Yuri Lucia

 

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Da una vecchia idea di Yuri Lucia.

 

 

 

I Re si succedettero al Sacro Scranno e altri coraggiosi soldati ebbero l’onere e l’onore di battersi in loro nome.

Il Vecchio Viandante, solo tra tutti, cantava ancora delle gesta dei miliziani e solo lui, tra tutti,

ricordava la strada per giungere alla Casa Celeste.

Il Viandante un giorno si recò alla casa del Re allora regnante e cantò per lui: canzoni di coraggio, eroismo ed altruismo senza eguali; il Re ascoltò con attenzione, commuovendosi nel sentir riviver i giorni del dolore vissuti dal padre di suo padre e gli sforzi per riportare pace ed armonia quando esse sembravano per sempre perdute.

“Come potrò io premiare il tuo talento? Chiedimi quello che vuoi, lo avrai, fosse anche un feudo.”

“Sacra Maestà, non sono la fame d’oro e potere che a voi m’hanno guidato ma la voce dell’Altissimo in persona. Ascoltate, ascoltate dalla mia bocca, permettetemi di sussurrare al vostro orecchio, datemi solo questo privilegio, di poter condividere con voi e solo con voi le parole che ho da dire e che nel vostro cuore dovrete serbare.”

Il Re che era rimasto incantato dall’abilità dell’uomo di dar voce alle vicende che appartenevano al passato, decise di accordargli quel privilegio e lo fece venire d’appresso protendendogli l’orecchio.

Ascoltò le parole che l’altro gli sussurrò ‘si che niuno potesse auscultarle.

Il Re prestò attenzione sempre più crescente a quello che l’altro gli diceva e capì subito che le sue parole, che l’affermazione che lo voleva lì per volere del Più Alto per Santità non erano iperbole ma pura verità.

Il Viandante riprese il suo girovagare e nessuno più lo vide. Lasciò solo la raccomandazione al suo amato Signore di non condividere la sapienza che gli aveva elargito. Il Sovrano lo salutò a malincuore, poiché provava per lui una forte gratitudine perché aveva messo nelle sue mani un segreto che avrebbe potuto un giorno salvare nuovamente il Regno se mai si fossero presentati giorni bui come quelli dell’Orda.

Si narra che il cantore, prima di lasciare il palazzo, elargì un ultimo carme, accompagnato dalla sua lira:

“Riposan tutti nella Casa Celeste, sotto l’amorevole sguardo dei lumi notturni e baciati dal sorriso ardente dell’Aurora.

Dormon, in attesa di esser chiamati ad una nuova missione, in attesa che il Regno ed Re, abbisognino della loro fortitudine, del loro coraggio, del loro valore”

Questi i versi che il Cantore Boerio, il senza posa, regalò prima di scomparir per sempre.

 

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Un Nuovo Militiano – Pt IV

 

1

 

L’angusto tunnel a cui le scale conducevano era avvolto dalle tenebre e ben poco la fiamma della torcia riusciva a portare alla sua vista.

Enrico da Fosso Verde si chiese cosa fosse quel budello che stava traversando.

Due uomini avrebbero faticato a passarvi stando uno di fianco l’altro e dunque non era concepito per servire un gruppo numeroso ma solo poche persone alla volta.

Un’uscita segreta per portare in salvo eminenti ufficiali o i famigliari del Re qualora ivi avesse cercato un ultimo riparo alla Zanna Gigante?

Possibile ma qualcosa dentro gli suggeriva non essere così.

Perché lo sconosciuto salvatore che l’aveva sottratto alla morte gli avrebbe indirizzato quel messaggio cifrato? Solo per portarlo lì a percorrere una via di fuga?

Se gli era stata negata l’onore del ultimo respiro sul campo di battaglia allora c’era ben più di questo e dunque tornava ancora al punto di partenza: cos’era quel percorso criptico?

Sentì l’emozione e l’attesa montare prepotenti dentro di lui.

“Dove mi hai condotto, oh sconosciuto guerriero che all’abbraccio della Signora mi strappasti?”

Protese in avanti la torcia e calcolò mentalmente che ormai erano trenta minuti buoni che stava camminando e che doveva essersi allontanato di molto dall’ingresso pervenuto nella Sala dell’Agape, nel Mitreo della Zanna Gigante.

Levante. Si muoveva verso levante e di questo ne era certo perché era a levante che era posta la Spelonca rituale, riproduzione di quella in cui il Vero Dio s’era fatto carne e sangue.

Lo scranno del Celebrante era posto in modo che desse le spalle al sorgere del Sol e quando questo si trovava in alto nel centro del cielo, il suo caldo bacio cadeva idealmente proprio sul centro del Mitreo dove venivano sacrificati i tori in ricordo della Tourectomia celeste.

Cercò di richiamare alla mente i ricordi che aveva di quei luoghi, confinanti con quelli dove era nato ma non riuscì a ricordare molto. Per lui, erano solo stati oggetto di fantasticherie infantili.

“Non perderti mai d’animo, gli diceva Aloisio, il Mastro d’Arme a cui doveva tutto,nemmeno se la speranza istessa andasse perduta!”

“Non lo farò, mai.” Ribadì la promessa fattagli anni addietro.

I passi si susseguirono, uno dopo l’altro, anche se ad un certo punto si trovò costretto a spegnere la torcia.

Il soffitto s’era abbassato e non v’era traccia di sfoghi per il fumo. Quando aveva realizzato quella verità s’era trovato di fronte alla non certo facile scelta di dover tornare indietro, abbandonando una cerca di cui non conosceva l’oggetto, o proseguire nel buio, senza più l’ausilio degli occhi.

“…La via che sta al di là dello sguardo ed in cui ci si arriva affidandosi non ai sensi ma alla fede.” Quel verso gli aveva disvelato essere il Mitreo il nuovo punto di partenza del suo pellegrinaggio ed ora assumeva un ulteriore significato.

Invocò silenziosamente l’aiuto di Dio e, smorzata la fiamma proseguì, avanzando prudentemente, sondando il terreno con la punta del piede prima di posarlo completamente, sondando l’aria davanti ed intorno con la torcia ormai ridotta ad un fumante bastone.

Nulla. Era come se si fosse ritrovato in un limbo privo di suono e luce, non un luogo reale ma la materializzazione di un incubo soffocante.

“Sono un Classiare! Sono un soldato di Mitra! Sono uomo e non mi lascerò sopraffare dai timori!” S’ingiunse di proseguire e così fece.

Matilde, Laura, Tancredi, Edmondo, Marcus, i suoi genitori, Aloisio, tutti quelli che avevano lasciato un segno nella sua vita si alternarono nello spazio della sua mente mentre avanzava.

Ripensò ad Alfredo il Leale, il suo nobile Signore, alla piccola e dolce Clelia, alla missione disattesa a causa dell’Orda, agli abitanti del villaggio che nonostante il pericolo si erano fatti carico della sua cura e protezione, alla famiglia incontrata nei boschi e alla crudele perdita da essi subita.

Al fine, il cammino conobbe traguardo e non riuscì a trattenere un sussulto di stupita ammirazione.

 

 

2

 

Era indubbiamente uno slargo quello in cui era venuto a trovarsi, una sorta di sala circolare in cui almeno cinque adulti robusti di costituzione e con tanto di lancia in mano e pugnale al fianco, avrebbero potuto stare uno di fianco all’altro distanziati da mezzo braccio di distanza.

Riaccese la torcia, mettendoci un po’ di più di quanto avrebbe dovuto a causa del buio e si lasciò scappare una mezza esclamazione di stupore.

L’ingresso da cui era passato era sormontato da una sorta di arco ad ogiva nella cui nicchia era stato scolpito un bassorilievo raffigurante quella che sembrava essere la lotta dell’Esercito del Regno contro l’Orda.

Davanti un identico passaggio il cui bassorilievo rappresentava una scena che lo colpì particolarmente. Rimase diversi minuti, tremante, a contemplare quell’immagine: era il Re Santo che dava udienza al Savio Incantatore; quante volte, da fanciullo, aveva sentito i cantori narrare di quella storia, dei giorni bui e di come, alla fine, la speranza fu ritrovata e l’invincibile nemico sconfitto.

Cos’era dunque quel luogo. Deglutì e proseguì, forte del fatto che i fumi della sua torcia erano tollerabili grazie all’alto soffitto. Anche il corridoio che intraprese era più spazioso del precedente e la strada era inequivocabilmente in salita.

La camera a cui pervenne lo portò ad uno stupore superiore al precedente.

Un unico, grande portale innanzi a lui, un portale ricoperto da pannelli di solido bronzo al centro dei quali un umbone circondato da un anello di ferro. Sei in tutto ne contò. Lanciò un’occhiata alla ricerca dei cardini che tuttavia rimanevano nascosti alla vista, segno che si trovavano dall’altra parte. Era la difesa di qualcosa: era giunto allora alla meta del suo viaggio;

la mano tremante sfiorò il simbolo che era inciso su ogni pannello, l’Alpha e l’Omega sormontati dal Feroaro; era il segno dell’inizio e della fine, della nascita e della morte, dell’alba e del tramonto.

Nell’Avesta ricorreva spesso questo tema: “D’ogni cosa sappiamo esistere il suo contrario, e per ognuna d’esse v’è un principio a cui fa seguito una fine ma sappiamo anche che, solo un essere ha in sé contemporaneamente il dritto ed il rovescio, il positivo ed il negativo ed è Lo Spirito Santo da cui ogni cosa proviene e a cui ogni cosa ritorna perché così come v’è una fine per il principio, a seguito della fine v’è un nuovo principio.”

La base della dottrina, della Vera Fede che spiegava come lo Spirito Santo, Aura Mazda, da cui proveniva ogni vita e da cui aveva preso forma il Vero Dio e Vero Uomo, Mitra, fosse il Principio e al contempo la Fine d’ogni cosa e che la morte, non era l’ultima parola ma solo la fine d’un ciclo a cui un altro sarebbe succeduto.

Si segnò rispettosamente la fronte, la gola, la bocca ed il cuore con il segno che riproduceva la forma stilizzata del Sacro Feroaro, le Ali Divine sovrapposte al Fuoco che ardeva senza mai spegnersi.

Come avrebbe aperto il portale? Non v’erano anelli o maniglie visibili e gli umboni non sembravano comodi da afferrare.

Tuttavia chi l’aveva spinto a quella cerca, indirizzandolo sino a quel luogo con un messaggio in codice, sapeva che un modo di passare l’avrebbe trovato perché altrimenti nulla avrebbe avuto senso.

Doveva concentrarsi e pensare, confidando nella ragione, il dono prezioso che era stato elargito proprio da Aura Mazda agli uomini, per renderli ancora più simili ad esso.

La risposta al problema era ancora una volta nella fede, si disse: guardò ai lati e vide che v’erano due pitture murali su ogni muro; erano rispettivamente Cauto e Cautopateo, i Fratelli ed Apostoli del Dio Mitra, i suoi primi soldati, coloro i quali fondarono la Santissima Chiesa del Vero Dio.

Si avviò alla sua destra, e s’avvide subito che il Santo indicava con l’indice verso il basso, cosa contraria a quello che faceva di solito nelle raffigurazioni. Cauto di fatti, dalla parte opposta, indicava con l’indice verso i cieli, così come ci sarebbe aspettati di vedere.

Lo sguardo gli mostrò che una delle piastrelle del pavimento, era leggermente più piccola rispetto alle sorelle e che questo consentiva di inserire le dita tra lo spazio che stava tra essa ed una delle vicine, rimuovendola. Anche le altre furono rimosse, rivelando al suo sguardo un foro che illuminò con la torcia. C’erano quelli che sembravano i bracci d’un ingranaggio, una ruota dentata posta verticalmente rispetto lui e rise, trionfante. Usò la lancia per farli muovere, una spinta alla volta, con infinita pazienza. Era ovvio: solo utilizzando un’arma come quella o l’elsa d’una spada, o il manico d’un’ascia si sarebbe potuto smuoverla e c’era da aspettarselo, perché chiaramente il percorso era consentito solo a chi fosse stato un milite; c’era di più, e ne era certo, qualcuno doveva aver unto l’ingranaggio di recente, utilizzando del grasso, perché anche se faticosamente, riusciva a farlo girare e nel frattempo, così come aveva previsto, il portone s’apriva.

Era ovvio che il suo salvatore senza nome era già stato lì, e per qualche ragione aveva deciso di fargli raggiungere quei luoghi.

Tra poco, ne era ormai sicuro, avrebbe scoperto il perché.

 

3

 

Superato l’ampio portone, salì degli scalini, 108 ne contò, in buono stato. Non sapeva dire quando fossero stati costruiti ma di certo non erano stati usati molto spesso.

Quando fu giunto alla fine di essi, si ritrovò a sbucare in quella che sembrava una cappella, priva di finestre ma provvista di cinque passaggi che lo circondavano, ognuno bloccato da una porta.

Su ogni portone, un segno: il Segugio di Fuco, il Corvo d’Argento, il Toro Lunare, lo Scorpione Bicuspite e il suo segno, il Draco Marino; deglutì e capì che il suo viaggio era prossimo alla fine.

Il soffitto, diviso in spicchi ognuno corrispondente ad un portone, mostrava scene tratte da un racconto, da una leggenda di cui aveva sentito parlare tante volte. Cinque eletti, cinque benedetti pronti a compiere la missione suprema.

Non gli fu difficile operare una scelta e scoprì che il portone non era chiuso a chiave ma che con una spinta poteva essere aperto.

Un criptoportico si estendeva davanti a lui e lo percorse nella sua intera lunghezza, dopo essersi fermato solo alcuni istanti per spegnere la torcia, ungerla nuovamente di grasso ed olio e nel buio, accenderla con le sue pietre focaie.

Incontrò una rampa di scale e cominciò a salirle. Si attorcigliavano a seguire una spirale e capì di essere in una torre e alla sua sommità trovò una grande sala al cui centro stava un’ara.

Infilato nell’ara, un cultro fatto d’oro. Pareva quasi che il blocco di marmo scolpito ed ornato con motivi che ricordavano il moto delle onde fosse una gigantesca guaina per quel pugnale rituale.

Lo estrasse dopo aver passato la torcia nell’altra mano.

Non ci fu un momento di esitazione, anche se l’emozione era così forte da fargli martellare il cuore.

“Che sia vero? Che tutto questo non sia solo l’illusione di chi grida vendetta? Sei davvero lo strumento che disvelerà a me una storia divenuta mito?”

Davanti a lui stava un’armatura. Era imbrunita dal tempo e ricoperta di polvere. Non aveva un disegno particolarmente complesso. Aveva visto altre volte simili protezioni. Erano di foggia antiquata ma diversi guerrieri le utilizzavano ancora. Spesso si trattava di cimeli di famiglia che i soldati di rango superiore ostentavano in battaglia. Tra i guanti stringeva un’asta egualmente segnata dal tempo. Dieci pezzi la componevano, arma compresa. Lancia, elmo, corazza, cintura, schinieri, spallacci, guanti. Con la punta delle dita,tenendo tra indice e pollice il pugnale, tremante, ne sfiorò la superficie. L’armatura era montata su dei sostegni realizzati appositamente per quello scopo, rialzati su di una specie di capitello. Mentre avvicinava la torcia per osservarla meglio vide dietro, incisa nel muro, una scritta. Si fece d’appresso per poter leggere le incisioni in cui era possibile ancora riconoscere un pigmento nero che doveva essere stato applicato per renderle meglio visibili. Con attenzione scorse con gli occhi l’avvertimento che ivi era stato lasciato dagli architetti di quel luogo. Sebbene alcuni termini fossero desueti non trovò difficoltà alcuna ad interpretare quello che c’era scritto. Era un avviso lasciato lì, più di cento anni addietro, per spiegare a chi ne avesse avuto bisogno, come utilizzare l’invincibile arma che in quel momento stava alle spalle di chi leggeva. Subito si diresse all’uscita, rinfoderando prima il cultro nell’ara da cui l’aveva prelevato. Si mosse rapido ma ben attento a non scivolare lungo le scale. Salì, per scrupolo, tutte le altre che portavano alle relative torri ma già dalla prima visitata, quella del Segugio di Fuoco aveva capito che le sue speranze forse erano destinate a rimanere frustrate.

Insieme vennero forgiate, dalla perizia d’un mastro di metalli senza pari tra i suoi contemporanei.

Insieme chi doveva indossarle si presentò all’Santa Adunata.

Insieme vennero benedette dalla saggezza e dalle antiche arti del Savio Magio.

Insieme andranno risvegliate secondo il giusto rituale.

Questi erano solo alcuni dei versi che aveva letto ma erano più che sufficienti. Se non avesse trovato le altre armature che al momento risultavano assenti dal proprio santuario, allora tutta la fatica, tutte le attese sarebbero state vane.

 

4

 

Percorse all’inverso la via che dalla fortezza portava ai santuari e cercò quanto di cui avrebbe avuto bisogno. Trovò torce, scorte di grasso ed olio, delle corde e dei sacchi. Uno di quelli gli sarebbe servito. Doveva trasportare l’armatura in qualche modo. Portarla fuori di lì, lo sapeva, era un azzardo, un azzardo che avrebbe potuto costare al Regno il suo futuro. Cosa poteva fare? Lasciarla lì significava mantenerla in un posto sicuro. L’Orda non avrebbe mai saputo del Dente. Non c’era modo di trovarlo a meno di non sapere cosa si stesse cercando e anche se per un malaugurato, improbabile caso avessero scoperto la fortezza invisibile, avrebbero dovuto avere le necessarie indicazioni per trovare il luogo dove l’armatura aveva atteso generazione dopo generazione. Tuttavia gli avvertimenti su come risvegliarla erano chiari: si doveva raggiungere il Lago Celeste, lì dove tutto era iniziato; lì avrebbe dovuto essere pronunciato di nuovo il giuramento ed eseguito il rituale. Con tutte le armature presenti. Qualcuno lo aveva mandato lì. Qualcuno lo aveva scelto. Qualcuno che forse possedeva già una delle armature o che aveva già scelto chi le avrebbe indossate. Doveva aver fede nel suo misterioso salvatore, benché potesse risultare difficile riuscirvi. Doveva credere che ci fosse un piano, una ragione se non aveva potuto rivelargli altro. Doveva raggiungere il lago. Era certo che lì qualcosa sarebbe accaduto.

Attraversò la distanza tra la fortezza ed i santuari con maggiore scioltezza, impiegando meno tempo ma sempre muovendosi con attenzione. Prese con sé l’armatura, riponendola con cura nel sacco di canapa intessuta, dicendosi che ne avrebbe retto il peso. Mise il fardello sulle spalle e si apprestò a lasciare quel luogo, pronto ad affrontare le incognite del mondo esterno.

Non c’erano molti viveri. I magazzini erano stati svuotati, segno che la truppa d’istanza si era preparata alla marcia verso Invicta, l’ultima marcia per tentare un disperato salvataggio del Regno. Avevano avuto successo? La X Guarnigione aveva fama d’essere imbattibile, al pari del Corpo dei Classiari ma contro i demoni? Avrebbero avuto successo? Quanto avrebbe voluto unirsi a loro nell’estrema difesa del Re, del suo Onore, del Regno e di tutto ciò che rendeva la vita degna d’essere vissuta.

Il Dente era stato costruito sul passaggio che portava ai santuari e quindi, a suo tempo, il Re in carica doveva essere a conoscenza della loro esistenza. Il canto di Boerio parlava chiaro. Non era una semplice storia ma realtà, realtà che ora stava vivendo lui, un giovane Caporale privato dei suoi commilitoni, a cui era stata data una possibilità.

Quel pensiero lo riempì di forza, ricacciando indietro tutti i dubbi e le incertezze.

Rischiare. Questo doveva fare e lo avrebbe fatto perché se il suo benefattore l’aveva salvato, non era certo perché passasse il tempio dilaniato dall’angoscia e dalle paure.

Avrebbe agito, come si conveniva ad un Classiare, con freddezza e sicurezza.

Esplorò, prima di dedicarsi a quell’operazione, ogni palmo di quei luoghi, illuminando con la torcia ogni pittura murale, ogni affresco e trovò la risposta che cercava proprio nella grande volta della cappella da cui si accedeva alla casa di ogni armatura.

In calce ad ogni nicchia, una serie di iscrizioni, apparentemente delle semplici didascalie che spiegavano brevemente la natura di ogni segno dello zodiaco ma in realtà, per chi conosceva i codici militari, un messaggio. Le istruzioni per raggiungere il luogo dove le armature erano state incantate. Quel codice era ormai desueto ma lo si insegnava ancora agli appartenenti ai corpi speciali per prender dimestichezza con i messaggi cifrati e perché, come gli era stato detto, non si poteva mai dire se un giorno o l’altro fosse tornato o meno utile.

Benedisse lo scrupolo con cui gli istruttori dei Classiari si dedicavano al proprio compito, sorridendo al pensiero che lo sconosciuto non lo aveva scelto casualmente.

Caricò l’armatura sulle spalle, ben chiusa nel suo sacco ed iniziò il suo viaggio.

 

5

 

Il piccolo fiume Guizzo s’insinuava in una stretta gola in cui si infilò, attento a non camminare troppo vicino alla scivolosa riva e a non urtare, dalla parte opposta, contro le rocce nel timore di tirarsi addosso una frana.

Lì era al riparo da sguardi, amici o nemici che fossero. Solo un aquila dall’alto, con il suo sguardo acuto, avrebbe potuto scorgerlo. Nessuna vedetta, o arciere, poteva eguagliare tale ipotetica impresa, nemmeno se avesse potuto contare su di un punto di osservazione elevato come quello rappresentato dall’alto ramo d’un albero o la piazzola d’una torre.

In un eventuale scontro, inoltre, poteva contare sul vantaggio rappresentato dallo stretto passaggio in cui anche il nemico sarebbe stato costretto. I demoni utilizzavano prevalentemente i loro lunghi pugnali, delle daghe in realtà, simili alle spade a falcione utilizzate dai popoli delle terre orientali, armi la cui punta era del tutto inefficace e che richiedevano libertà di movimento per essere brandite in modo efficace mentre lui poteva contare sulla sua fidata lancia, il cui capo era capace di penetrare, se mosso con sufficiente forza, anche una corazza.

“La lancia vince sempre sulla spada.” Gli sussurrò alla mente Aloisio.

L’unico modo che una fila di quei mostri aveva di batterlo in siffatto confronto era prenderlo sulla stanchezza o tendergli un attacco da due direzioni diverse e in tal caso, rimaneva il fiume anche se nuotare con quel peso sulla spalle, il sacco legato alla lancia dell’armatura a sua volta assicurata alla schiena, era un suicidio.

Il suo cammino lo aveva quasi portato all’uscita della gola quando gli fu intimato “ Altolà! Ferma il tuo passo, oh tu che a piè svelto cerchi di guadagnare l’uscita da questo budello.”

Il proseguire sarebbe stato arduo. Due uomini ben piazzati e armati di pesanti randelli ed un falcetto formavano un piccolo muro.

Tornare indietro gli era difficile visto che s’avvide d’esser stato seguito. Il suo timore divenne realtà, anche se non erano di certo demoni quelli che lo avevano circondato, mettendolo in trappola.

Erano abbigliati con vesti semplici, tessute in lana grezza, colorate con un pigmento naturale, un marrone scuro tendente al verde, probabilmente d’origine vegetale.

Non avevano grandi protezioni quelli che poteva vedere. Ognuno aveva calato sul capo un infula, dall’aspetto malridotto, a difesa degli avambracci bande di cuoio cotto, anch’esse in mal’arnese. A giudicare da come gli arti di quello più grande per stazza parevano costretti in origine non dovevano essere state le sue.

“Dite, oh cortesi signori, li schernì mostrando di non averne tema alcuna, qual è il dazio richiesto per poter continuare nel mio pellegrinaggio?”

“Tutto quello che possiedi! Ti sembra onesto?” I due risero. Una risata grassa e malevola.

Quello che gli chiudeva la fuga era sempre più vicino. Dovevano averlo seguito da un po’, tenendosi a distanza. Si dette dello stupido perché se fossero stati ben altri inseguitori a quell’ora sarebbe stato già morto.

“Invero una gravosa gabella, un po’ troppo. Non credete?”

Doveva mantenere un atteggiamento disinvolto. Erano dei briganti da poco quelli che vedeva, forse saccheggiatori occasionali, resi arditi dalla confusione che regnava ovunque. Tuttavia non era saggio sottovalutarli perché, lo sapeva bene, anche un essere piccolo come una zecca poteva rappresentare un pericolo per una bestia al paragone tanto più grande quale un cane.

“Gravosa o meno, poche chiacchiere! Mostraci cosa tieni nel sacco!”

Lasciò scivolare a terra la lancia a cui era assicurato il sacco con dentro l’armatura. Lo aprì perché potessero guardarlo.

“Abbiamo un guerriero qui!” Lo prese in giro uno dei due, un ragazzo non ancora ventenne ma con la bocca piena di denti marci ed ingialliti.

Ormai il loro complice era vicinissimo e lui aveva raggiunto il suo scopo, liberarsi del peso dell’armatura guadagnando in velocità ed agilità, e distrarli.

“A terra anche l’asta!” Ammonì quello più grosso.

“Subito.” Fece accomodante, abbassandosi come a posarla e rapido fece scattare all’indietro la lancia colpendo violentemente nei testicoli con l’altra estremità il terzo manigoldo a cui strappò un acuto urlo di dolore. Si voltò facendo ruotare l’arma in modo da non urtare il muro di roccia e, senza esitazione, scattò in avanti, infilando la punta di ferro nella gola dello stupito brigante che ebbe a malapena modo di capire che la sua vita era finita. S’accasciò in terra, gorgogliando con la bocca piena del proprio sangue. Enrico non perse tempo e ancora una volta, estratta la lancia, si voltò, iniziando a caricare i due esterrefatti ladroni che colti dal panico tentarono la fuga.

“Stolti!” Pensò con disgusto. Se avessero avuto un minimo di disciplina, avrebbero tentato una tattica degna di questo nome per sopraffarlo. Lanciò il legno bloccando il suo passo e l’uomo dalle larghe spalle e la grandi braccia finì col volto a terra, trapassato da parte a parte. Il suo corpo slittò per qualche metro in avanti con un sinistro sfrigolio. Superò in corsa il cadavere che aveva poc’anzi fatto e subito fu addosso a quello con i denti guasti. Lo colpì con un calcio alla piega del ginocchio facendolo finire a terra. Perse gli incisivi e si lacerò naso e labbra. Enrico gli impedì di rialzarsi piazzandosi sulla sua schiena, facendola scricchiolare sinistramente. Gli prese il capo per i capelli e portò il suo pugnale alla gola di quello.

“PIETÀ! NEL NOME DI DIO, PIETÀ!” Piagnucolò senza ritegno alcuno.

“Pietà? E tutti quelli che fino ad ora avete rapinato? Mostrasti pietà tu ed i tuoi disgraziati compari a loro? Quanti ne avete uccisi?”

“NESSUNO! GIURO!”

“PORCO! Prima di riempi la bocca invocando Dio e poi spergiuri! Mi credi scemo? So riconoscere le macchie di sangue quando le vedo e sui vostri randelli ce ne sono diverse insieme anche frammenti di cranio e capelli rimasti attaccati ad essi! ASSASSINI! Chi erano le vostre vittime?! Povera gente in fuga dalla guerra! Vecchi e donne! Bambini! Schifoso! Anziché fare il vostro dovere e combattere per l’Onore del Re e la Pace del Regno, anziché brandire le vostre armi contro i nemici, le avete alzate contro la vostra stessa gente! CANE! Vai nelle terre dei senza onore! VAI NELLA DISGRAZIA ETERNA!” Gli squarciò la gola con un unico, rabbioso e preciso movimento zittendolo per sempre.

Tornando sui suoi passi estrasse la lancia dalla schiena di quello corpulento e tornò verso l’armatura solo per vedere che era stata rubata.

 

6

 

Il suo occhio si era fissato sul movimento che aveva colto. Le gambe lo spinsero in avanti, con tutta la forza di cui erano capaci. Non erano tre ma quattro i briganti. Il quarto era rimasto in disparte quando aveva visto la mala parata ed  il verme, insensibile alla sorte dei compagni, aveva approfittato dell’imprudenza d’Enrico per sottrargli l’Armatura.

Il delinquente non sapeva che cosa aveva per le mani ma Enrico si ed era pronto a tutto pur di riaverla.

Quando gli fu abbastanza vicino da poter tirare la lancia questi si girò all’improvviso.

Aveva corso a perdifiato, cercando di distanziarlo e forse era convinto d’esservi riuscito.

Nei suoi occhi c’era il terrore, dettato sia dall’essersi reso conto di non essere riuscito nell’impresa e dal livore che scorgeva sul volto di Enrico.

Enrico dal canto suo s’avvide che quello che aveva di fronte era poco più di un ragazzino e bloccò subito il suo braccio.

“NO!” Non poteva uccidere a sangue freddo un fanciulletto che non riusciva probabilmente a brandire nemmeno un’arma da uomo.

“NON FATEMI DEL MALE!” Cadde in ginocchio, stringendo a sé l’armatura, cercando istintivamente protezione, il capo reclinato al petto.

“Cedi il mal tolto e non avrai da temere nulla.”

“Ho la vostra parola.”

“Hai la mia parola.”

Il ragazzino lasciò a terra la lancia e l’armatura ancora chiusa nel suo sacco.

Enrico s’avvicinò per assicurarsi che i pezzi fossero tutti lì e non ne fosse caduto qualcuno durante l’inseguimento.

Anni d’addestramento e la dura vita del Classiare avevano affinato i suoi sensi e fu quello a salvarlo. Evitò il colpo menato con quella che era una pietra di selce affilata, brandita a mo’ di coltello. La traiettoria mirava alla femorale, in quel momento priva di protezioni.

Sarebbe morto dissanguato in poco tempo.

Gli occhi del ragazzino erano ricolmi di disprezzo misto a terrore per aver fallito l’agguato.

“Tu … fece Enrico incredulo volevi uccidermi. Mi hai attirato con quella commedia per uccidermi.”

“Io … io …” Tentò di giustificarsi ma senza trovare parole che potessero favorirlo nell’impresa.

“Credevo non ne fossi capace. Gli disse serio e freddo Enrico. Non hai compiuto ancora i tredici anni, vero? Credevo non potessi brandire un’arma ma invece mi sbagliavo. Quelli che ho ucciso? Chi erano?”

“I miei fratelli.” Mormorò quello, le lacrime agli occhi.

“Non lo fate da poco tempo. Vi date alla rapina e all’omicidio da molto, nevvero?”

“Loro mi costringevano …”

“E per voi questa miseria, questa disgraziata caduta sul Regno tutto è stata una benedizione. Chissà quanti avete ucciso. Chissà quanti avete massacrato senza mostrare mai pietà. Tu compreso. Tu hai assassinato proprio come loro, vero? Magari anche bambini della tua età.”

“CAMBIERÒ! PER L’AMOR DI DIO, IO CAMBIERÒ!” Implorò tra i singhiozzi.

“Non lo farai. Questa è solo un’altra commedia. Sei marcio dentro ora posso vederlo dai tuoi occhi.

Se ti lascio vivere, tornerai ad uccidere e rapinare. Il tuo sangue rimarrà per sempre sulle mie mani così come la tua esecuzione graverà per sempre sulla mia anima. Sono dannato. Lo so, lo sono dal momento in cui ti ho incontrato perché anche se ti lasciassi andare, poi avrò la responsabilità di tutti quelli che tu ucciderai, per rapina, per avidità. Scelgo e scelgo di guardare negli occhi la vittima del mio pugnale. Dimmi il tuo nome, se mai te ne diedero uno.”

“Gusberto.” Trovò la forza di rispondere tra violenti colpi di tosse.

“Voglio ricordarlo in eterno, insieme alla responsabilità che oggi prendo su di me.”

Fu rapido. Più rapido che poté.

 

7

 

Immerse la lama del suo pugnale nelle acque del fiume e dopo essersi ricomposto ed aver nuovamente assicurato il sacco con l’armatura alla lancia che gli apparteneva, tornò alla sua cerca.

Non avrebbe mai dimenticato quel volto, al pari della piccola vita che non era riuscito a salvare, di Clelia, di Marcus, di tutte le vittime di quella guerra. Solo che quel volto era di un giovane, troppo giovane, e feroce assassino. Passò vicino ai corpi dei tre fratelli maggiori, sputando sopra ognuno di loro. Li aveva lasciati senza sepoltura, perché le bestie ne facessero scempio.

“Non meritate nulla di meno, per l’insana via a cui avete iniziato il vostro congiunto.”

Non aveva sepolto nemmeno Gusberto, perché non poteva permettersi il lusso di perder altro tempo, sebbene questo aggiungeva colpa alla colpa.

Il giorno s’esaurì e lui trovò riparo in una macchia poco distante.

Si sistemò nei pressi d’un vecchio faggio e cercò di socchiudere gli occhi.

Nessun fuoco, per evitare di segnalare la propria presenza. Il mantello in cui s’avvolse avrebbe dovuto bastargli. Usò un po’ di olio misto a terra umida per circondarsi con una barriera che avrebbe scoraggiato qualche serpente o qualche insetto molesto dal tentare di assaggiarlo.

Dormì. Un sonno inquieto ed agitato in cui rivisse ogni attimo dell’esecuzione di cui s’era fatto autore.

Aprì gli occhi prima dell’alba e si rimise in marcia nel gelo mattutino che ancora le stelle brillavano nel cielo e la Luna s’atterdava a tramontare.

Se non avesse saputo che nel cuore del suo Paese la guerra stava probabilmente infuriando avrebbe in provato piacere per quel camminare. C’era una sorta di arcana magia in quell’ora durante la quale la gran parte delle brave persone dormivano ancora. La notte non era stata del tutto cancellata dal giorno ed il giorno doveva ancora prendere forma.

Il bosco che stava fiancheggiando scomparve lentamente e si ritrovò per colline e clivi erbosi, nessun sentiero da poter seguire, solo la la luce del Sole che dardeggiava a levante a dargli un punto di riferimento e dirgli che era ancora sulla giusta vita.

Consumò un frugale pasto a mezzodì, poco convinto nel farlo ma certo che doveva nutrire le membra altrimenti sarebbe caduto a terra stremato.

 

8

 

Rimase diverso tempo acquattato nella macchia, tra foglie di lattuga selvatica, radici nodose e fronde odorose, basso, ventre a terra, osservando con attenzione, scrutando.

Non v’era traccia alcuna di presenza che fosse amica o meno. Doveva esserne certo perché ormai era giunto alla sua destinazione e non poteva permettersi di attrarre qualcuno nel luogo sacro dove era diretto.

Se mai lo avessero scoperto, se mai avessero capito allora le tenebre avrebbero inghiottito tutto e tutti, senza più possibilità d’appello o redenzione alcuna.

Il lago di cui parlava la legenda non era più un meta lontana, un miraggio ma una realtà che stava ormai sotto gli occhi di Enrico che avanzava verso di esso, l’armatura in spalla.

Si fece presso quello che sembrava un antico montante costruito con blocchi di pietra arenaria e rimase lì, a rimirare quello specchio d’acqua, talmente liscio da apparire come un frammento di cielo posatosi su quella sommità, un gioiello incastonato nella roccia.

Si passò una mano tra i capelli e si morse il labbro inferiore.

“Ed ora che farò?” Si chiese. Se le parole lette, e non aveva motivo di credere il contrario, dicevano il vero, non sarebbe servito a nulla essere arrivato sin lì. Non se anche chi aveva preso le altre armature non lo avesse raggiunto.

Si sedette in terra, gambe incrociate e osservò il volo di un falco montano che cercava preda ma che si ritrovò ad ingaggiare un duello per il territorio con un combattivo sparviero.

Le due bestie erano agili e determinate alla vittoria. Entrambe pronte a morire. Il falco sembrò avere la peggio, incalzato dall’audacia dello sparviero ma Enrico aveva capito che il rapace doveva ancora fare la sua mossa. Finse di cadere, vittima del becco e degli artigli dell’altro solo per riprendere quota in una parabola ascendente che lo proiettò verso il ventre del nemico.

Non ci fu più scontro. Solo uccisione. Doveva essere un veterano, pensò, o comunque molto astuto.

Gli dispiacque un poco per lo sparviero ma il falco aveva vinto, dimostrandosi più forte ed abile ed ora il privilegio di cacciare in quei luoghi era suo. Fin al giorno in cui qualcun altro non lo avesse sfidato. La natura appariva crudele delle volte ma esisteva un equilibrio ed il suo mantenimento richiedeva sacrifici.

Poggiò la schiena alle pietre dopo essersi assicurato che il montante fosse solido e non vi fosse rischio di vederselo rovinare addosso.

Rimase così per un po’.

Nessun pensiero. Nessuna preoccupazione. Sospeso nel silenzio di quel luogo.

 

9

 

La colonna di demoni con il turbante attraversò la pianura sottostante. Ringhiò per la frustrazione. Avrebbe voluto ucciderli tutti. Era un gruppo di cacciatori, non di guerrieri. Cercavano sopravvissuti per ucciderli. Non avevano ceppi, corde o gabbie trainate da cavalli. Morte. Solo quello recavano seco, proprio come cent’anni or sono i loro antenati avevano portato al Regno. Solo morte.

Non poteva seguire il proprio istinti di guerriero perché avrebbe segnalato il lago ma già quelli si facevano d’appresso ad una sorgente che sgorgava fragorosa dalle rocce.

“Cani.” Mormorò, mentre cercava di rendersi invisibile appiattendosi a terra.

Uscirono dalla sua visuale, probabilmente stavano riempiendo le bisacce e si stavano rinfrescando. Si riposavano dopo aver ammazzato chissà quanti innocenti.

C’era un piccolo sentiero che partiva proprio alla destra della sorgente e salendolo si sarebbe arrivati sulla sommità del piccolo altopiano.

Se lo avessero imboccato. Ne aveva contati dieci. Nessuna possibilità d’errore alcuna. Dieci. Il che significava che sarebbe morto per certo in uno scontro. Se fosse accaduto sarebbe stata la disfatta per il Regno e l’Armatura Sacra sarebbe andata forse perduta o peggio, fatta bottino di quegli sciacalli.

Di contro, se fosse rimasto nascosto, anche se era lo scontro quello che più di tutto bramava in quel momento, allora avrebbero trovato solo il Lago dei Lumi e non ne sarebbe venuto danno alcuno, o almeno così credeva.

Possibile che potessero profanarlo con la loro sozza presenza?

Era un’eventualità che non aveva previsto ed improvvisamente si chiese cosa avrebbe potuto fare.

Anche tendere un’agguato era impossibile. Il luogo offriva scarsi ripari. Avrebbe tradito subito la sua posizione dietro l’unico frassino presente e dietro la cui corteccia ricoperta di muschio aveva trovato nascondiglio. Chiuse gli occhi. Non aveva nemmeno un arco e, anche avendolo, quanti ne avrebbe abbattuti? Uno, due al massimo. Due erano una stima ben oltre l’ottimistico. Forse non sarebbero saliti. Tutte quelle fantasie che si stava facendo non avevano senso. Un po’ d’acqua. Questo volevano i porci la sotto e se ne sarebbero andati via, a continuare la loro atroce missione senza curarsi di quello che c’era alla fine del sentiero di lato. Pensò anche che poteva ucciderne uno usando la lancia come giavellotto. L’aveva già fatto ed era molto bravo in quella manovra da classiare. Uno trafitto, caduto in terra. Un sasso nell’altra mano da scaraventare in faccia ad un altro per sorprenderli, recuperare velocemente l’arma e poi servirsene per ucciderli tutti. Non poteva essere così semplice. L’avrebbero circondato, l’avrebbero attaccato con spietata ferocia da ogni lato fino a sfinirlo. Fino a costringerlo a infilzarsi da solo contro i loro lunghi coltelli. Sputò in terra quando sentì il vociare che proveniva dal sentiero. La sorte non lo stava aiutando.

Dette un colpo di nuca contro la corteccia e pregò: “ Oh Mitra, tu che sei Vero Dio e Vero Uomo, carne della Beata Vergine, Spirito del Più Alto Per Santità. Tu che conservi nel Sacro Cuore la Fiamma Imperitura del Feroaro. Tu che salisti fin sulla Luna per offrire al Mondo l’Uro in Olocausto. Tu che riunisti intorno a te i tuoi Discepoli e ne facesti i Tuoi Soldati. Tu che sei morto, come ogni uomo, nel dolore e nello strazio e che risorgesti dalla Tuo stesso sepolcro, aiutami, oh Padre misericordioso, Fratello nella sofferenza, Duce nella battaglia. Ispira saggezza alla mia mente. Infondi vigore a queste membra. Fammi audace e produente al tempo stesso. Guida la mia mano ed io, con Te, non avrò nulla da temere.”

I cacciatori avevano terminato la loro salita. Ormai erano prossimi al lago che salutarono con una serie di esultanti latrati, simili a quelli emessi da una belva feroce.

Cosa volevano? Enrico s’azzardò a guardare da dietro il frassino e capì. Si stavano privando delle vesti per un bagno. Volevano immergersi nel lago. Cosa sarebbe accaduto? Cosa sarebbe successo? Poi vide uno di loro, srotolare qualcosa. Una sorta di tappeto ricco di arabeschi, un damscato d’una bellezza la cui provenienza pareva impossibile attribuire alle mani di quei demoni. Trasse da un sacco alcune candele ed una ciotola in cui verso un po’ di terriccio preso lì vicino.

Era un rito. Stavano per compiere un rito la cui funzione gli era sconosciuta e poi capì che non era il caso che li portava lì. Quel luogo era la loro meta.

“Sapevano?!” Si chiese spaventato.

Prima che una delle candele venisse accesa, quello che era il celebrante finì con la faccia nella ciotola. Un’ascia da lancio infilata nella schiena. Un urlo poderoso che sovrastò per un istante quelle di sorpresa dei demoni.

L’uomo che comparve dallo stesso sentiero e che li aveva presi alle spalle, brandiva un’ascia da combattimento che fece roteare più volte. Grande era la mole del suo corpo ma si mosse ugualmente con grande rapidità verso di loro.

Enrico seppe subito cosa fare.

La sua lancia prese alla schiena un demone ed il suo pugnale s’infilò nel cervello di quello che gli stava accanto. I demoni avevano abbassato la guardia e nello spogliarsi avevano posato i ricurvi coltelli. Enrico e lo sconosciuto li presero da due lati opposti, colpendo con furia omicida ispirata da Mitra istesso.

Si mossero di concerto, come se fra di loro ci fosse un tacito accordo. Enrico e l’altro recuperarono le rispettive armi e e le lanciarono nuovamente.

Una lama quasi colpì Enrico al collo ma riuscì a svuotarsi prontamente di lato e ad infilzare il nemico, facendogli arrivare la punta dell’asta nelle cervella attraverso il palato. Lasciò cadere il corpo a terra ed ingaggiò uno scambio di colpi, pugnale contro pugnale, con un demone che era particolarmente abile nel maneggiare quell’arma letale. Ci furono un paio di parate ed Enrico sentì con orrore che il Demone gli aveva afferrato il polso con la mano libera. Gli pestò il piede con tutta la forza che aveva, smorzandogli il feroce ghigno di vittoria e sputandogli negli occhi. Colpì con un veloce calcio basso il ginocchio spezzandoglielo, si liberò della presa ed affondò il pugnale tra le coste, verso il cuore.

“Crepa!” Gli sussurrò pieno di disprezzo.

Fu una mattenza incredibile ma alla fine i due erano trionfatori. Il grande uomo spaccò in due il cranio dell’ultimo sopravvissuto e poi, dopo aver colpito con un calcio il corpo a cui la vita era stata strappata, estrasse l’arma provocando la fuoriscita di sangue che s’estese intorno a quel capo martoriato come un macabro stagno scarlatto. Alcuni pezzi d’osso volarono, insieme a capelli e lembi di carne e pelle.

“Siamo vincitori.” Eclamò incredulo e gioioso Enrico.

“Siamo vincitori.” Confermò con un sorriso quello.

I due si fissarono per un po’, respirando pesantemente, senza dire nulla.

“Sei tu che mi hai portato sin qui, nevvero?” Chiese diretto.

“Si.” Rispose semplicemente l’altro.

Decisero di ammassare altrove i corpi, perché quello era un terreno sacro. Non era bene rimanessero lì.

Enrico aveva molte domande da porre al suo salvatore ed era certo, stavolta avrebbe ottenuto delle risposte.

 

 

Continua