sei anni e prima ancora nell’Esercito per quattro; è un vero esperto in materia di infiltrazione e spionaggio. Prego, Picciotto, parla pure, ti ascoltiamo tutti.” Masucci gli rivolse un sorriso bonario, segno che Malone poteva iniziare e che ricambiò con un rispettoso inchino del capo.

“Signori, non aveva usato il titolo convenuto ma essendo un non appartenente alle Famiglie e visto la deferenza usata, questo fu tralasciato, da un anno, qualcuno ha formato un gruppo armato di vigilantes che stanno agendo per destabilizzare l’equilibrio tra le famiglie, indebolendole in modo da renderle vulnerabili ad un attacco finale che verrà effettuato da voi stessi.Erano tutti increduli a quelle parole, persino Arganese. Solo Masucci sorrideva a suo agio. Questo perché il piano, prevede proprio che voi siate spinti a sospettare l’uno dell’altro. Le conclusioni di Don Arganese sono logiche ed infatti ogni cosa è stata fatta proprio per sembrare che solo uno di voi possa aver orchestrato tutto. Anche se non fosse sfociato in guerra aperta, il sospetto vi avrebbe eroso dall’interno, rendendovi insicuri ed inefficaci nelle decisioni di comando.

I sospetti che il sabotaggio sia partito dall’interno sono iniziati con la disgregazione degli Alvarez, i messicani che cinque anni gestivano i traffici sulle strade e che facevano da cuscinetto tra voi e le altre piccole bande. Se il gruppo di vigilantes di cui parlavo prima non avesse avuto un appoggio interno, avrebbero dovuto iniziare il loro lavoro dalle gang più piccole, quelle di giamaicani, coreani ed albanesi che i messicani controllavano per conto nostro. Invece non è andata così. Ogni volta che i vigilantes hanno colpito, lo hanno sempre fatto ottenendo un risultato. Sapevano dove conservavano droga ed armi, conoscevano ogni spostamento per lavoro che facevano, persino il sistema con cui scambiavano la droga con i soldi quando rifornivano i pusher. La disgregazione dei gruppi più piccoli è stata quasi consequenziale. Hanno tentato di farsi la pelle l’un con l’altro per prendere il posto dei messicani e sono state sgominate facilmente dai nostri esperti.

C’è solo una spiegazione per quanto accaduto: in casa Galluzzi c’è un traditore.”

S’alzò un indignato coro di proteste, sia dei boss che da parte dei picciotti, persino il Maestro saltò in piedi e se le regole non avessero proibito di portare armi nel luogo della seduta, Malone sarebbe stato crivellato di colpi sul momento. Arganese stringeva i pugni e serrava le mascelle, Galluzzi aveva gli occhi di fuori ed inveiva nel dialetto insegnatogli dai genitori.

“Vi prego, vi prego! Masucci, un ampio gesto delle braccia a richiamare l’attenzione, tentò di placare gli animi. CUGINI! Non siamo dei bambini! Siamo tutti dei capifamiglia, con tutti gli onore e gli oneri che ne conseguono! Questo ci obbliga a prendere atto della realtà anche quando questa non ci piace e non crediate che Malone abbia mosso questa accusa senza aver portato delle prove, prove che per altro implicano anche un membro della mia famiglia.”

La confusione sembrava regnare sovrana ed ormai i protocolli e le cerimonie di quel vecchio rituale erano stati accantonati.

“Allora che parli!” Arganese zittì tutti con il suo imperioso gesto, persino Pascucci ebbe un momento di timore. Subito Malone proseguì, prendendo la palla al balzo:

“I messicani erano controllati da Domenico Galluzzi, nipote di Don Paul Galluzzi. Domenico aveva il compito di fare da tramite tra gli Alvarez e la Seduta e conosceva ogni particolare sulla loro organizzazione. È stato lui a permettere a questo gruppo di vigilantes di sgominarli rapidamente.”

“Ma perché l’avrebbe fatto?” Chiese Paul Galluzzi che a stento riusciva a contenere la propria ira.

“I conti della vostra famiglia, Don Galluzzi, sono stati alleggeriti di alcune centinaia di migliaia di dollari. Ha capito bene. Lo so perché abbiamo controllato i vostri registri. La prego, capisco la sua indignazione ma dovevamo portarle delle prove. Domenico ha cominciato a spendere cifre consistenti, in gioco d’azzardo, scommesse, e ha acquistato una villa a Malibù, senza dire nulla alla famiglia. Per lui è stato facile far sparire quelli che, alla fine, per la vostra contabilità, sono una piccola parte dei vostri guadagni. Domenico aveva numerosi debiti, Don Galluzzi a causa dei suoi vizzi costosi ma è sempre riuscito a tenervene all’oscuro facendo spesso valere il proprio cognome con i creditori che però alla fine erano divenuti troppi. Galluzzi non ha agito da solo, perché non è stato lui ad organizzare il commando che ha fatto fuori gli Alvarez e tutti gli altri.”

“E chi allora?” Chiese Pascucci.

“Mia cognata Anna Laura.” A parlare, con tono greve, era stato Masucci.

“Il Sig. Masucci dice il vero, proseguì Malone, estraendo dalla giacca un registratore, sua cognata ed il nipote di Don Paul hanno una relazione, che va avanti da circa quattro anni. Don Masucci lo sapeva, perché era stato suo cugino, il defunto Sig. Mark a dirglielo.       La questione era stata mantenuta, per ovvi motivi, tra le mura domestiche. Mark aveva bisogno di un consiglio e si fidava solo di suo cugino. Quando abbiamo registrato questo, una conversazione telefonica avvenuta pochi mesi prima che il clan Alvarez venisse smantellato, abbiamo cominciato a capire molte cose.” Premette play, sollevando il registratore per assicurarsi che tutti potessero sentire.

-Stasera ci dobbiamo vedere,” era la voce di Domenico  Galuzzi, inequivocabilmente rotta dall’agitazione e dalla paura,” dobbiamo parlare di quanto abbiamo fatto! Stiamo giocando ad un gioco pericoloso e se qualcuno dovesse scoprirci…-

- Non essere ridicolo!” In tono di fredda irritazione Anna Laura. Tutti i sacrifici che abbiamo fatto per prepararci a questo, non penserai mica che li butterò al cesso perché stai avendo dei ripensamenti.-

- Laura, il corpo di tuo marito è ancora caldo! Gli occhi della famiglia sono puntati su di te che sei la sua vedova. Non voglio attirare troppa attenzione.-

-Tu devi solo fare quello che ti ho chiesto al resto penseranno gli specialisti che ho ingaggiato …-

Spense il registratore e proseguì: “ La conversazione che sentite è stata registrata dopo che abbiamo messo il telefono di Anna Laura sotto controllo. Don Masucci mi aveva chiesto di occuparmi della cosa, per onorare la memoria di suo cugino voleva scoprire con chi la cognata intratteneva una relazione. Mark sapeva che c’era un altro uomo ma ignorava chi. Laura ha aperto, mediante una società che Mark le aveva intestato, un conto in Belgio, a Bruxelles per la precisione, e lì ha fatto diversi depositi, inesistenti stipendi per altrettanto inesistenti lavoratori. Avevamo già dei sospetti sul Sig. Domenico ma non ne capivamo il movente, visto che quello dei debiti da solo non ne costituiva uno tale da spingere un uomo a rischiare tutto mettendosi contro la propria famiglia. Il trasferimento di contanti, la villa a Malibù e le telefonate però ci hanno cominciato a chiarire il quadro.”

“Ma perché?” Chiese Arganese improvvisamente interessato a quelle congetture.

“Il movente più antico del mondo: vendetta; il padre di Anna Laura, Matteo Mastropaolo è stato uno dei boss usciti sconfitti dalla guerra alla Seduta di quindici anni fa e sappiamo tutti che ad ucciderlo fu un uomo dei Pascucci. Morirono anche i fratelli di Laura: Vincent e Charles; il matrimonio con uno di casa Masucci era un modo di ricomporre la frattura con quanto rimaneva di quella famiglia e placare eventuali tentativi di vendetta. Purtroppo però Anna Laura non era d’accordo con la natura di tale decisione e l’ha assecondata solo per i suoi scopi. Ha utilizzato Mark per i suoi scopi ma Mark non era nella posizione chiave che le serviva e così agganciò il nipote di Don Galluzzi, una preda facile per una bella ed intraprendente ragazza. Sospetto che Mark abbia capito che dietro al tradimento ci fosse qualcosa di più ed è probabile che il suo sfortunato incidente sia stato qualcosa di diverso. Laura ha una piccola casa di produzione cinematografica ad Holliwood e lì ha assunto un uomo, John Petrovic. John è il nipote di un boss della locale mafia russa. Pubblicamente è uno degli amministratori della ditta ma sono convinto che Laura abbia messo a disposizione dei russi i suoi studios per i loro affari e in cambio questi gli abbiano fornito uomini e mezzi per la sua operazione. A Domenico deve aver promesso soldi ed una vita facile dopo che la Seduta verrà smantellata. Se non credete ancora alle mie parole, sappiate che tutto è stato documentato. Foto, conti, intercettazioni. Se Don Masucci ha aspettato fino a questo punto per parlarvene è stato proprio perché voleva avere l’assoluta sicurezza.”

Malone scrutò i mafiosi uno per uno ed ebbe la certezza di averli tutti in pugno.

Masucci dovette trattenere un sorriso di soddisfazione per mantenere l’aria contrita e seria che richiedeva il momento.

 

V Villa Wayne, Line Count, Gotham City, New York City – 21 anni prima.

 

Quando la luce delle torce elettriche illuminò la galleria fu una scena da incubo quella a cui assistettero Thomas ed Alfred. L’aria stessa pareva essersi animata tramutandosi in uno squittente turbinio di ali ed artigli. I pipistrelli erano da per tutto ed il corpo di Bruce ne era per la maggior parte coperto. I suoi occhi erano sbarrati, lo sguardo perso, la bocca contratta.

Tom si calò con una corda trovata nel capanno, mentre Al si sarebbe sincerato che reggesse.

Non c’era voluto molto ad Alfred per capire che Bruce si era diretto verso quella parte del giardino. Thomas era stato preoccupato quando s’era reso conto che il figlio non era in casa. Era sempre ansioso ed iperprotettivo nei suoi confronti. Due anni prima Phelton Howards aveva perso il suo Ricky a causa di un rapimento. Rapimento finito male per il povero bambino. Tom vedeva ancora il corpo del piccolo, ricomposto alla bene e meglio, lì all’obitorio dove aveva accompagnato Phelton per il riconoscimento. Avrebbe voluto fargli forza ed invece per poco non si sentì male lui stesso. La ferocia con cui avevano cercato di sbarazzarsi del cadavere smembrandolo brutalmente era a dir poco disumana. Phelton si suicidò dopo sei mesi. Pensò se che se fosse successo anche a Bruce non se lo sarebbe mai perdonato. Lo aveva chiamato, perché salutasse Alfred ed invece non era venuto. Lo aveva mandato a cercare dalla cameriera ma niente. Ed ora era lì, talmente sotto shock da non rispondergli. Cacciò via i pipistrelli da lui. Li cacciò lontano urlando e agitando le braccia. Prese l’amato figlio tra le braccia e lo strinse forte a sé.

 

Bruce s’accorse a malapena di cosa accadde. Di come lo assicurarono alla corda per tirarlo su. Di come fu ripulito velocemente e messo a letto. Della visita del Dott.Wertham il medico di famiglia che lo visito con grande cura. Non s’accorse dell’arrivo di sua madre, della lite con il padre, delle loro visite in camera e di nuovo delle liti.

“Puoi uscire, ora.” Il bambino voltò lentamente il capo, incontrando il volto severo di Alfred, la bocca incurvata in un improbabile sorriso. I due si fissarono un po’, senza dire nulla. Alfred stava seduto vicino il letto di Bruce, la sedia al contrario, le braccia incrociate poggiate sullo schienale.

“Se ne sono andati?”

“Si e non serve che tu rimanga ancora lì.”

“Torneranno?”

“Sono animali, Bruce. Animali magari disgustosi ma di certo incapaci di arrivare sin qui.”

Bruce emise un sospiro di sollievo e chiuse gli occhi.

“Papà mi ha salvato.”

“Tuo padre è in gamba.”

“Perché la mamma gli grida contro allora?”

“Perché è spaventata e le persone quando sono spaventare, delle volte, si comportano in modo strano.”

“Non è colpa sua.”

“Vedrai che lo capirà.”

“Alfred, puoi chiamarli? Puoi farli venire qui?”

“Certo.”

“Ti ringrazio.”

 

Quando gli Wayne entrarono nella stanza, Bruce scoppiò in lacrime. Singhiozzò tra le braccia dei genitori per molto tempo. Alfred scese al piano di sotto e presa la sua giacca dalla cameriera, uscì per andare a prendere l’auto. Era un momento privato quello ed era bene che non ci fossero estranei a condividerlo.

 

VI Gotham City, Collora Buliding, confine tra la City e N.Y.C. – I giorni nostri.

 

La notte era prossima a finire e con lei i sogni e le paure degli uomini. S’accese una sigaretta, Robert Herrera. Ormai gli Alvarez erano fuori dai giochi e se la gang dei Chicos voleva avere una possibilità di succedergli nel controllo dei traffici illeciti per conto della Mafia, doveva darsi da fare. L’incasso delle scommesse clandestine era stato portato lì, nascosto in dei container di vivande destinate al Tarascon’s Petite Paris restourant. Dal ristorante, per tutta quanta la settimana, i soldi sarebbero stati mandati alle imprese di pulizia delle famiglie e mediante loro poi depositati in banca.

Quelli dell’F.B.I. tenevano d’occhio tutte le attività italiane, ristoranti compresi e non pensavano che invece, la Mafia, potesse servirsi di un ristorante francese. Robert ridacchiò, divertito.

“Capo, tutto a posto?” Chiese Martinez, uno dei suoi uomini più fidati.

“Si, si. Pensavo ad una battuta che ho sentito al Letterman Show.” Si giustificò. Trovava troppo divertente tutto quel ragionare per luoghi comuni. La Mafia non era più quella dei tempi del padrino e anche se nelle loro cerimonie private potevano ostentare ancora modi risalenti agli anni ’20, nella realtà di tutti i giorni erano un’organizzazione che si occupava di investire il proprio denaro in azioni, prestiti legali, in aziende, comprando case. I soldi per gli investimenti venivano da attività illecite ma erano le piccole realtà criminali ad occuparsi in gran parte della gestione. Anche Herrera non era di certo il tipico latino americano dedito al crimine che si vedeva nei telefilm: niente pantaloni larghi, camice a quadrettini, zuccotti, tatuaggi o musica rap; Herrera aveva una laurea in marketing e scienze della comunicazione, un master in linguaggi multimediali, parlava correttamente tre lingue, amava la musica pop, vestiva casual ed era, a suo modo, un buon marito: fedele, leale, innamorato; ovviamente rimaneva il fatto che era un criminale, che aveva ucciso e lo avrebbe rifatto se necessario, e che ora voleva fare carriera. Antonio Alvarez scomparendo insieme alla sua gang gli aveva fatto il regalo più grande di tutti.

“Grazie mille, Antonio.” Disse tra sé e sé.

“Hey, qualcuno ha visto Manolo?” Robert si voltò verso Javier e gli rispose:

“Sarà andato a controllare se nel vicolo è tutto sicuro. Intanto andiamo.”

I suoi uomini, altrettanto rassicuranti nell’aspetto quanto il loro capo, presero i contenitori e cominciarono ad allontanarsi dai furgoncini usati per il trasporto. Salirono utilizzando gli ascensori del garage. Il guardiano prendeva delle mazzette dalle direzione del ristorante per chiudere un occhio e qualche volta tutte e due.

Erano in troppi, così presero due ascensori: Robert con tre dei suoi ragazzi e Martinez con gli altri due; un piccolo gruppo, del tutto anonimo e dai modi garbati, rigorosamente armato con armi piccole e facilmente occultabili. Non era inusuale che uno dei suoi uomini andasse a fare un giro di controllo del palazzo o dei vicoli, tanto per essere sicuri che i federali o i poliziotti non fossero nei paraggi. Certo, lo avrebbe ripreso per essersi allontanato senza avvertire ma ci sarebbe andato leggero. Non gli piaceva fare il mastino con i suoi ragazzi.

Al trentaduesimo piano, uscì dalla cabina fischiettando il motivetto di Dirty Dancing. Lo aveva rivisto qualche sera prima con sua moglie.

Si voltò e rimase bloccato qualche istante. La spia accesa sulla pulsantiera dell’altro ascensore indicava che doveva essersi bloccato, anche se non a quale piano.

“Chiama Javi.”

“Ora?” Chiese Hernando.

“Ora.” Ribadì Robert. Il corridoio era sgombro. Era l’ala del piano dove si trovava il Ristorante. Dovevano solo raggiungere la cucina e lasciare le scatole nella cella frigorifera.

“Non risponde.” Robert se lo era aspettato. Fece un cenno e i contenitori con il danaro vennero posate a terra. Herrera estrasse la sua semi-automatica e fu subito imitato.

“Cosa c’è che no va capo?”

“Forse niente, Hernando ma mi sembra una strana coincidenza l’ascensore bloccato ed il nostro Javi che non risponde al cellulare. Siamo in un corridoio di servizio che arriva direttamente nelle cucine e non c’è nessuno. Il luogo ideale per un’imboscata.”

I suoi uomini si scambiarono delle occhiate perplesse tra di loro.

“Forse si è bloccato davvero l’ascensore, Capo.” Robert però non era dello stesso avviso.

L’altra cabina aveva ripreso a salire: forse per davvero si era trattato solo di una coincidenza; però Robert Herrera non aveva mai creduto molto nel fato.

Il fumo si riversò subito nel corridoio non appena le porte si aprirono e solo per un soffio i suoi uomini non aprirono il fuoco. Se lo avessero fatto, avrebbero crivellato di colpi i compagni le cui sagome riuscivano ad intravedere dentro l’ascensore. Tutti accasciati a terra.

“Cazzo!” Urlò tra i denti Herrera.

Il calcio sferrato alle spalle colpì Hernando alle ginocchia facendolo piegare, una mano lo prese alla fronte e completò l’opera sbattendolo a terra e colpendolo con un pugno alla bocca dello stomaco.

Mentre Miguel si voltava, prese un colpo portato a palmo semi aperto alla guancia e subito una ginocchiata tra le costole ed un pugno all’arcata sopraccigliare.

S’accasciò a terra sporco di sangue in volto. Troppo tardi Robert tentò di bloccare Carlos. Questi sparò con la sua 15 colpi. Robert temeva che potesse colpire uno di loro. La scena sembrava partorita da un incubo: il corridoio invaso dal fumo, gli occhi lacrimanti, i polmoni che bruciavano, i suoi uomini che cadevano uno dopo l’altro per mano di una figura che si muoveva con una rapidità sconcertante ed una sicurezza inumana. Ogni gesto di quell’ombra, era latore di sofferenza. Ogni colpo, finiva a segno.

Il braccio di Carlos fu messo in leva, proprio mentre Robert lo teneva per la giacca. Il sinistro crack che sentì, era l’articolazione che si rompeva. Herrera rabbrividì nel vedere il suo uomo portarsi una mano alla gola, impossibilitato ad urlare da un colpo alla laringe portato con il taglio della mano.

Ed ora, Herrera, tocca a te.” Era una voce profonda, sussurrata, fredda e rabbiosa al medesimo tempo, la voce del predatore che annuncia alla preda la fine della sua esistenza.

Robert tentò di puntargli la pistola al volto ma stavolta fu il suo braccio ad essere messo in leva.

Se lo trovò dietro la schiena e fu costretto in ginocchio dal dolore e da un calcio.

“CHI SEI?! COSA VUOI?!!”

Lo sai benissimo chi sono. Lo sai benissimo cosa voglio.

“ASCOLTAMI! Gli ringhiò contro, il petto gonfiato dalla disperazione. CREDI CHE NON ABBIA CAPITO COSA STAI FACENDO?! NON FUNZIONERà! TI SEI MESSO CONTRO LA SEDUTA! CAPISCI?! LORO SONO I PADRONI! LORO HANNO IL CONTROLLO E TU TI SEI CONDANNATO A MOR … Il respiro gli si mozzò all’improvviso e l’urlo riempi il corridoio. ARGHHHHH!!! OH DIOOO! OH DIO SANTISSIMO!” Il dito indice di Robert era stato rotto in meno di un secondo.

No, Robert. Non hai capito nulla. Non è la seduta ad essere la padrona di Gotham. Io, sono il padrone di Gotham! Nessuno detta legge, nessuno comanda, nessuno ordina. Questo luogo è mio, mio soltanto e si deve obbedire a me. Avete inondato le strade di droga. Avete portato eserciti di nuovi schiavi dall’est e dal sud-america.

Siete responsabili di omicidi, torture, intimidazioni. Però ora finisce tutto. Tutto. Il perché non deve importarvi. Di alla seduta, Robert, che sono sulla mia lista. Tutti quanti.

Robert finì con la faccia terra, premuta contro la moquette, la bocca piena di saliva che se ne colava fuori.

Rapida l’ombra scomparve, così come da essa era venuta, nell’oscurità ma non prima di aver sussurrato: “ Io sono Batman…

 

 

 

Continua.