Yuri Lucia
Da
una vecchia idea di Yuri Lucia.
C’era una volta, tanto tempo fa, in
un terra lontana, lontana …
Un Regno sorretto da una stirpe di
forti Re Guerrieri, famosi in tutte le terre per le proprie virtù morali e
militari.
Il Regno aveva affrontato la sua
ora più buia respingendo un’Orda di mezzi demoni che, da un aspro deserto che
ne lambiva insidioso i confini, aveva lanciato contro di esso una sanguinosa
offensiva. Quando le speranze erano sul punto di cedere e la popolazione pesantemente
decimata, priva della possibilità di raggiungere un luogo sicuro dalla furia
degli invasori, si stava preparando all’ultimo, eroico contro attacco, una luce
potente e dorata si levò, così forte che i nemici non riuscivano a fissare il
proprio sguardo su di essa.
I guerrieri che vennero dalla luce
inflissero ai demoni grandi patimenti e gli imposero un pesante tributo di
sangue, al punto da minarne l’arrogante sicurezza con cui fino a quel momento
avevano saccheggiato, stuprato ed ucciso.
L’esercito si riorganizzò e al suo
fianco si levarono tutti gli uomini del Regno in grado di reggere in mano una
spada. Questa coraggiosa armata s’unì ai salvatori d’oro e sotto la loro guida
ottennero la vittoria e la salvezza.
Grande fu la gioia ed il Re Santo
che sedeva sul trono proclamò i eroi i coraggiosi e potenti soldati che avevano
condotto l’esercito ed il popolo alla vittoria.
Venne dato essi il nome di Aurea
Militia e furono proclamati i “più nobili per virtù ed i più forti per
potenza”; a loro venne dato il titolo di “Grandi Signori della Guerra” e in
loro onore ed in onore della vittoria, fu fatta erigere una Casa adatta a
uomini del loro rango…
Un
Nuovo Militiano – Pt II
1
“Attento,
non farti dimentico di nulla, mio valoroso guerriero.” Matilde passò ad Enrico
la banda che lo identificava come Caporale e questi, con un sorriso: “Come
potrei mai sperare di adempiere ai miei doveri in modo consono, senza la dama
che m’è così cara?” I volti dei due s’avvicinarono e nuovamente le labbra s’unirono
in un bacio che, sapendo forse d’addio, tardò non poco a sciogliersi.
Si
fissarono qualche istante in silenzio ed Enrico sorrise, nel modo più
rassicurante che poteva e, dopo essersi voltato, uscì dalla stanza della
ragazza.
Inutile
farsi illusioni, si diceva. Lei aveva scelto una vita incompatibile con la sua
e del resto, sebbene nessuna legge lo vietasse esplicitamente, anche se avesse
deciso di cambiar vita un’unione avrebbe gravato su di lui, per via della
posizione, in modo tale che alla fine sarebbe stato costretto a chiedere il
congedo. Anche se lo avesse fatto, anche se avesse scelto di seguire quello
strano sentire dentro il suo petto, che gli aveva tolto il sonno più d’una
notte, che lo aveva privato il fiato quando, dopo mesi, s’era nuovamente
trovato davanti la donna con cui era divenuto completamente uomo, anche se lei
lo avesse assecondato rivelandogli di provare le stesse cose e avesse rinnegato
i suoi trascorsi, non era comunque certo sarebbe riuscito a non pensare a come
era vissuta per gran parte della sua vita.
Non
s’era confidato con nessuno, perché temeva il giudizio dei compagni. Tutti i
soldati frequentavano i lupanari e le taverne, anche gli ufficiali. Non era
certo un segreto, o tanto meno fonte di scandalo. Tanto giovani, quanto
anziani, reclute e veterani, celibi e coniugati. Non era nemmeno insolito
avere, tra tutte le meretrici, una a cui si era particolarmente affezionati.
Sicuramente non era nemmeno l’unico ad essersi invaghito di una di loro ma
rivelarlo apertamente era un discorso ben diverso.
Provò
rabbia verso sé stesso. Non tanto per il senso di calore che ancora provava
pensando a lei ma per la paura che ne derivava, peggio, per la vergogna.
“Caporale
Fosso Verde!”
Alzò
lo sguardo da terra e vide il giovane Marcus correre verso di lui. Era arrivato
da poco nella Brigata dei Classiari ed era stato affidato alla sua unità.
Erano
quasi coetanei ed animati dalla stessa volontà di servire il Regno. Ad Enrico
piacevano il suo entusiasmo ed il vigore che metteva in ogni cosa che faceva.
Il
Sergente Tancredi gli aveva detto: “Te lo affido! Tienilo d’occhio ed
insegnagli. Da oggi fa parte della tua squadra e tua è la responsabilità, tanto
dei suoi successi, quanto dei suoi fallimenti, così come della sua vita e della sua morte.”
Quelle
parole erano state lungamente oggetto di riflessione da parte di Enrico. Un
compagno anziano che l’aveva intese commentò: “ Tancredi per certo è un veterano
esperto ed onorato. Se t’affida siffatta responsabilità è perché in te discerne
virtù di comando. Tieni ben da conto quanto t’è stato raccomandato e non
sottovalutarlo”; Enrico sorrise al ragazzo:
“Soldato
Marcus da Belvedere, rallenta il tuo incedere o ti troverai a terra privo di
fiato prima della fine del giorno.” Lo scherzò bonariamente.
“Perdonate
l’andatura poco conveniente ad un soldato,”
fece rispettosamente mettendosi sull’attenti,” ma desideravo far la strada con voi, se questo non vi disturba.”
“Non
mi disturba e anzi, mi fa piacere avere un compagno per scambiare qualche
parola.” Era sincero. Il parlare gli avrebbe evitato di pensare alla sua
impossibile passione.
“Cosa
ne pensate della convocazione del Tenente Edmondo?”
Enrico
gli sorrise, pensando che quello doveva essere l’argomento di molte delle
conversazioni tra i suoi camerati.
“Cosa
ne dovrei pensare? Oh, mio giovane compagno.”
Si sorprese nel rivolgersi a lui in tal modo, se bene senza né scherno, né
cattiveria alcuna, in quanto gli era quasi coetaneo.” Probabile che ci verrà affidata una nuova missione e prima di
affrontarla, vorrà passare in rivista i suoi uomini e dargli le raccomandazioni
del caso.”
“Ma
così improvvisamente? Avremmo dovuto recarci a Marina, per ricevere le paghe e
le nuove direttive. S’è m’è concesso, Signore, non credo trattarsi d’una comune
missione. Sento l’odore di qualcosa di grosso e noi di Belvedere, che siamo
sensibili alle novità e vantiamo illustri presaghi tra i nostri concittadini,
non ci sbagliamo quasi mai. Credo sia tutto collegato alla notizia che circola
da qualche giorno.”
Enrico,
il capo leggermente reclinato da una parte studiò attentamente i lineamenti del
commilitone, per molti versi simili ai suoi: senza particolari che potessero
attirare troppo l’attenzione e generalmente, forse, fuori luogo per uomini
avvezzi come loro al massacro e alla pugna, forse perché troppo rabboniti da
una sorta di innata pacatezza che li impregnava; Marcus aveva, come lui a suo
tempo, già conosciuto il sangue dei suoi simili battezzando la sua asta tra le
carni del nemico e, come lui, s’era adoprato con grande impegno e vigore per
guadagnare un posto tra i Classiari: i primi ad avanzare con la lancia ed i
primi ad andarsene sullo scudo; questo era il loro motto, il motto che li
rendeva famosi tra le armate del Regno come la più audace e, spesso, anche la
più folle. Si chiese se anche quell’aspetto gentile, proprio come il suo,
nascondesse in realtà un’ardente e segreta irrequietezza che, come il foco
sotto le braci, bruciava segretamente.
“Quali
voci? Marcus.” Si sentì uno sciocco perché si rendeva conto che l’essersi perso
dietro l’estasi dei sensi e del cuore lo aveva reso sordo a notizie che
altrimenti avrebbero potuto essergli utili e, per un Caporale, era quasi
imperdonabile venir a conoscenza di qualcosa dopo i suoi sottostanti in grado,
se questa era notizia non secretata ma di pubblico dominio.
“Le
Terre Centrali son state funestate, in questi giorni, da un’insolita ondata di
razzie e violenze, ben al di là e ben più cruente di quelle normalmente
perpetrate da briganti di professione o da occasionali saccheggiatori. Le voci
son davvero preoccupanti,” ad Enrico
venne subito in mente che Belvedere non era molto distante dal confine con le
Contee, le due lande che costituivano le Terre Centrali del Regno insieme alla
città Reale, la capitale, e ai terreni nelle sue immediate vicinanze.” Le azioni criminose si son fatte
audaci oltre ogni dire e pare che un reparto del Regio Esercito sia scomparso
senza lasciar tracce e questo dopo che era stato inviato ad indagare sul
macabro ritrovamento di alcuni corpi, pare appartenenti a contadini che
lavoravano i campi per uno dei Conti, orribilmente straziati.”
Enrico
passò mentalmente in rassegna quelle notizie. Solo un anno e mezzo fa, affrontò
la sua prima missione come miles nei territori sud-orientali che risentivano da
tempo delle prepotenze di una schiera di balordi organizzati che di giorno in
giorno aumentava e c’erano state, poi, una serie di defezioni e ribellioni
nelle terre periferiche del Regno, rivolte anomale, non giustificabili dal
malcontento, visto che da diversi anni si stava vivendo una fase di generale benessere
e la povertà era, se non completamente scomparsa, fortemente ridotta e comunque
di molto mitigata dalla generosità dei più fortunati e da una politica d’aiuti
lungimirante ed illuminata.
Per
la prima volta cominciò a considerare tutti quegli eventi, l’aumentare
progressivo delle missioni, le barbarie, i tradimenti come non accadimenti
indipendenti l’uno dall’altro ma caratterizzati da un sinistro sincronismo.
Che
i disordini cominciassero a dilagare anche in quelle che dovevano essere le
zone più stabili e sicure del Regno, poi, era quasi inaudito.
“Caporale?
Tutto bene?” Marcus era preoccupato per l’improvviso silenzio in cui il suo
superiore in grado s’era improvvisamente chiuso e quest’ultimo, sollevato lo
sguardo su di lui, sorridendo rassicurante, s’affrettò a dire: “Si, tutto bene
Marcus ma ora affrettiamoci. Tancredi non ama i ritardatari e l’idea d’esser
costretto a fare il viaggio verso Marina, pulendo i ponti della nostra nave,
non m’alletta affatto.”
Marcus
ne convenne con lui ed entrambi affrettarono il passo.
2
La
navigazione era divenuta ancora più difficoltosa da quando, imboccata la grande
foce dal mare, avevano iniziato a percorrere la tortuosa estensione del fiume
Spira, il cui nome era ben esplicativo della cagione di tali difficoltà. Ormai
le vele erano inservibili e si doveva andar avanti a forza di braccia, attenti
a che la corrente non li portasse ad arenarsi nelle strette anse del corso
d’acqua o che la chiglia non si trovasse a fregare improvvisamente sul fondo
roccioso. L’addetto alla rilevazione della profondità s’era dovuto legare con
una corda alla polena onde evitare di finire sbalzato all’improvviso mentre di
sotto, i classiari, sbuffavano e sudavano, tutti orgogliosamente chiusi nel
proprio riserbo e concentrati sul ritmo scandito dal tamburo suonato a turno da
ogni soldato. Tancredi stesso, ber dare il buon esempio, s’era cimentato al
remo, incitando i suoi uomini a stringere i denti e dar fondo alle proprie
forze.
“AVANTI!
Siete i coraggiosi ed invincibili classiari! Siete i falchi del mare! Siete
stati benedetti due volte da Dio perché a voi è stato dato in sorte sia di
poter combattere sulle acque, sia sulla terra! Non vorrete mica farmi credere
che un po’ d’esercizio fisico possa fiaccarvi tanto facilmente?!”
“SIGNORNOSIGNORE!”
Era stato all’unisono la loro risposta accolta con un ghigno di soddisfatta
approvazione dal granitico Sergente.
Enrico,
fisicamente meno prestante dei suoi compagni, ad eccezione forse di Marcus, non
aveva ceduto nemmeno un istante, l’orecchio teso a cogliere il battere sulla
pelle tesa del tamburo, le occasionali esclamazioni del tamburino per dar più
enfasi agli accenti ritmici, il respiro dei suoi compagni a fargli compagni,
strappandolo in parte alla solitudine dei suoi pensieri.
Per
un classiare, come per ogni milites degno di tale nome, era obbligo morale
attenersi ai comandi ricevuti dai propri superiori e ancor di più se nascevano
da disposizioni provenienti addirittura dalle labbra o dalla penna del Re in
persona.
Nessuna
obbiezione, nessuna recriminazione quando gli era stato detto che il rientro a
Marina era da considerarsi posticipato a tempo indeterminato, e che la priorità
del IV° Classiari era unirsi al V° e al II° reggimento, ed adempiere alla
missione affidatagli.
Tutte
le domande di licenza erano da considerarsi sospese e a tutti era stato fatto
esplicito obbligo di attenersi al silentium. L’obbligo era sottinteso ogni
volta che si ricevano ordini o disposizioni e il menzionarlo apertamente era il
segno che la missione in corso era di vitale importanza per il Regno.
Cosa
era accaduto? Cosa mai poteva aver indotto il Tenente Edmondo a prendere ‘si
grave decisione? Queste erano le domande che Enrico si poneva, mentre i suoi
muscoli si gonfiavano, estendendosi, contraendosi, imperlandosi di sudore,
scaldandosi mentre continuava a remare.
Per
alcuni istanti la sua mente scivolò nuovamente sul volto di Matilde, scacciando
quasi istantaneamente quel pensiero e poi vide lei: Laura; Laura che
probabilmente era stata data in sposa a qualcuno. Laura che i genitori, se pur
provando simpatie per il ragazzo dai grandi sogni e dal volto gentile,
l’avevano preferita maritata ad un uomo che potesse offrirle una solidità nel
matrimonio che per forza di cose lui non poteva darle.
“Cosa
vai pensando? Sciocco! In un momento ‘si grave la tua memoria corre a cercar
rifugio tra le vesti d’una baldracca e d’una verginella?” Trattenne a stento un
sorriso mentre la voce d’Aloisio rimbombava dentro la sua testa. Quelle
sicuramente erano le parole che il suo amato, vecchio mentore gli avrebbe
rivolto e si disse che avrebbe dovuto fargli visita quando fosse stato
possibile. L’idea di tornare a Fosso Verde in parte l’atterriva, per via della
sua famiglia ma ormai era un uomo e così come se ne era andato a testa alta, a
testa alta aveva il diritto di tornare.
Se
quelli erano gli unici ragionamenti di cui, in quel momento era capace, poteva
significare una ed una sola cosa: come Marcus, aveva avuto anche lui il sentore
che quella missione avrebbe in qualche modo potuto essere ben più pericolosa
delle altre.
L’unica
cosa di cui era certo, era quello che il Tenente aveva comunicato ai suoi
uomini:
“Ci
dirigeremo alla volta di Invicta, dove prenderemo in custodia un carico
importante la cui destinazione ci verrà comunicata in loco dal Gran Maresciallo
in persona.” Nonostante la disciplina
vanto dei classiari, i soldati non riuscirono a soffocare per intero
l’esclamazione venne loro naturale. Edmondo non li rimproverò, consapevole del
peso della notizia data e concesse loro alcuni attimi di tempo per assimilarla.
Proseguì, il Sergente Tancredi al suo fianco, impassibile ed imperscrutabile
come sempre, con il tono di voce che sebbene misurato, lasciava trapelare da
ogni sillaba l’importanza del momento:”
trovandoci a pochi giorni dalla foce dello Spira, navigheremo via mare con le
nostre due navi, muovendoci vicino la costa, fino a raggiungerla e da lì
proseguiremo fino alla Capitale. Sono conscio che di tutti i corsi d’acqua lo
Spira sarebbe il meno indicato ma è il più rapido e si congiunge al Maestoso,
il fiume che passa per la città. Confido nella vostro silentium e nella vostra
leale abnegazione alla Causa del Re e del Regno.”
Tancredi
aveva ragione: navigare un altro fiume sarebbe stato forse più sicuro ma gli
avrebbe preso troppo tempo, mentre l’infido spira era la scelta più logica per
arrivare celermente alle Terre Centrali; il Gran Maresciallo in persona li
avrebbe accolti una volta a destinazione ma cosa gli avrebbe mai potuto
comunicare di persona la massima autorità militare del Regno?
3
Invicta
era stata così chiamata perché veniva considerata una città praticamente
inespugnabile, la grande capitale del Regno costruita dopo la guerra con l’Orda
delle Sabbie, quando si decise creare un nuovo centro di potere amministrativo,
legislativo e militare. Si diceva che il nome derivasse anche da un piccolo
insediamento che ivi sorgeva, Castrovetus, ora uno dei sestrieri che
costituivano il centro della città, che nonostante le modeste dimensioni,
riuscì coraggiosamente a resistere alle barbarie degli invasori.
Maestoso,
il fume che tagliava in due le terre centrali, passava proprio per quella
augusta città, divisa a sua volta in due da esso, e di conseguenza anche
attraverso le terre amministrate direttamente dal Re e dalla sua corte.
Un
sistema di dighe permetteva, in qualsiasi momento di bloccare navi e battelli
che, se per qualche ragione fossero riuscite a penetrare in città eludendo la
sorveglianza delle mura, si fossero rivelate ostili, arrivando addirittura a
prosciugare in pochi attimi intere sezioni del fiume.
Le
due navi del IV° classiari attraccarono la dove li avrebbero raggiunti il II°
ed il V°.
Gli
uomini, incuranti della fatica e della tensione, scesero ordinatamente,
radunandosi in una piazzola di terra battuta antistante al porto fluviale.
Edmondo e Tancredi furono salutati marzialmente dall’ufficiale in comando che
li invitò a prendersi un po’ di tempo per rifocillare sé stessi e le truppe fin
quando non fossero stati convocati allo Stato Maggiore.
Dopo
aver ringraziato, secondo l’etichetta condussero a passo di marcia i classiari
verso la vicina caserma, dove sarebbero stati ospitati, e una volta giunti
dinnanzi gli edifici ordinarono di rompere le righe.
La
Civica Guardia di Invicta non era dissimile nell’organizzazione da quella di Vittoria
in cui Enrico aveva militato e difatti non poté non apprezzarne la dignitosa
condotta e l’efficiente organizzazione. Vennero accolti con amichevole
compostezza, rifocillati e condotti alla camerata dove avrebbero riposato fino
a nuovo ordine.
“Mangiate
e dormite pure, visto che non so quando ce ne ricapiterà l’occasione!” Concesse loro il Sergente mentre dava
le raccomandazioni del caso.” Evitate
il bere ed uscite al di fuori della caserma! Altri vostri bisogni, dovrete
trattenerli! Altrimenti provvederò io a calmar lo bollente spirito anche se a
modo mio.” Scherzò con i suoi uomini
a cui strappò un sorriso.” Stasera ci
sarà una cerimonia presso il vicino mitreo a cui siamo stati invitati e da
buoni seguaci di Dio, noi ci andremo.”
A nessuno dispiacque l’idea di aver l’occasione di pregare e dialogare con Dio
e la notizia fu accolta con entusiasmo, entusiasmo a cui Tancredi non trovò nulla da obiettare.” Ed ora, uomini, scaricate i vostri miseri averi presso li letti,
recatevi tosto alle docce e giustate barbe e capelli, rendetevi ben
presentabili e civili nell’aspetto, come ci si aspetterebbe da un classiare!
Avete mezzo giro di clessidra per farlo! Dopo, consumeremo un pasto nel
refettorio, dove v’attenderò, insieme ai generosi guardiani della città, e
finito il pasto riposerete fino all’ora della funzione. Chiaro?”
“SIGNORSISIGNORE!”
Non
ci volle molto ad Enrico e ad i suoi compagni per sistemare gli effetti
personali e sebbene rapida, la doccia e la toletta furono accolte con grata
soddisfazione.
L’acqua
veniva prelevata con bacili e secchi da una grande vasca comune in cui
attraverso delle condotte che passavano per una caldaia interrata poco
distante. Sebbene avvezzi al gelo del mare invernale, per via della natura del
corpo di cui facevano parte, ai classiari, quando ve ne era l’occasione, non
veniva mai negata quella comodità. Enrico sentì con piacere l’acqua scivolare
sul suo corpo, portando via con sé, nella sua corsa verso gli scarichi che
stavano in terra, la sporcizia e la fatica accumulate in giorni d’incessante
attività fisica. Il pavimento ricoperto di cotto era leggermente convesso, in
modo che l’acqua convergesse verso tre fori circolari ricoperti da una grata di
bronzo siti al centro del bagno. Enrico osservò i rivoli di liquido che correvano
via, le occasionali turbolenze che ne alteravano il moto, quasi affascinato
dallo spettacolo.
“Ci
voleva proprio!” Esclamò Marcus con tale candido vigore da strappare una sonora
risata a tutti quanti e benché fossero concentrati sulla missione che li
attendeva e di cui ancora sapevano poco, la tensione venne in parte stemperata.
I
classiari, giunti al refettorio, presero posto mescolandosi, come voleva la
tradizione, ai padroni di casa, ovvero gli appartenenti alla Civica Guardia,
che sebbene composta da liberi cittadini e non da milites come loro, godeva di
alcuni dei privilegi che spettavano al rango dei seguaci di Dio. Ognuno prese
posto al fianco di uno di loro e le mense furono in breve riempite.
Il
miles che aveva il comando della caserma, così come Edmondo e Tancredi, sebbene
allo stesso desco, presero posto di fianco ai propri uomini perché così voleva
il Codice d’Onore.
“Se
hai il potere di comandare un uomo d’uccidere o farsi uccidere, non hai il
diritto di negargli la tua compagnia durante il pasto. Se un uomo prende ordini
da te, hai il dovere di mangiare con lui.”
Questo
recitava l’articolo a cui tutti gli ufficiali s’attenevano e nessuno di loro si
sarebbe mai sognato di disattenderlo.
Enrico
era a due tavoli di distanza da loro e lanciò solo una breve occhiata ai suoi
superiori.
Venne
recitata una preghiera che, per cortese concessione, recitò Tancredi il quale,
più volte data l’età e l’esperienza, aveva officiato alle preghiere del gruppo
prima d’una missione e ai riti propiziatori quando si rendevano necessari.
Essendo
civile, i Guardiani, benché coraggiosi e ben disciplinati, non potevano
ascoltare le preghiere che erano parte dei rituali misterici e dunque venne
recitato un “Tedeo”, un Gloria in excelsis e l’invocazione a Cauto e Cautopateo.
Tancredi s’alzò in piedi, mise in vista la medaglia con sopra inciso il Feroaro
e prese in mano l’Avesta della caserma, passatagli dall’ufficiale in comando,
il Capitano Metello. Baciò prima il testo sacro e poi la sua medaglia e dopo
che venne accesa la torcia rituale recitò le preghiere e pronunciò un breve
sermone che venne ascoltato con grande interesse tanto dai suoi classiari,
quanto dai guardiani.
Benché
uomo spesse volte rude e in battaglia rinomato per la sua spietatezza, sapeva
scegliere parole sintesi mirabile di semplicità e vigore ed i suoi sermoni
giungevano sempre al cuore di chi li ascoltava. Edmondo apprezzava molto quel
talento del suo numero uno ed era evidente che Metello condividesse tale
sentire, così come i presenti.
Il
pasto, una zuppa di legumi e carne accompagnata da pane, venne consumato dopo
la conclusione delle preghiere e fu un convivio allegro, con scambi di racconti
e battute tra guardiani e classiari.
Enrico
tentò di godere quanto più possibile di quel momento. Il suo istinto continuava
a gridargli che forse i giorni vissuti erano il preludio ad altri ben più
tristi e drammatici, anche se non avrebbe saputo dire il perché.
4
La
carica di Gran Maresciallo era la più alta del Regio Esercito. Egli era il
comandante supremo di tutte le armate del regno e ad un suo ordine diretto si
doveva obbedire, anche a dispetto delle disposizione dei propri ufficiali.
Era
Re Alfredo detto il Leale ad essere investito di tale carica.
Il
nascere principe dava dei diritti d’eredità riguardo la carica di Re ma non
necessariamente a quella di Gran Maresciallo. Egli infatti, a dispetto del
lignaggio doveva dimostrarsene degno, servendo egli stesso nel Regio Esercito
come qualsiasi miles, per quattro anni, e dando prova del suo valore sul campo,
almeno una volta. Inoltre doveva anche dimostrare d’aver attitudine al comando
sul campo di battaglia o, se in tempo di pace, di aver comunque il carisma e la
saggezza necessari per comandare l’Esercito.
La
fedeltà degli uomini andava comunque incondizionatamente al Re e difatti il
Gran Maresciallo poteva ordinargli tutto, eccezion fatta di ledere alla dignità
o alla vita del sovrano. Tuttavia, se privo di questa carica, gli ordini del Re
in materia di strategia, erano superati per autorità da quella del Maresciallo.
Solo il Re poteva sancire l’inizio e la fine di una guerra contro un nemico ma
tattiche e decisioni militari spettavano all’Ufficiale Ultimo.
Era
accaduto nella storia del Regno che, per alcuni motivi, taluni Re non fossero
risultati poi essere adatti a ricoprire il ruolo di capo supremo dell’esercito
e dunque erano stati eletti Gran Marescialli tra gli alti ranghi dei milites.
Non
era il caso di Alfredo il Leale la cui nobiltà d’animo e ardore nella mischia
erano ben note agli uomini che servivano con fierezza sotto le Insegne del
Regno.
I
capelli del più alto nell’aristocrazia, erano ancora in gran parte neri, anche
se alcune occasionali striature bianche davano un indizio dell’avvicinarsi del
sui cinquantunesimo compleanno.
Il
vigore di Alfredo era ancora ben visibile e ne andava giustamente orgoglioso.
La barba incorniciava il mento e, come uso dei sovrani nelle ultime tre
generazioni, la portava tagliata corta.
Indossava
una semplice uniforme, non quella bianca da cerimonia, consistente in una
casacca verde scuro bordata alle maniche di nero, unica distinzione con quella
d’un soldato qualsiasi, e sul capo un semplice cerchio di bronzo. Al petto il
medaglione del comando, con inciso sopra l’aquila regale che pareva scaturire
direttamente dalle fiamme del sacro feroaro. Al fianco una spada dalla semplice
elsa, in cui era incastonato un frammento della spada appartenuta, si diceva,
al Signore dell’Orda delle Sabbie. Quella spada era nota come “Infaticabile” ed
era, pare, la stessa usata dal Re Santo quando egli in persona scese in campo
durante la decisiva battaglia contro le forze che minacciavano di annichilire
il Regno. L’arma leggendaria era assicurata al fianco del Re da una spartana
cintura di cuoio dalla cui parte opposta, pendeva un coltello più simile a
quello che si sarebbe potuto vedere ad un cacciatore che non ad un guerriero.
Era
l’arma che distingueva il Corpo degli Oplites, gli assaltatori della fanteria
di cui da giovane il Re era stato membro. Il coltello veniva consegnato a tutti
quanti quelli che, alla fine dell’addestramento, si erano rivelati essere degni
di servire. Alfredo teneva a quell’arma perché ad essa erano legati molti
ricordi e perché dimostrava a tutti che, come un qualsiasi miles, s’era
guadagnato il proprio titolo.
L’inteso
sguardo del monarca passò in rassegna i classiari. Al suo fianco due
Pretoriani, l’elite che serviva direttamente la stirpe di monarchi.
Difatti
i pretoriani, pur essendo riconosciuti milites, non facevano parte del Regio
Esercito che era considerato l’esercito del Regno al servizio del Re in quanto
regnante ma erano un corpo nato anni prima alle dirette dipendenze dei sovrani,
formato da quegli aristocratici che davano prova di grande forza, abilità e coraggio. Da
guardia del corpo del Re, negli anni, aveva assunto anche altri compiti e non
era raro affiancasse il Regio Esercito sui campi di battaglia.
La
Pretura, per via della sua natura, non era soggetta al vincolo d’obbedienza al
Gran Maresciallo ma bensì al Re. In questo caso, essendo Alfredo tutte e due le
cose, la loro obbedienza andava anche alla più alta carica del Regio Esercito.
Uno
dei Pretoriani lanciò una rapida occhiata ai classiari, cosa che non sfuggì ad
Enrico.
“Coraggiosi
Classiari,” esordì il monarca con
solenne e composto tono,” alle vostre
mansioni, per mio diretto ordine, siete stati sottratti e ben altre sono le
fatiche ed i rischi che vi si chiederà qui, alla presenza del Signore Iddio, di
affrontare.” Enrico, come tutti i
suoi commilitoni era sull’attenti, al proprio posto. Edmondo e Tancredi erano
una fila avanti ai soldati, Enrico e altri tre caporali erano in proprio dietro
di loro. Il IV° Classiare occupava la sezione centrale della sala dove si
trovava, mentre il II° e V° erano rispettivamente alla destra e alla sinistra,
anch’essi disposti alla stessa maniera: gli ufficiali al comando in davanti
alle quattro file con vicino a sé il proprio numero uno; davanti loro tutti
c’era il Maggiore Belissario, a cui era affidato il comando del Corpo dei
Classiari e di fianco il suo vice, il Tenente Boiolo. Anche loro erano stati
convocati, a riprova dell’importanza della missione che sarebbe stata affidata
di lì a poco ai classiari.” Non è
segreto ma bensì cosa tristemente nota lo stato d’agitazione che sta scuotendo
in questi giorni le fondamenta del pacifico regno. Anomale e virulente
manifestazioni criminali ad opera di briganti senza scrupoli, il cui novero è
accresciuto da tagliagole della peggior risma, da bande di mercenari sbandati e
persino da vili disertori del Regio Esercito.
Una
serie di solo fino a pochi mesi prima improbabili sollevazioni da parte di
nobili che avanzano pretese di indipendenza nei confronti del Regno, senza
alcun motivo apparente per farlo.
Proprio
in riguardo a quest’ultima questione, mi sono consultato tanto con l’Assemblea
degli Aristocratici, tanto quanto con i Consiglieri del Re e con lo Stato
Maggiore di cui, come Gran Maresciallo, sono il Supremo Comandante.
Il
pericolo più grande è che s’arrivi presto a sollevazioni di ben altra entità
che non riguardino più solo spregiudicati vassalli avidi di potere e ricchezza
ma addirittura territori più vasti, come le Marche Periferiche. A tal riguardo
s’è deciso di fortificare i rapporti con i Signori di tali terre, sebbene sino
ad ora la loro lealtà al Trono sia stata fuori discussione.
Tale
fortificazione avverrà mediante dei matrimoni combinati tra i codesti Signori o
i loro eredi, con alcune delle mie figlie.
Dunque,
la missione del Corpo dei Classiari sarà di far da scorta alla mia stessa
progenie.” Nessuno lasciò trapelare
lo sbigottimento per tale richiesta. Come fedeli soldati del Regno erano
consapevoli del proprio ruolo e pronti ad ubbidire senza batter ciglio ad un
ordine che proveniva contemporaneamente dal Re e dal Gran Maresciallo in
persona. Eppure non potevano, dentro di sé, non provare confusione in quanto
altri sarebbero stati più adatti di loro, per natura incursori ed assaltatori,
a quel compito. Il Re intuiva i loro pensieri e perciò, dopo aver concesso loro
il tempo per assimilar la notizia:”
Il vostro Re non è uscito di senno. Bene conosce tanto il vostro valore, tanto
quanto la natura del vostro addestramento. Proprio per questo vi ho scelti.
Quello che non sapete è che è in atto una cospirazione ordita contro la mia
stessa persona.” Ci volle tutta la
disciplina di cui erano capaci per non lanciarsi in una serie di esclamazioni.
Enrico era atterrito e costernato per quella rivelazione. Chi mai avrebbe
potuto osare tanto?” Già due
attentati son stati consumati senza successo ma purtroppo gli infami che
stavano per rendersi rei di tale crimine hanno ben visto di togliersi la vita
di propria mano prima d’esser catturati ed interrogati ‘si che il nome di colui
il quale è cervello di siffatto ignobile complotto rimane a me ignoto. La tema
che possa la mano assassina tentare di ghermire il sangue del mio sangue è
grande e dunque non basta, nel trasferimento dal Palazzo alle case dei futuri
sposi, l’usuale dispiegamento di forze a garantir giusta sicurezza ma a ‘che il
piè delle figliole mie non sia in fallo e periglio sia scongiurato, il viaggio
avverrà attraverso i fiumi del Regno, fin dove sarà possibile, così come voi
siete giunti a me e saranno coloro i quali su acqua e su terra hanno fama
d’essere imbattibili a vegliar su loro incolumità. Voi, o nobili guerrieri, sposerete la causa del
vostro Re?”
“SIGNORSI!!!
PER L’ONORE DEL RE, PER LA PACE DEL REGNO!!!”
Nessun
accenno d’esitazione. Nessuna riluttanza. Solo il genuino desiderio di
guadagnarsi gli appellativi di “coraggiosi”, “invincibili” e “fedelissimi”.
5
La
Regia Nave “Furore Implacabile” lottava contro la corrente dello Spira. Il
legno di cedro dell’imbarcazione era tornato nuovamente a duellare con il
fiume, stavolta spingendosi però verso sud fin dove si dipanava un ramo del
corso d’acqua che confluiva nella “Lunga Linea d’Argento” che scorreva sin
nella città di Bellavista, ove il Marchese Ennio Ottavio II avrebbe preso in
consorte la giovane Clelia, una delle figlie più piccole del Re. La fanciulla
non era ancora sbocciata con i suoi dodici anni e darla ad un uomo di vent’anni
più grande lei a molti sarebbe parso crudele. Tuttavia quel tipo di matrimoni
non prevedeva che si consumasse la prima notte. L’etichetta voleva che dopo il
matrimonio, la sposa bambina fosse portata in un luogo a lei consono, in questo
caso un convitto di religiosi che amministravano il locale cautopateo e le
vigne del Signore di quei luoghi.
Li
sarebbe rimasta, con le dame di compagnia, a perfezionare gli studi e a
maturare, proprio come i chicchi d’uva al sole, fin quando non fosse stata
adulta a sufficienza per tornare da donna al palazzo del Marchese e acquisire
il titolo di Marchesa.
Clelia,
nonostante la navigazione di certo non agevole, dimostrò un notevole spirito di
sopportazione per la sua età, onorando
in questo il padre che aveva provveduto a che ai suoi figli capricci e lagnanze
fossero sconosciuti.
Rideva
alle battute di Marcus, vigilato da Tancredi, pronto ad intervenire se una
delle sue storielle si fosse rivelata inadatta alle piccole orecchie della
futura sposa.
Clelia
non dava peso a quello che stava per accadere o almeno così sembrava. Aveva
accettato il suo ruolo ed il suo destino, sebbene sembrasse incredibile potesse
averli compresi a pieno.
Agli
uomini della nave, inizialmente preoccupati per la sua presenza, aveva fatto da
subito simpatia. S’interessava delle cose del mare, dell’arte della navigazione
e dei compiti dei classiari manifestando la sua curiosità con domande acute ed
intelligenti.
“A
cosa pensate?” Chiese la giovinetta ad Enrico che scrutava le tortuose acque
che rapide lambivano le fiancate del battello.
“Alla
bellezza di questo fiume, che pare di lontano esser intrico di geometrie che
rapiscono sguardo con la loro ordinata bellezza.” Rispose quasi sovrappensiero, meravigliando sé stesso a
posteriori per quella sua frase.”
Invece, da vicino, pare una serpe che si contorce, preda d’una fame isterica
che lacera il budello e la sanità mentale.” Era in imbarazzo. Avrebbe dovuto
scegliere meglio le parole prima di rivolgersi così ad un membro del Casato
Regnante ma lei, invece, parve compiaciuta e divertita: “Siete un poeta,
giovane Caporale. Mio padre dice sempre che delle volte, i soldati sono anche
uomini d’arte e mi si dice che voi lo siate.”
Enrico
scoccò un’occhiata infuocata a Marcus che si voltò dall’altra parte, fingendo
ignoranza in quella faccenda.
“Mi
diletto pizzicando corde di cetra e lira.” Ammise un po’ riluttante.
“E
le pizzichereste ora, qui per me?”
“La
vostra richiesta è un ordine, Madonna. Se al mio ufficiale non dispiacerà,
acconsentirò volentieri alla vostra richiesta anche se, date le condizioni, non
posso promettervi l’eccellenza nell’esecuzione.” Attese un cenno d’assenso da
parte di Tancredi e questi lo concesse.
“Cosa
suonerete ?” Domandò ansiosa di sentire il Caporale che aveva preso una vecchia
cetra usata per accompagnare, nei lunghi viaggi, i suoni del tamburo dei
rematori. Tra gli alti spruzzi d’acqua e la schiuma che formava come una manto
di pioggerellina che sui loro capi ricadeva, sorridendole accondiscendente: “Un
vecchio motivo che in pochi conoscono ma molto popolare a Fosso Verde, i lochi
ove ebbi natali e cagione del mio nome. Lo insegnavano gli anziani ai nipoti,
al tempore del focolare, sin dalla notte dei tempi. Parla d’un uomo che era
abile cantore e ben più abile di me nel movere atomi sonanti con le corde al
punto che le stelle nei cieli, e le ombre dall’orco, si radunavano per sentirlo
quando all’ombra di un castagno, alla fine della stagione calda, si sedeva,
rimanendovi sin al sorgere del nuovo di’. Quest’uomo, mia Signora, aveva un amore,
sapete, una fanciulla bella come mai se ne erano viste …” le corde cominciarono
a vibrare, sotto i sapienti colpi delle sue dita, ora pizzicate, ore strappate,
ora appena sfiorate mentre la voce narrante si faceva canto, dagli accenti
morbidi e poi drammatici, man, mano che la vicenda veniva raccontata alla
piccola Clelia, non ancora donna nel corpo ma già pronta al sacrificio per
l’Onore del Re e la Pace del Regno.
6
Furore
Implacabile s’affiancò a Spirito Indomito, ove erano le tre dame di compagnia
della Principessa, di cui quella a lei coetanea, vestita in modo tale da passar
per una reale. Clelia, invece, era agghindata ‘si da parer un ragazzo, un
giovane mozzo, un’idea proposta dal Re in persona e accettata subito dagli
ufficiali del IV° Classiari.
Le
acque della Linea d’Argento erano ben altra cosa rispetto allo Spira, e la
navigazione in quella sua parte terminale era stata molto più semplice.
Le
mura di Bellavista parvero ai loro occhi d’un colore grigio-verde, a causa
della vegetazione che cresceva sul tratto di esse che tagliava apparentemente
in due il fiume.
Una
grande grata sbarrava il passaggio ai natanti e si poteva far ingresso
attraverso la città solo dopo essersi adeguatamente identificati agli armigeri
sulle due torri di guardia ai lati del cancello.
“Il
viaggio è quasi finito.” Sospirò Marcus che non poteva nascondere, almeno non
al Caporale Enrico, d’essersi infatuato della bella figlia di Re Alfredo. Un
sentimento la cui soddisfazione pareva impossibile ma ugualmente tenero e caldo
nella sua innocenza.
“Un
asino non può correre come un destriero,”
gli ripeteva sempre il nonno,” nulla
però gli impedisce di sognarlo.” Enrico, ricordando dentro di sé quelle parole,
dette una amichevole pacca sulla spalla del soldato.
Edmondo
fece un gesto in direzione di Tancredi dall’altra nave, un segnale che indicava
che le due navi avrebbero fatto ingresso appaiate nella città.
Con
la coda dell’occhio Enrico osservò la giovane nobildonna che gli sorrise, grata
per il canto che non conosceva e che, a
sua detta, avrebbe allietato con il suo ricordo i giorni a venire della propria
vita. “Servo vostro, mia Signora.” Aveva detto lui.
Tornò
a guardare davanti a sé.
Contemplava
i cieli ed i voli d’uccelli che il paesaggio offriva, l’imponente e garbata
forma della città, di cui potevano già ammirare le torri del castello che
s’ergeva s’un colle artificiale ed intorno a cui si dipanava la cittadina con i
suoi mercati, le sue piazze, le case, le vie, ed i pubblici giardini.
Una
meraviglia di civile ingegno noto come Belvedere.
“La
mente di un uomo,” gli diceva
Aloisio,” percepisce ben più
particolari di quanti essi stesso non abbia coscienza. Non concentrarti mai
troppo su uno di essi o ignorerai gli altri.”
“…
ignorare gli altri …” Ripeté tra sé e sé, mentre un commilitone, incuriosito da
quel mormorare, per un istante lo guardò con aria interrogativa, tornando poi
al proprio compito.
“…
ignorare gli altri …” Disse mentre stavano appropinquandosi al cancello che già
s’alzava, mentre dalle torri sventolavano un lembo di stoffa colorata in
risposta al loro, un segnale convenuto che li qualificava come gli ospiti
attesi.
“…
ignorare gli …” Sbarrò gli occhi e strinse i denti: “MANOVRA EVASIVA!” urlò.
Tancredi
si voltò subito verso di lui: quel ragazzo, ne era certo, non era un folle ma
un soldato di cui aveva ammirato, a dispetto della giovine età e della stazza
non certo da lottatore, il coraggio, l’ingegno e la disciplina; se stava
urlando in quel modo, significava che aveva avvertito un pericolo imminente e grave.
Enrico indicò il cielo ed allora Tancredi capì: stormi di corvi sorvolavano
numerosi, troppo numerosi, la città e le campagne circostanti.
7
Spirito
Indomabile non riuscì ad arrestare per tempo la sua corsa e fece l’unica cosa
che poteva. Si frappose, all’ordine del nobile Edmondo, tra la Furore
Implacabile e la pioggia di frecce che si levò dalle mura cittadine contro di
essi. Dei Classiari sul ponte si salvarono in pochissimi, impreparati a
ricevere quel benvenuto e sballottati dall’improvvisa manovra. Edmondo non era
tra di essi ma questo dalla Furore non era possibile capirlo, sia per la
concitazione del momento, sia per l’impatto tra la prua della nave e la
fiancata della gemella che tuttavia rallentò la corsa quel tanto che bastava
per permettere ai rematori di invertire la spinta all’ordine perentorio di
Tancredi.
Pagarono
anche loro una quota di vittime alla pioggia di frecce. Un coraggioso classiare
s’era immolato facendo scudo con il suo corpo a Clelia che non riuscì a
trattenere lacrime di sgomento e paura.
I
dardi avevano trapassato da parte a parte Ubaldo, aspirante Sergente e prode
nel combattimento. La gola trapassata, la bocca piena di rossa schiuma, gli
occhi serrati ed un ultimo singulto per salutare la vita, unico rimpianto non
poter combattere al fianco dei suoi fratelli in arme. Il suo sangue colò sul
volto atterrito della giovinetta e sulle sue vesti mascoline. Se Ubaldo non si
fosse sottoposto a tale supplizio ella sarebbe per certo perita.
“SOTTOCOPERTA!”
Urlò Tancredi ad un soldato che, scostato a malincuore il corpo del compagno
caduto, prese con sé Clelia portandola al sicuro, la dove stavano i rimatori e
la dispensa.
Messa
mano a scudi e lance i dodici classiari sopravvissuti, che si trovavano sul
ponte, si preparano al secondo lancio di dardi che senza deludere le
aspettative, arrivò rapido, lambendo però stavolta in gran parte le acque.
Erano
controcorrente ed il che significava che per quanto fosse il vigore profuso dai
rematori, risalire il fiume sarebbe stato più difficile. C’erano dei cavalli ma
non a sufficienza per tutti gli uomini. Le decisioni di Tancredi dovevano
essere rapide perché già vedeva, dai due
lati del fiume, comparire dai boschi circostanti, uomini e cavalcature che già
scagliavano su di loro altre frecce assassine. La precisione dei cavalieri non
era, per forza di cose, la stessa degli uomini sulle mura che godevano, tra
l’altro, di una migliore visuale.
Se
Enrico non avesse dato l’allarme per tempo sarebbero tutti morti subito. Una
punta di ferro s’infisse nel suo scudo e lui lanciò un ululato di canzonatorio
disprezzo in direzione degli assalitori.
“UOMINI!
FORMAZIONE GAMMA!” Al suo comando si disposero in due file, spalla contro
spalla, accovacciati, gli scudi erti tra sé ed un probabile nuovo lancio di
strali, le lance che verso l’alto, impossibilitate ad essere utili a quella
distanza. Anche con un buon braccio, scagliarle contro il nemico, avrebbe
prodotto ben poco danno da lì ed in quella condizioni. Erano in pochi ma non
poteva sottrarre i suoi uomini ai remi. Sentì un fragore assordante: la Spirito
Indomito, privata del timoniere s’andò a scontrare con la grata che era stava
rapidamente ribassata, andando frantumando la pruda e la polena, non l’usuale
testa di falco marino sostituita per l’occasione con una dal profilo meno
riconoscibile e più anonimo.
“MERDA!”
Ringhiò furibondo.
Enrico
indovinò i suoi pensieri: un desiderio selvaggio, quasi doloroso nella sua
intensità, di scender e procurar chi avrebbe fatto da guida ai camerati morti
nell’Oltretomba tra i nemici, ed il categorico impero di preservare la vita di
Clea; la pugna non era l’opzione da scegliere se si voleva riportar viva la
fanciulla dal padre.
Doveva
essere un dramma, per quel veterano forgiato dal fuoco di mille battaglie,
rinunciare alla mischia e al massacro. Lo capiva. Sentì dentro di lui pungolare
la smania di vendetta. Il soldato che era diventato voleva che il sangue dei
loro assalitori schizzasse, bagnandolo completamente ma proprio come Tancredi,
anche lui era un miles disciplinato ed obbediente e sapeva quale era la
priorità.
Fu
quanto s’avvidero, alcuni minuti dopo, della nave che veniva nella direzione
contraria alla loro che capirono che tuttavia quello scontro sarebbe stato
inevitabile.
8
La
braccia dolevano, tanta era la foga del massacro. Non avvertiva nemmeno il
dolore delle ferite aperte su di esse e sulle spalle. La sua veste di cuoio
cotto lo salvò da un colpo di lancia vibrato contro di lui. Le ossa avvertirono
l’impatto, scricchiolando in modo sinistro ma le carni furono salve e lui
contro cambiò infilando l’asta appena dietro la mascella del soldato nemico,
maciullandogli la lingua ed il palato. Venne tirato via da un guerriero rimasto
senz’arma e tornò a scivolare con lui lungo il greto del fiume, finendo per
qualche istante nelle acque del Linea d’Argento. Emerse trovando ad accoglierlo
una pioggia di pugni che colpirono l’elmetto, rintronandolo e facondo colar
sangue dalle tempie e dalla fronte.
L’avversario
menava colpi come un ossesso ma lui gli spezzo con un doppio pugno entrambe le
ginocchia spingendolo poi sul fondo ghiaioso, fin quando non morì affogato.
“CREPA!”
Gli urlò in un grido disarticolato e velato di sangue.
Uscì
dall’acque, sfoderando la corta spada, camminando nella mischia del gruppo di
assalitori che ormai aveva spezzato ogni formazione ed i suoi compagni, ormai
ridotti allo stremo delle forze.
Non
vedeva più Tancredi, che fino a poco prima urlava ordini ed incitava i suoi
uomini a salire nel regno dei cieli con onore.
“PER
L’ONORE DEL RE!” Menò un fendente
privando di una porzione di volto uno dei feroci guerrieri.” PER LA PACE DEL REGNO!”
Affondò con spietata efficienza la punta della corta spada in una gola.” PER MITRA TRIONFANTE!” Quando la vita
stava per sfuggire, i milites erano autorizzati ad invocare ad alta voce il Dio
con il suo nome. Enrico sapeva che quello era il punto d’arrivo e che non
poteva aspettarsi la sopravvivenza.
Tutto
finiva lì. Il suo desiderio di combattere, distinguersi sul campo di battaglia,
i sogni, le speranze.
Poteva
solo sperare che Mitra lo avrebbe perdonato per le mancanze ed i peccati e gli
avrebbe concesso, un giorno, di poter rincontrare le persone che in vita gli
erano state care.
Il
fianco venne aperto da uno dei colpi di quei pugnali ricurvi, di cui aveva
tanto sentito parlare nelle vecchie storie e non cadde sotto l’assalto del
mezzo demone con il turbante.
Una
lacrima scese dall’occhio aperto, mentre Clelia veniva trascinata via a forza,
strappata al corpo inerme di Marcus a cui, fino poco prima era stata attaccata.
Tentò
di rialzarsi. Sferrò un pugno ai testicoli del mostro che gli stava di fronte
strappandogli un urlo di dolore.
“Ti
ho preso la virilità …” La canzonò in preda alla febbre dell’ultima pugna.
Un
colpo calò su di lui.
9
I
mostri si erano ritirati subito, una volta presa la giovane reale,
evidentemente giudicavano la sua presa la cosa più importante. Forse ne
volevano fare un prezioso ostaggio. Questo pensiero era vago, più un sussurro
che altro, in una mente annebbiata dall’incedere della morte che lo reclamava,
passo dopo passo.
Avrebbe
dovuto alzarsi e correre al più vicino avamposto e dare l’allarme, urlare che
l’impossibile era accaduto e che dal passato erano tornati i bellissimi e
spietati demoni dell’Orda.
Tentò
di alzarsi, di farsi beffe del destino che pareva toccargli, dello stesso
dolore che straziava le carni. Tentò coraggiosamente ma invano.
Era
pieno di lividi e tagli, il volto ricoperto dal sangue, vomito e saliva davanti
a sé fuoriusciti dalla propria bocca.
Dall’occhio
destro non vedeva più, lo aveva capito solo allora e con quello che ancora
riusciva a scrutare intorno a sé studiò tristemente le figure dei classiari
morti con onore.
Nessun
superstite. Solo lui. Ancora per poco a giudicare dal sangue che si spandeva
tutto intorno e dal gelo che lo pervadeva.
“Per
aver fallito la missione, Ti chiedo perdono …” mormorò al suo amato Dio.
La
fronte toccò terra, dopo aver visto un’ultima volta il povero Marcus delle cui
carni era stato fatto orrido scempio.
Vide
Fosso Verde, i luoghi della sua infanzia, la sua famiglia.
Chissà
se le sorelle avevano o no avuto dei figli. Ripensò alla madre e al padre. Non
avrebbero mai saputo della sua dipartita. Provò una fitta di dolore perché se
l’Orda era tornata, i suoi famigliari sarebbero stati presto uccisi, perché
questo faceva l’Orda: uccideva e distruggeva; il fratello non avrebbe mai
saputo difenderli. Ora che era un soldato lo sapeva. Aloisio? Lui si che
avrebbe combattuto fino all’ultimo respiro ma anche lui invano. Però quel
vecchio si sarebbe tirato dietro almeno uno o due di quei bastardi figli di
demone. Sorrise, chiedendosi se lo stesse facendo davvero oppure se lo stesse
solo immaginando. Forse Laura si era davvero sposata. Gli dispiacque con dolorosa
intensità pensarla preda dei mostri, lei e la sua famiglia, così come i
compagni della Guardia Civica di Victoria.
Matilde.
Ancora giovane eppure già donna vissuta. Quanto piacere e dolcezza tra le sue
braccia. A suo modo era onesta ed era certo che Mitra l’avrebbe perdonata per i
peccati compiuti.
Si
levò un lieve vento da est che portava l’odore di fiori e piante selvatiche.
Distinse chiaramente della lavanda che si mescolava all’afrore del sangue e
della morte.
Cercò
di voltarsi, usando le sue ultime forze, perché voleva sentire un’ultima volta
il Sole sul volto.
Ci
era riuscito? Chi poteva dirlo. Volle immaginarsi supino, i raggi dorati
dardeggiare sul su di lui, confortandolo
nell’agonia, mentre il respiro si faceva un sordo rantolio.
Voleva
vivere.
Nonostante
tutto voleva vivere e si sentiva in colpa nei confronti dei suoi compagni
caduti.
Non
era la paura di morire.
Non
era la mancanza di desiderio di unirsi nella marcia verso l’Oltretomba con i
suoi camerati.
Voleva
vivere per combattere ancora.
Voleva
vivere per uccidere il nemico.
Voleva
vivere per difendere.
Vide
la sagoma della morte farsi d’appresso e, con l’ultimo fiato che aveva:
“Fammi
combattere un’ultima volta.”
Fine
episodio.