Yuri Lucia
Da
una vecchia idea di Yuri Lucia.
C’era una volta, tanto tempo fa, in
un terra lontana, lontana …
… un regno, che s’estendeva da alti monti, sino al limitare d’un grande
e profondo mare, attraversato da fiumi e foreste e retto da una stirpe di saggi
regnanti amati dal popolo.
La storia ebbe il suo inizio nei
giorni in cui Re particolarmente amato per le sue virtù e la sua bontà, al
punto da essere appellato “Re Santo”, era salito da alcuni anni sul trono,
succedendo così al padre.
Il suo governo era saggio e giusto,
guidato dai principi di equità e clemenza, anche se al bisogno sapeva essere
forte e risoluto.
Gli abitanti di quei luoghi
prosperavano ed erano convinti che fosse iniziata un’era di pace e ricchezza
senza precedenti. Tuttavia i sogni degli uomini spesso nascono solo per essere
disillusi.
Nel grande deserto chiamato “Le
Sabbie dell’Ira” viveva una genia nata dall’unione coatta tra alcuni demoni
scampati alla Guerra dei Cieli e le sfortunate figlie dei pastori che un tempo
abitavano quei luoghi, rigogliosi e verdeggianti prima che una terribile
battaglia mistica ivi combattuta ne cambiasse per sempre il volto, inaridendo i
campi, prosciugando fiumi, lasciando solo polvere e morte.
Essi erano bellissimi d’aspetto,
quasi perfetti nelle proporzioni, dalla pelle di bronzo e dagli occhi neri come
la notte. Gli uomini portavano i capelli completamente rasati, così come le
donne, ed i loro portamento era fiero e regale. Usavano tatuare un fiore di
fuoco, una specie rara che cresceva solo tra quelle sabbie, sul braccio destro,
e passavano la loro vita ad addestrarsi alle arti della guerra, depredando le
popolazioni che tentavano di vivere nel deserto ed i mercanti che
occasionalmente lo attraversavano.
Femmine e maschi, indistintamente,
lottavano con la stessa feroce risolutezza, senza mai concedere pietà o tanto
meno chiederla. Utilizzavano nei combattimenti dei grandi pugnali ricurvi noti
come “Denti del Diavolo” e vestivano delle tuniche di lana bianca, ornavano i
loro capi con turbanti rosso scuro, che richiamavano il colore del sangue.
Questo popolo crebbe in numero,
prosperando per le scorrerie e le razzie perpetrate anno dopo anno, secolo dopo
secolo, una generazione dopo l’altra.
Accadde che il novero delle forze
crebbe a tal punto da farli ben più audaci di quanto non fossero mai stati e
così decisero, guidati da un guerriero che in possanza e crudeltà superava
persino i suoi fratelli, di muovere guerra al pacifico regno che confinava con
le loro terre.
Un’orda di inaudita violenza si
abbatté come una pestilenza su quei luoghi solo fino a qualche tempo prima
considerati beati.
Non vennero risparmiati né anziani,
né donne e né tanto meno bambini. Gli invasori non volevano semplicemente
conquistare. Gli invasori volevano il totale annichilimento dei propri vicini.
Il Re ordinò ai suoi soldati di
respingere l’assalto ma vana fu l’opera dei difensori del Regno, benché
contraddistinta da atti di nobile eroismo. Persino i sapienti incantatori che
operavano in quelle terre, non riuscivano a contrastare il quotidiano avanzare
di quella marea virulenta c’ogni cosa riduceva in cenere e macerie e che
ingrassava ogni giorno le fila degli orfani e delle vedove.
I campi venivano bruciati, uno dopo
l’altro, ‘si da ridurre alla fame il popolo.
Le strade venivano presidiate da
accampamenti fortificati tirati su in un giorno ed una notte, abbattendo gli
alberi dei boschi secolari, per impedire alle città di comunicare tra loro.
Persino le speranze del nobile Re,
sembravano avviate inesorabilmente ad a morte certa, così come tutte le sue terre.
Tuttavia tra i grandi incantatori, ve ne era uno particolarmente sapiente e
potente, il suo nome era una leggenda tra gli altri praticanti dell’arti arcane.
Costui non poteva credere che fosse giunto il tempo della fine e non voleva
arrendersi senza aver tentato il tutto per tutto. Così interrogò gli astri e
gli spiriti, per tre giorni e tre notti, fin quando non ebbe le risposte che
cercava.
Il Venerabile vegliardo chiese
udienza al suo amato Re e, ottenuta che l’ebbe, gli disse che forse aveva
trovato un modo di respingere l’Orda ma per riuscire nell’impresa era
necessario acconsentire ad alcune sue richieste.
Il Re, ritrovata la speranza,
dispose senza indugio alcuno a che venisse fornito all’Arcimago ogni aiuto
necessario, a qualsiasi costo.
Vennero chiamati alla presenza del
savio un maestro di metalli di chiarissima fama ed uno dei più anziani e
valorosi tra i capitani del Re.
Al primo chiese di lavorare alla
forgiatura di cinque armature, dando indicazioni su come sarebbero dovute
essere e spiegò lui che avrebbero dovuto essere costruite utilizzando l’oro, cosa che lasciò stupefatto
il Maestro Armaiolo.
Al capitano chiese di scegliere
cinque giovani, uno per ogni segno dello
zodiaco, tra i più coraggiosi ed abili
che servivano nelle fila dell’esercito del Re.
Diede loro solo sette giorni e
sette notti di tempo per portare al fine il compito e gli disse che, una volta
terminato, armature e guerrieri sarebbero stati portati sulla sommità del Lago
del Cielo, un luogo sacro agli abitanti di quelle terre.
Il Mastro d’Armi ricevette una
quantità impressionante di oro, proveniente dal tesoro personale del Re ed
iniziò a lavorare nelle sue officine, con l’aiuto di figli e nipoti, senza mai
fermarsi, per sette giorni e sette notti.
Il Capitano invece, selezionò con
cura i cinque guerrieri. Ne vide tanti di giovani coraggiosi e fedeli al Re ed
alla Patria e non fu certo semplice, tra questi, scegliere i migliori perché
tutti, nonostante la paura che inevitabilmente la guerra e la morte ispirano
nei cuori degli uomini, combattevano con il coraggio di chi sa che dalla
propria lotta dipende la vita e la libertà sua e dei propri cari.
Sette giorni e sette notti
passarono e tanto il Mastro di Metalli, tanto quanto il Capitano trovarono
l’incantatore ad attenderli sulla sommità del promontorio su cui si trovava il
Lago del Cielo.
I giovinetti vennero condotti alla
presenza dell’Incantatore. Erano timorosi ma gli era stato spiegato avrebbero
contribuito alla salvezza del Regno e dunque al medesimo tempo erano ansiosi di
poter concretamente prestare la propria opera al fine di sconfiggere
l’apparentemente invincibile nemico.
L’incantatore era compiaciuto. Egli
confidava nella saggezza e nell’avvedutezza del vecchio Capitano che per certo
aveva scelto solo i migliori.
Chiese all’armaiolo di mostrargli
il risultato del suo lavoro e questi, aiutato dalla propria famiglia, trasportò
dai carri alla presenza del mago le armature.
La parola magnifiche non rendeva
pienamente giustizia ad un’opera di fattura a dir poco squisita.
Esse erano talmente perfette in
proporzioni e forme che i pezzi che le componevano si reggevano in equilibrio,
poggiati l’uno contro l’altro, da soli..
Le armature vennero disposte
intorno al lago e, trattandosi delle ultime ore della notte, ormai v’era da
attendere il sorgere del sole.
Il saggio chiese al Capitano e
all’Armaiolo di accomiatarsi dopo averli ringraziati con immensa gratitudine e
questi, comprendendo l’importanza di quello che sarebbe successo di lì a poco,
ringraziarono con sincerità e commozione, pregandolo solo di ripagare i loro
sforzi con il successo.
Rimasto solo con i giovini e le
armature, accese un ceppo di legno odoroso, un tempo parte d’una grande quercia
secolare e lo fece bruciare fin tanto che non divenne brace.
La cenere che ne trasse la usò per
disegnare sulle armature dei simboli il cui significato era sconosciuto ai
ragazzi che assistettero in rispettoso silenzio, senza mai batter ciglio, al
rituale.
Prese un cultro, un antico pugnale
rituale, fatto in oro e chiamò a sé i giovani.
Ad ognuno praticò una piccola
ferita sul palmo della mano e gli ingiunse di far colare il proprio sangue capo
delle armature e poi di posare il palmo aperto al centro della corazza.
Trasse da un fagotto preparato con
un panno di lino una coppa intagliata nel legno di un cedro e con essa raccolse
dal lago dell’acqua. Braccia rivolte in alto, verso i cieli, un’antica formula
recitata per diversi minuti. I ragazzi ebbero un guizzo di sorpresa quando
parve loro di vedere le cristalline acque attraversate da improvvisi cerchi
concentrici che rapidi ne increspavano la superficie piatta solo per sparire
ancor più rapidamente. L’incantatore, allora, prese a girar sette volte intorno
ad ogni armatura, recitando nuovamente la litania e curandosi di versarne sulla
sommità e sull’arme un po’ dell’acqua della coppa.
Il sole irruppe all’orizzonte,
fiero e maestoso, nonostante i dolori e le miserie umane ed i raggi
dardeggiarono contro l’armature, facendole brillare, da prima timidamente, poi
con sempre più vigore e, al fine, fu chiaro a tutti che esse stavano avvampando
di luce propria, una luce splendente ma morbida, che non feriva gli occhi, un alba dorata che
infondeva nel cuore di chi la osservava la speme. Speme che la vittoria sarebbe
stata riportata sulle forze del male.
I
Un
nuovo Miliziano.
Parte
Prima.
1
La
vita nel borgo di Fosso Verde proseguiva come sempre e ormai ci si preparava ad
affrontare l’arrivo dell’Inverno, un Inverno che prometteva d’esser algido e
rigido ma che per fortuna gli operosi abitanti del luogo sapevano affrontare.
Le
messi estive erano state ammassate nei magazzini. Fieno, ghiande ed erbe varie
avrebbero sostenuto il bestiame per la stagione fredda. In ogni casa v’erano
giare in cui facevano bella mostra di sé le scorte autunnali.
“Sbrigati,
Enrico, figlio di Alberto!” Lo ammonì
scherzoso il capo pastore.” Riporta
tosto gli armenti alle stalle, altrimenti il povero montone diverrà un pezzo di
ghiaccio!”
“Deh,
buon mastro Ottavio, a me nessuno pensa? Oh dunque credete ch’io ami gelo e
ghiaccia?” Rispose lui a tono e col sorriso sulle labbra.
Sistemate
che furono le bestie, Enrico salutò l’uomo, accomiatandosi da lui per
tornarsene a casa.
O
quanto meno questo era quello che Ottavio, il capo pastore del Borgo, credeva.
Dalle
stalle alla casa di Enrico c’era un buon camminare, in quanto essa sorgeva ai
margini del bosco, ed egli facilmente poteva far credere che il tempo impiegato
per tornarvi fosse giustificato dalla distanza e dal suo passo tranquillo e
posato. Così egli appariva ai suoi vicini e persino alla sua famiglia:
tranquillo e posato; nessuno sospettava cosa s’agitasse nei sogni e nella mente
di quel giovine ormai prossimo a compiere il suo quindicesimo anno di vita.
Ormai era un uomo o tale si sentiva e presto avrebbe dovuto parlare al padre
della sua scelta. Cosa gli avrebbe risposto? Sospirò e decise, per il momento,
di non darsene troppa pena.
Alla
roccia solitaria l’attendeva, come sempre, il vecchio Aloisio, un uomo
d’aspetto e modi rustici, i lineamenti del volto spigolosi, sin dall’ormai
passata gioventù che il tempo anziché ingentilire aveva inasprito,
un’espressione indecifrabile sul volto, come sempre.
“Alla
buon ora.” Lo salutò sarcastico.
“Chiedo
venia, Mastro Aloisio ma Ottavio oggi abbisognava di me più degli altri
giorni.”
“Sei
fortunato c’oggi sia buono il mio umore altrimenti avrei ripiegato già da molto
alla mia dimora.” Detto ciò scosse il mantello sulle spalle, facendo cadere in
terra alcuni aghi d’abete che su d’esso erano caduti. Con un cenno indicò il
lungo bastone che stava appoggiato al tronco d’un albero che subito il ragazzo
prese ed iniziarono il quotidiano allenamento a cui ormai, da tre mesi a quella
parte, pioggia o neve che fosse, si sottoponeva.
“La
spada è meno affidabile di quanto si creda,”
gli aveva rivelato il vegliardo il giorno in cui decise di acconsentire alle sue
richieste di farne discepolo,” poiché
rapidamente perde il filo in battaglia, riducendo ‘si di molto la sua capacità
offensiva. Il giavellotto, invece, non tradisce mai il buon soldato. La sua
punta, se opportunamente usato, può farsi largo anche tra forti difese di cuoio
e ferro e, se necessario, può essere scagliato a distanza contro un bersaglio.
Per utilizzare appropriatamente un giavellotto o una lancia, sono necessarie
disciplina e saldezza. Acquisiscile e potrò insegnarti.”
Aloisio
era stato un militare, egli aveva servito come fonte nel Reggio Esercito,
partecipando ad due campagne e congedandosi col grado di Sergente. Da allora
aveva provato il sapore della vita del soldato di ventura, prestando la sua
opera ed il suo braccio come guardia del corpo, scorta, mercenario,
addestratore di soldati. Le cicatrici sul capo canuto e sul viso testimoniavano
la sua audacia in combattimento ed il fatto che fosse invecchiato, la sua
estrema abilità nell’arte della guerra.
Al
ragazzo aveva imposto una severa disciplina che non ammetteva replica alcuna.
Corsa
con pesi attaccati al corpo, flessioni, dure lezioni di pugilato e lotta.
Gli
esercizi con il bastone erano iniziati quasi subito, “avrai una vera lancia
quando te la sarai guadagnata”, l’aveva ammonito ed il giovane, paziente, aveva
accettato di buon grado, felice di aver realizzato il suo disegno. Esser
l’allievo di quel vecchio eroe di guerra.
Aloisio
non pensava avrebbe mai preso un nuovo studente con sé, dopo la decisione di
ritirarsi nelle terre native ma la determinazione di quel giovane e la sua
costanza nell’inseguire i propri sogni l’aveva al fine fatto capitolare.
“Ripassa,
ancora una volta, i cinque colpi fondamentali del bastone e ricorda che possono
essere applicati anche alla lancia.”
Paziente
e tenace come sempre, Enrico fece d’un sacco legato al ramo d’un pino abete
solitario il suo bersaglio, ripassando mentalmente sia i colpi, sia i punti in
cui portarli.
Il
vegliardo guardò con approvazione i movimenti di Enrico che, di giorno in
giorno, guadagnavano in precisione e rapidità. Con il suo bordone gli si fece
d’appresso e, d’improvviso, menò un colpo che il ragazzo, voltatosi parò
all’ultimo istante.
“Sono
vecchio e lento ma se avessi ancora il vigore della gioventù, la tua testa ora
sarebbe perderebbe parecchio sangue e se fossimo stati in una vera pugna,
sarebbe come un frutto spaccato. Ti ho detto già molte volte che la
concentrazione non deve essere mai assoluta su d’un unico oggetto, non a
discapito di quanto ti accade intorno, altrimenti sarai facile preda degli
avversari che cercheranno di prenderti alle spalle.”
Enrico
ascoltò con grande attenzione le parole del mentore e con lui proseguì il suo
allenamento fin tanto che non venne l’ora di tornare a casa
2
Enrico
aveva scelto di lavorare per il Capo pastore del Borgo, cosa per cui i suoi
genitori non avevano trovato nulla da ridire. Il padre, un burbero ma onesto
contadino, aveva dato il suo benestare. Quando però gli palesò il desiderio di
recarsi in città per intraprendere il mestiere di guardia civica si scatenò il
putiferio.
Una
cosa, per l’uomo, era che il figlio si trovasse da fare nel borgo dove era nato
e dove, come s’era organizzato tempo addietro avrebbe preso in moglie una
giovinetta d’un borgo vicino, altra cosa era che decidesse di lasciare tutto e
tutti per andarsene via.
Al
padre di Enrico, Alberto, non mancava certo l’aiuto per lavorare le campagne,
né quelle del Feudatario di quelle terre, né quelle, d’estensione più ridotta,
di proprietà della famiglia: Enrico era il quarto di cinque figli, due maschi e
tre femmine; al più grande sarebbe toccato di prendere in eredità le terre
avite e la casa, per le tre femmine invece aveva patito un po’ di più perché
aveva dovuto metter su dote per loro con sacrifici e sudore ma la più grande
delle tre, in estate , si sarebbe congiunta ad un funzionario che lavorava per
uno dei Vassalli del Feudo, un uomo di quindici anni più vecchio di lei ma
dalla posizione solida e dalla borsa gonfia che s’era invaghito della figlia
quattro anni prima. Benedetto, per Alberto, era stato quel giorno e subito
s’era affrettato innanzi al Ministro di Dio e al Contestabile del Fondo dove
lavorava ad ufficializzare per iscritto il fidanzamento e la promessa di
matrimonio.
Le
altre due figlie erano sistemate, una con il figlio del mugnaio e l’altra con
il figlio di un tintore che abitava ad alcune leghe da lì.
“Padre, ve ne prego, perché non potete darmi la
vostra benedizione? Ho forse mai gravato
su questa famiglia da quando son in grado di badar a me stesso? Ho forse
chiesto di darmi qualcosa or che decido di dipartire da qui? Nulla pretendo,
nulla voglio se non sapere che mio padre mi ama.” Supplicò Enrico.
“Figlio
stolto, più stolto di quando ti mettesti in testa di vivere facendo il musico
ma allora eri un bimbetto e quella fantasia infantile passò presto, come la
febbricola dei neonati. Ora invece? Parti per far cosa? Per cercar onore, fama
e gloria! Ma io ben so chi questo insano fuoco alimentò dentro di te: Aloisio
lo sfregiato!”
“Vi
prego, padre, non apostrofatolo con siffatta cattiveria! Egli non alimentò
nulla! Fui io a rivolgermi a lui per imparare del mestiere delle armi.”
“Ah,
bene! Allora non m’ingannavo! Ecco perché scegliesti di far l’aiuto pastore!
Questo stratagemma ti permetteva di passar del tempo, al tuo ritorno, con quel
vecchio mentecatto! Guardalo! Sai chi era? Il figlio d’un rispettabile
calzolaio che lasciò andare in malora la bottega paterna e se ne partì per il
mondo, convinto di divenir un gran Signore della Guerra e cosa ne guadagnò? La
sua famiglia morì di crepacuore e lui ne ha avuto solo cicatrici e amarezze! E
dovrei darti la mia benedizione? Sei fortunato, figlio, che rispetti tua madre
al punto che anziché cacciarti a calci da questa casa, ti do il tempo di far
fagotto e andartene sulle tue gambe. Ricorda bene però quel che ti dico: oggi
varchi quella soglia ma vedi di dimenticar la strada di questo posto; non
tornar mai più sui tuoi passi.”
Enrico
era mortificato e sentiva le lagrime implorar per esser lasciate a briglia
sciolta ma sul suo volto solo una che fu tanto forte da farsi strada tra i suoi
occhi e superar le barriere del suo orgoglio, riuscì a scivolar. Cercò con lo
sguardo la madre e le sorelle ma tutte egualmente fissavano in terra,
costernate e contrariate. Suo fratello maggiore, Alfredo, era di alcuni passi
indietro al padre e quando i loro sguardi s’incrociarono ebbe a dirgli solo:
“Non hai sufficiente coscienza per vergognarti del dolore che dai a questa
famiglia? Se hai deciso di disattendere la volontà di tuo padre per far
qualcosa di ‘si sciocco come inseguir le chimere, sii almeno rapido nel muover
piede fora da qui.”
Enrico
si voltò e andò nella grande stanza che per anni aveva condiviso con i fratelli
e trasse via pochissime cose che mise in un fagotto improvvisato con degli
stracci.
Prese
con sé la cetra con cui tante volte aveva alleggerito il cuore dei suoi, gonfio
d’affanni, al termine di dure giornate di lavoro, anche quando le sue stesse
dita erano esauste per aver stretto vanga o falce. Suo nonno, Alarico, gli
aveva insegnato a pizzicarne le corde e lodava sempre la sua maestria nel
farlo. Non guardò nessun nell’andarsene via ma sentì le ultime parole del padre
mentre se ne usciva: “Era il quarto! La levatrice che lo fece nascere e il
Ministro di Dio che gli impose il nome me lo dissero! Per un maschio è un
brutto numero esser il quarto! Egli ti darò problemi a non finire e guardatelo!
Ecco! Invece di convolare ad un matrimonio che m’ero scervellato di combinare,
con una giovinetta onesta e di buona dote, lui cosa fa? Preferisce correr tra
le braccia della città, con i suoi vizzi e perversioni, pronto ad uccidere
uomini di cui non conosce nemmeno il volto pur di soddisfare le sue brame!
Bene! Bravo! Vattene via, debosciato e non osar mai più farti vedere qui! Oggi
ho un solo figlio maschio! Altri non ne ho mai avuti!”
Mai
prendere il sentiero che s’allontanava da casa gli era pesato. Mai aveva
pensato di provar gioia al pensiero di non riveder mai più i suoi cari.
3
“Pensavi
ti mentissi, quando t’ammonii? La via del guerriero e via ardua assai e tutto
egli si lascia alle spalle, fin’anco lo cori stesso.” Aloisio lo squadrava
dall’alto della roccia dove aveva trovato posto. Il ragazzo era turbato ma la
determinazione non scemava e se ne compiacque.
“Andrò
in città. Ci sarei andato anche senza la benedizione paterna. Ci andrò con la
sua maledizione.”
“Un
anatema simile non è cosa da sottovalutare, ragazzo. Il suo peso ti
perseguiterà per tutta la vita.”
“Vita
che virò secondo le mie convinzioni!” Nel dirlo alzò vigorosamente il pugno
verso l’alto, quasi a sfida del fato, gesto che sorprese Enrico stesso ma che in Aloisio mosse al riso. Non un riso
di scherno ma un riso d’approvazione.
“Posso
averti insegnato le fondamenta del combattimento e della strategia ma
l’audacia, giovane Enrico, è il dono di
cui Dio t’ha fatto beneficiario. Ora fatti d’appresso a me.”
Eseguita
che fu la richiesta, Aloisio gli allungò una bisaccia carica di latte e avvolto
in un panno del formaggio e della carne essiccata. Prima che il ragazzo potesse
protestare e rifiutare quel dono, gli porse una lancia: una vera lancia, un
frassino lavorato la cui punta di bronzo scintillava alla luce del giorno; “Voi
mi confondete …” riuscì solo a dire commosso.
“Te
lo dissi: quando te la sarai guadagnata, avrai la tua prima lancia; un giorno
essa si spezzerà, perché succede alle lance che vengono usurate dal coraggio
del guerriero che le impugna. Ne avrai altre e combatterai molte battaglie. Ora
vattene da qui, che per te non v’è più nulla in queste campagne e tra queste
genti ed io nulla ho più da insegnarti. Avrai altri maestri ma ricorda, sarà la
vita la più inflessibile di tutti gli insegnati. Ascolta ed impara le lezioni
che vorrà dispensarti. Vai con Dio, figliolo.” Gli impose la mano sul capo e
stavolta ben più d’una lagrima cadde a terra.
Enrico
lo ringraziò e rese orgoglioso il suo maestro incamminandosi con sicurezza
verso il proprio domani.
Ora
Aloisio aveva terminato il compito che sentiva doveva assolvere: forgiare un
soldato pronto alla pugna; però quel ragazzo ne aveva assolto uno ancora più
difficile: era divenuto un uomo;
“Addio,
giovane coraggioso.” Mormorò al vento e tornò al capanno che era la sua dimora.
4
La
città di Vittoria era stata anticamente la capitale del Regno, questo fino al
giorno dell’ultima, decisiva battaglia contro l’Orda delle Sabbie. Lo scontro
fu devastante e fu necessario trasferire il Castello del Re altrove. Una nuova
capitale venne eretta. Questo accadeva ben 120 anni prima. Vittoria, in origine
Fortezza, venne così ribattezzata per celebrare la disfatta dei nemici e fu
ricostruita 40 anni dopo per ordine di Re Giulio IV, nipote del Re Santo.
Le
sue strade erano ben diverse da quelle del piccolo borgo di Fosso Verde, ampie
e fiancheggiate da alberi di melo piantati per abbellirle, le case erano tutte
a due piani, il primo piano costruito in grandi pietre color giallo ocra e la
parte superiore in mattoncini di un colore scuro, sul marroncino, i tetti di
legno, a punta aguzza, coloro rosso scuro, ognuna fornita di un arengo che
permetteva il passaggio al piano superiore. La pianta della città era stata
praticamente ridisegnata ed essa aveva forma circolare, divisa in quattro
grandi “quartieri” dalle due strade principali che la attraversavano
longitudinalmente e latitudinalmente , al centro della città il Castello del Re
Santo, che sorgeva su una roccia basaltica intorno a cui era ancora presente l’antico
fossato, riempito artificialmente d’acqua mediante dei canali che comunicavano
con il Grande Fiume Torto, da cui nasceva anche il Fosso Verde. Ogni Quartiere,
nomato con il nome d’una bestia: Capra, Cavallo, Lupo e Volpe, era attraversato
da un ordinato reticolo di strade e, al centro d’ognuno d’essi, la piazza in
cui si svolgevano le attività quali il mercato, i pubblici comizi, il
quotidiano rituale della lavanda alla fonte, e su cui s’affacciavano le
rispettive Ecclesie che con la grande Basilica centrale, costruita proprio
dentro il Castello, costituivano il centro nevralgico della vita spirituale e
spesso politica di quella grande e popolosa città.
Vittoria
era famose anche per la presenza di un grande Ospitale, l’Ospitale dei Martiri
della Causa, di una grande Scola, la Reggia Scola di Arti e Mestieri, per la
presenza del Palazzo delle Societas, dove si riunivano i rappresentati dei
commercianti e degli artigiani di tutto il Regno e per la presenza del
Tribunale dei Giusti, il più grande tribunale di quella parte del reame a cui
faceva capo l’amministrazione e l’applicazione delle leggi nel feudo e nei
feudi adiacenti.
Ad
Enrico non sembrava vero di essersi trasferito lì, anche se l’amarezza per
quanto accaduto con la famiglia era ancora bene presente in lui. Era stato, da
bambino, diverse volte con il nonno in città, per fare baratto di prodotti
agricoli con quanto poteva servire: attrezzi agricoli, bestiame, utensili per
la casa e via discorrendo; l’uomo con cui stava parlando era un Bargello, dopo
il Capitano del Popolo il più alto grado nella Civica Guardia, il corpo che
svolgeva funzione di controllo del territorio, di Ordine Pubblico e che, in
caso di necessità, affiancava il Regio Esercito in battaglia.
Era
un uomo alto, allampanato, con un paio di lunghi mustacci alla moda delle genti
dell’est, con cui doveva condividere un po’ del proprio sangue dati gli occhi
azzurri e i capelli biondicci.
Aveva
un aspetto molto curato, i capelli tagliati corti e portati all’indietro grazie
a qualche pomata di cui evidentemente faceva uso moderato.
“Hai
compiuto 15 primavere? Dunque sei maggiorenne. Con te hai un certificato che
possa testimoniarlo?”
“Ho
con me il rotolo di pergamena che fu firmato dal Ministro del Culto che
m’impose il nome.” Dichiarò solenne e serio. Il Bargello lo guardò, scrutandolo
con cura.
“Non
sei molto alto. Sarai, ad occhio e croce, non più di 2 braccia e mezzo.”
“Due
braccia e 3 quarti.” Precisò lui.
“Sei
giovane, vieni dalla campagna, a certificare la maggiore età un pezzo di carta
scritto da un Diacono, dico bene? Perché dovresti voleri divenire una guardia
della città? Non sei nemmeno molto prestante. Potrebbe, sempre che avessi
bisogno di te, essere un mestiere assai pericoloso, lo sai?”
“Quello
che mi addifetta in forza fisica, lo recupero in agilità e resistenza, e per
quanto riguarda il certificato del Diacono, è sempre un Ministro del Culto e
dunque ha giuridicamente valore. Vengo dalle campagne, è vero, ed ho sempre
sognato di poter prestare la mia opera al servigio del mantenimento dell’Ordine
e alla protezione dei bisognosi.”
Il
Bargello sorrise, favorevolmente impressionato:
“Sei
figlio di contadini ma oltre che a saper leggere e far di conto, come m’hai
dimostrato, conosci anche le basi del diritto, cosa che nemmeno molti figli di
artigiani borghesi da me conosciuti sanno.
Parli
bene ma io ho bisogno di fatti ma per vedere i fatti, dovrò vedere cosa sai
fare. Le condizioni sono queste: le Guardie Civiche percepiscono un contributo
per la loro opera e alloggiano nella caserma della Civica Guardia, alle porte
della città; non potrò inserirti subito nei Regolari ma solo tra gli Ausiliari.
Significa che per almeno tre mesi, dovrai trovarti un’occupazione ed un
alloggio tuoi perché non avrai letto e del rimborso di spetterà solo la metà.
Sei in grado di resistere?”
“Certamente!”
Disse con lo sguardo che gli brillava.
“Non
ho finito. Ti dovrai addestrare, per due settimane, al Campo della Mula, giù,
nei pressi del Fiume Torto, e sarà l’istruttore a decidere se sarai pronto
oppure no. Se non sei pronto, sei fuori. Chiaro anche questo?”
“Si!”
“Ora
un ultima questione, quella che riguarda il tuo fisico. Vedi quel manzo langiù?” Indicò una Guardia particolarmente
grossa e ben piazzata, sulla ventina d’anni, il mento adornato da una folta
barba.” Si chiama Oreste, ma tutti lo
chiamano pugno di ferro. È il campione di pugilato delle Guardie della Città.
Vediamo come te la cavi con lui.” Lo chiamò con un cenno, prima che il ragazzo
potesse obiettare. Enrico tuttavia, anche avendone il tempo, non lo avrebbe
fatto: voleva troppo entrare a far parte della Guardia; non obbiettò nulla
quando il massiccio uomo gli si fece d’appresso, frattanto che il Bargello gli
spiegava la situazione.
Oreste
gli sorrise sardonico: “Ho capito, vogliamo vedere di che pasta è fatto il
contadinello.”
Se
aveva paura, Enrico non lo dava a vedere.
5
“La
casacca verde ti dona molto.” Commentò Laura, la figlia del falegname che per
il periodo di tre mesi lo aveva ospitato in casa, in cambio di aiuto nelle
faccende domestiche e di bottega. Una sistemazione migliore della stalla della
Locanda del Cinghiale Abbattuto in cui aveva trovato rifugio i primissimi
giorni.
“Grazie!” Enrico era raggiante.” Ora sono ufficialmente una Guardia
Civica. Guardia Scelta Enrico Fosso Verde, per servirvi.” Si produsse in un
cortese inchino che strappò a lei una deliziosa risata.
“Oh,
Messere, così mi fate arrossire.” Scherzò lei.
“Per
voi, Madonna, questa è ben poca cosa.” Poi, dopo aver vinto la timidezza,
trasse dalle tasche della casacca una cosa: un fazzoletto verde che le pose;
“Questo
è il tuo distintivo?”
“Era.
Adesso che non sono più un ausiliario ma guardia a tempo pieno, non ne ho più
bisogno e, poiché vi sono legato, vorrei che a tenerlo foste voi.”
“Dammi
del tu.” Disse lei con un ampio sorriso.
“Vorrei,
Laura che lo tenessi tu.” I due giovani si fissarono negli occhi.
“Laura,
vieni in casa, mi serve il tuo aiuto.”
La richiamò la madre, Anna.” E voi,
giovanotto, vedete di venirci a far visita ogni tanto. Parlo di me e di mio
marito. Ne avremmo grande piacere.”
Enrico
sorrise e, salutata Laura, s’apprestò a dirigersi in caserma per l’inizio del
turno.
Ivi
trovò Oreste che l’attendeva alla porta.
“Puntuale,
come sempre.” Fece la Guardia, dandogli una pacca sulla spalla.
“Dio
non voglia ch’io arrivi in ritardo. So d’essere entrato soprattutto grazie
all’intercessione tua e del Bargello Luca. Non voglio crearvi problemi con il
Capitano.”
“La
mia buona parola te la sei guadagnata ma devi ringraziare l’uomo che per primo
t’addestrò. È stato bravo. Sei veloce e pericoloso come una serpe.”
“Mi
sottovalutasti. Un errore. Per questo non sono molto propenso a darti la
rivincita. Non so se sbaglieresti ancora.”
I
due risero e si diressero all’interno della Caserma della Civica Guardia, ove,
nella grande Sala delle Riunioni, sarebbero state date le disposizioni per il
turno odierno.
Erano
presenti i Quattro Bargelli e, come
sempre, il Capitano Diocleziano, un veterano sui cinquant’anni che aveva
militato nel Regio Esercito come Brigadiere, prima di accettare quell’incarico
al comando della Guardia Civica della Città di Vittoria.
L’uomo
era il responsabile dell’ottima organizzazione e del funzionamento di quel
corpo, orgoglio della città e non solo.
Diocleziano,
come al solito, ascoltò con pazienza ed attenzione i rapporti dei Bargelli,
rapporti dettagliati e curati in ogni particolare e dette le disposizioni da
seguire per il seguente trimestre.
Alla
fine della riunione, parlò dell’argomento che interessava a Enrico.
“…
Inoltre, ricordo, che alla fine di questa mensilità, si svolgeranno le
selezioni per il Regio Esercito. Le domande saranno accolte, per gli
appartenenti alla Guardia Civica, presso il vostro ufficiale superiore. Il
Bargello a sua volta girerà la domanda presso la locale Capitaneria e dovrà
essere correlata di tutta la documentazione in vostro possesso e il vostro
attuale stato di servizio.
Non
saranno ammessi i fatti oggetti di sanzioni disciplinari o chi è stato colpito
da più di due richiami formali. La domanda è riservata alle Guardie Scelte con
almeno un trimestre d’attività, ed un età compresa tra i 15 ed i 22 anni.”
Diocleziano
non aggiunse molto e dopo essersi congedato marzialmente lasciò gli uomini a scambiare
commenti tra di loro.
“Ci
stai facendo un pensiero su, nevvero?” Incalzò Oreste.
“Sarebbe
un sogno ma non ho l’esperienza necessaria.”
“Ci
saranno le selezioni, nuovamente, tra tre mesi e tu potresti fare domanda.
Ovviamente non è detto che ti prendano subito ma potresti comunque essere messo
in lista d’attesa e nel frattempo potresti accumulare esperienza e, perché no,
anche qualche encomio.”
Enrico
sorrise a quella possibilità.
6
Quello
dei razziatori nei territori sud orientali era divenuto un problema di grande
entità per il Regno. Ogni giorno, ormai, gli insediamenti colonici in quelle
zone venivano sopraffatti da una risma di quella che il Capitano Aurelio
definiva: “i peggiori scarti dell’umanità”;
gli
uomini avevano marciato per quattro giorni, a ritmi serrati, per poter giungere
in quelle marche di confine. Il feudatario di quei luoghi deteneva un potere
solo formale, vista la natura estremamente autonoma dei villaggi, talmente
autonoma che lo stesso Re era stato indeciso se inviare o meno truppe per
rimettere la situazione sottocontrollo.
Era
tempo per Enrico di guadagnarsi il posto nel Regio Esercito, dove aveva preso
servizio come “soldato di fanteria”.
Gli
uomini avanzarono con cautela tra i boschi, scalando il fianco erboso d’una
collinetta per scendere poi dall’altra parte.
Il
covo dei banditi era stato trovato dagli esploratori e le loro informazioni
erano risultate essere estremamente precise. Un grande gruppo di ottanta uomini
armati, una parte di essi, almeno venticinque, con lance e picche, tutti
mercenari senza padrone che sapevano maneggiare bene le armi, il rimanente
tagliagole sfuggiti alla corda equipaggiati alla bene e meglio.
La
falange d’assalto si divise in due, una sotto il comando del Capitano stesso,
l’altra sotto quella del suo vice, un Maggiore fresco di promozione che si
chiamava Bertoldo.
Il
cuore di Enrico batteva con selvaggio vigore, la sua bocca era asciutta ed i
muscoli tesi, pronti a scattare. Ricordò le parole di Aloisio che lo
ammonivano: “nella mischia, mantieni il controllo. Non affidarti alle sole
nozioni imparate ma fai affidamento soprattutto sulla tua auto-disciplina
perché è solo tramite essa che ti manterrai vivo. Colpisci insieme al gruppo,
non lanciarti in azioni solitarie, rimani nei ranghi, proteggi il tuo compagno
e lui proteggerà te. Nessun racconto ti potrà mai preparare alla tua prima
carica! Non sarà come in un corpo a corpo ma conoscerai il senso della parola
massacro. Fai in modo di essere il massacratore e non il massacrato.”
Non
riuscì a trattenere un sorriso d’affetto per il mentore che gli mancava
grandemente.
Ad
Enrico toccò il gruppo di venti lancieri agli ordini del maggiore che dette le
ultime disposizioni.
L’osservatore
che stava nel bosco antistante l’accampamento del nemico diede il segnale,
emettendo un verso, l’imitazione del richiamo della beccaccia. Due volte, come
convenuto per evitare spiacevoli equivoci.
La
manovra a tenaglia ottenne il suo effetto: spiazzare gli ignari criminali che
si videro piombare addosso, da est e da ovest, due gruppi ben coordinati di
soldati. All’inizio non ci fu combattimento: era puro omicidio; le punte di
ferro delle lance scattarono, prendendosi le vite di quei tagliagole.
Ci
furono alti spruzzi di sangue ed Enrico era certo di aver colpito almeno un
paio di quei balordi, se bene non potesse dire d’averli uccisi.
“Nel
nome dell’Altissimo! Per il suo Verbo e per la sua Potenza!” Incitò il Maggiore
che aveva riportato una leggera ferita alla spalla sinistra.
A
terra erano già caduti le prime vittime, tutte quante appartenente alla banda
dei predoni.
“Per
l’Onore del Re! Per la Pace nel Regno!” S’unì uno dei veterani all’ufficiale.
Frattanto
i più esperti e preparati tra i malfattori avevano serrato i ranghi, formando
un anello di scudi. Dieci formavano la fila esterna, accovacciati, avevano
piantato le lance a terra e reggevano grandi scudi di legno circolari
rinforzati da umboni e fasce di ferro. L’anello interno, invece, formato da un
numero pari di persone, stava in piedi e con entrambe le mani manovrava picche
ben più lunghe di quelle utilizzate dal Regio Esercito.
I
morti che stavano in terra, inoltre, iniziavano ad ostacolare le manovre della
Brigata che cominciò a pagare il suo tributo di sangue. Enrico stesso fu più
volte in pericolo ma riuscì a mantenere la calma e lo scudo frapposto tra sé e
la morte che la punta di ferro avversaria aveva elargito al compagno alla sua
destra. Digrignò i denti e pregò Dio a che quella non fosse la sua ultima pugna
ma il suo battesimo. Dovevano guadagnare terreno, altrimenti rimanendo a quella
distanza sarebbero stati un facile bersaglio per i nemici.
“A
volte, però, bisogna tentare qualcosa d’inatteso e folle. Ogni tanto, nelle
situazioni di stallo, può far la differenza.” L’ammaestramento di Aloisio era
tesoro al suo cuore ed era ora di metterlo in pratica.
“Per
lo Splendente! Per il Supremo! Per la Sacra Triade!” Urlò con voce piena e
vibrante di coraggio. Lanciò l’asta, forte della mira acquisita in ore ed ore
di duro allenamento. Essa traversò l’aeree ed interruppe la sua letale corsa
conficcandosi nel ventre di un sorpreso lanciere nemico. I suoi occhi erano
carichi d’incredulità e il compagno che stava accovacciato davanti a lui,
sorpreso, voltò istintivamente il capo.
Quello
era il momento. Caricò, proiettandosi in avanti, e afferrò la lancia mentre lo
scudo deviava un colpo proveniente dalla manca ed un solerte compagno lo
salvava dalla morte che lo cercava da destra. Assestò un sonoro calcio contro
lo scudo davanti a sé, e si piegò, spingendo con tutto il suo peso,
costringendo l’uomo con il braccio contro il proprio torace, impossibilitato a
rialzarsi o a prendere l’arma. Ruotò la lancia mentre la tirava a sé, e poi la
fece scattare a più riprese in avanti, contro la gola, le guance, gli occhi del
suo bersaglio umano.
Toccò
all’uomo che teneva a terra e, con un unico poderoso colpo dall’alto verso il
basso, gli trafisse la nuca.
La
vittoria, così, arrise al Regio Esercito, anche grazie al coraggio di Enrico
che aveva spezzato l’anello di scudi. Probabilmente avrebbero vinto anche senza
di lui ma la sua opera venne comunque lodata.
Quando
tutto fu finito, s’allontanò barcollando, coperto di sangue ed icore, lo
sguardo perso e stanco, la testa che pulsava. S’apprestò ad un albero, un
nocciolo, e vi posò sul tronco la mano.
Vomitò,
diverse volte, in modo improvviso e convulso.
“ Succede sempre la prima volta, ed è successo
anche a me.” Era il Capitano che giunto alle sue spalle, lo stava consolando.
“Nulla
potrà prepararti alla tua prima uccisione in battaglia …” Le parole d’Aloisio
che venivano da
passato
si sovrapposero a quelle che stava udendo.
Enrico
si vergognò per essersi fatto sorprendere dall’Ufficiale in Comando in quelle
condizioni patetiche ma l’altro lo rasserenò con un sorriso comprensivo.
“Mi
dispiace, Signore.”
“Non
dispiacerti, giovane. L’umanità è qualcosa di cui non dobbiamo vergognarci.”
7
Per
Enrico era un giorno solenne. Non una Vigilia come tutti gli altri ma la sua
prima Vigilia da soldato. Aveva ricevuto l’investitura sei mesi prima e aveva
adempiuto alla sua prima missione sul campo un mese prima guadagnandosi così il
diritto di far parte, in modo ufficiale, del rango dei Milites.
Enrico
indossava l’abito bianco orlato di verde, tipico del suo corpo d’appartenenza:
i Classiari; era la veste che li contraddistingueva dagli altri Corpi del Regio
Esercito.
Come
membro più giovane, la tradizione voleva che fosse lui a recare con sé lo
stendardo del suo battagliano, il Falco
del Mare sormontato dal gagliardetto reale.
La
processione dei corpi armati attraversò la città di Aquileia, ognuno recando
seco la propria lancia, eccetto lo stendardiere, Enrico, che la portava legata
alla schiena. Gli alti elmi scintillavano alla luce dei ceri che la
popolazione, ripartita in ordinate file lungo la strada maestra, tenevano
davanti a sé, mormorando ringraziamenti agli eroi che ogni giorno difendevano
la pace del Regno e l’onore del Re.
“Dio
vi benedica, tutti quanti.” Mormorava uno.
“Il
più Alto per Santità vegli sempre sui vostri passi.” Augurò una donna
circondata dalla sua prole e con l’ultimo genito in braccio.
Il
pastore guidava la processione, tre passi avanti all’ufficiale in comando, il
Tenente Edmondo, a sua volta seguito dal Sergente Tancredi. Come voleva la
tradizione, leggeva alcuni passi dall’Avesta, tenendo lo sguardo fisso su di
esso.
Giunsero
al fine alla Basilica della città, un grande edificio a pianta
Rettangolare, sul cui abside troneggiava
il simbolo di Dio, il Feroaro sormontato dal Sole.
I
sette scalini vennero saliti in silenzio mentre una serie di canti che
provenivano dai cori lignei davano il benvenuto ai coraggiosi classiari: un
caldo “exulta” salutò i soldati che furono scortati fino alla fine della
navata, ove terminava il cautopateo.
Le
due statue di Cauto e Cautopateo vegliavano l’ingresso all’area riservata ai
soli militari, a coloro i quali si erano guadagnati il diritto di poter
partecipare agli alti misteri del culto, alla verità millenaria del figlio di
Dio che salvava gli uomini redimendoli dai vizzi e dai peccati.
Il
pastore fermò il suo passo. Nemmeno il Re poteva accedere a quel luogo sacro
senza aver messo mai piede sul campo di battaglia o senza aver mai adempiuto ai
propri doveri di guerriero.
I
cinquanta classiari attraversarono il vestibolo che separava il resto della
basilica dalla Spelonca Sacra.
All’interno
della cappella, priva di finestre ed illuminata da grandi bracieri e candelabri
di bronzo, li attendeva il celebrante che vestiva i paramenti sacri. Si
trattava d’un veterano, un alto ufficiale dei classiari, un Signore della
Guerra a cui la dignità del proprio statuto consentiva di officiare i riti.
Enrico
era emozionato. Sin da piccolo s’era chiesto cosa si trovasse oltre il Soglio
Santo. Aveva visto alcune volte, durante le feste comandate, i soldati
attraversarlo nella Ecclesia di Vittoria.
Fuori,
il pastore stava prendendo posto sul pulpito dal quale avrebbe letto il sermone
e alle loro spalle il portale venne chiuso, ‘si da garantire la giusta
riservatezza a quel momento.
Il
Celebrante attese che Enrico consegnasse lui lo stendardo dei classiari.
L’uomo
lo prese tra le sue mani e, dopo averlo baciato, lo pose in un anello a muro,
di fianco all’ara dove ardeva il fuoco Achenemide, alimentato da odorosi ceppi
di quercia ed abete.
L’uomo
invitò con un gesto eloquenti i presenti a prendere posto sulle panche di
pietra ai due lati della cappella.
Aprì
il tabernacolo alla base dell’Ara traendone il Grande Libro, le lettere di
Zaratustra, e un fagotto costituito da un panno di lino benedetto.
Sistemò
tutto sull’altare antistante il centro della Spelonca e recitò:
“Benvenuti,
o fratelli nelle armi, coraggiosi a cui è concesso, in questo luogo benedetto,
di appellarvi a Dio con il suo vero nome: Mitra.”
“Santo,
santo, santo è il suo nome, nei secoli dei secoli, tra tutte le generazioni, di
ieri, oggi e domani.” Risposero in coro i soldati.
“Così
come oggi, così come domani. Innanzi a Mitra, gli uomini che si dimostrano
degni, possono partecipare dei suoi sacri misteri. Egli, nella sua bontà,
s’assicurò che tutte le genti potessero ricevere adeguato ammaestramento e si
curò che gli insegnamenti del Padre Santo e del Santo Profeta fossero
perpetrati liberamente tra tutti.”
“Noi
ti ringraziamo, oh Mitra misericordioso, per non aver dimenticato che non ha
mai combattuto ricevendo il battesimo del ferro e del sangue, del dolore e del
fuoco.
Lodato
sia il Padre che sta nei Cieli.
Lodata
sia la Madre che sta nei Cieli.
Lodati
siano il Profeta: Zoroastro.”
“Però
solo l’uomo che si fa carico della responsabilità di difendere sé stesso, la
propria famiglia, la propria patria ed il proprio Re, potrà entrare nella Città
degli Eroi, alla fine dei tempi.”
“Lodato
sia Mitra, infinitamente saggio e buono, degno d’esser amato al di sopra d’ogni
cosa.”
“Perché
solo l’uomo che conosce la fatica e la follia della battaglia, solo colui che
rinuncia a sé stesso per il Coraggio, per l’Onore e per la Pace, potrà alla
fine dei tempi essere al servizio del Re dei Re, il Signore della Città
Celeste, il Buon Pastore, il Soldato Invincibile: Mitra, figlio del Sole.”
“Santo,
Santo è il nome di Mitra.
Santo
è il Buon Pastore.
Santo
è il Soldato Invincibile.”
“Oggi,
fratelli, siete qui riuniti per festeggiare degnamente il Sol Invictus, il
giorno in cui Mitra vide la luce e portò la luce. Siete qui per celebrare il
mistero del vero Dio e del vero Uomo.
Siete
qui per banchettare all’Agape rituale, per spezzare il pane e bere il vino,
come è vostro diritto fare, diritto guadagnato con il sudore della fronte e
lacrime di sangue.
Oggi,
fratelli, siamo qui per celebrare in questo santo mitreo, la sacralità del
mistero della tauromachia celeste. Sia dunque fatto entrare il toro.”
“Sia
benedetto mille e più volte il suo nome.
Sia
benedetto l’eroe degli eroi, il Re dei Re, che raggiunse il toro celeste e con
esso si scontrò, sottomettendone il potere alla sua volontà, libandone il
sangue e banchettando con le sue carni.”
Un
ingresso alle sue spalle, collegato da un criptoportico ad una stalla dove era
stato condotto l’animale sacrificale, si aprì proprio mentre il celebrante
preparava il cultro ed il cratere sacrificali.
La
bestia era stata condotta fin al centro del mitreo da altri quattro veterani
scelti per aiutarlo nel Santo Ufficio.
Il
taurobolium era il più sacro tra i riti degli iniziati al culto del dio Mitra
ed essendo Enrico il più giovane venne fatto avvicinare alla bestia per primo.
“Questo
fratello ha da poco guadagnato il suo diritto ad esser qui con noi e, come
vuole la tradizione, sarà la sua mano, brandendo l’arma rituale, a sferrare il
primo colpo. Nel nome di Mitra, di suo padre Aura Mazda, della Santa Vergine
sua madre, del Profeta, degli Angeli tutti, dei Santi Martiri, io t’ingiungo di
compiere il Sacro Gesto.”
“Così
sia, oggi come domani.” Risposero
all’unisono gli uomini presenti.
Enrico
non riuscì a trattenere lacrime di commozione mentre le sue mani strinsero con
salda fermezza il pugnale. Il capo della bestia venne fatto alzare a forza
tirando l’anello che stava al naso e lui, ringraziando amorevolmente Dio,
sferrò il colpo al collo del toro.
8
“Caporale
Fosso Verde a rapporto, Signore.” La nave era in viaggio da un giorno ed una
notte, tenendosi lontana dalla costa per non essere avvistata dai nemici. I
trenta uomini a bordo, trentacinque contando l’equipaggio, avevano atteso in
silenzio, con la pazienza tipica del soldato ben addestrato.
C’era
un forte vento quella sera, un vento che portava la pioggia e minacciava di
spingerli verso la riva.
Il
Sergente Tancredi lanciò un’occhiata all’orizzonte che già brillava per i lampi,
ghignando soddisfatto e poi si rivolse al giovane caporale.
“Caporale,
quando arriveremo in prossimità dell’obbiettivo dovremo muoverci in fretta. Le
tenebre oggi ci sono amiche e occulteranno il nostro arrivo. Avrò comunque
bisogno che tu ed i tuoi uomini ci apriate la strada, segnalando l’eventuale
presenza di sentinelle lungo il sentiero che dalla spiaggia porta alla rocca.
Tutto chiaro?”
“Signorsì,
Signore.”
Tancredi,
soddisfatto, dette una pacca alla spalla del ragazzo.
“Coraggio,
figliolo. Oggi ci aspetta la gloria.”
I
classiari erano un corpo specializzato nelle missioni via mare o che
comportavano lo spostamento lungo un corso d’acqua. Tutti pensavano che il
cognome di Enrico fosse in questo senso di buon auspicio. Viaggiavano
solitamente su due navi e i soldati, quando attaccavano via mare, sbarcavano a
diversi metri di distanza dalla spiaggia, spostandosi a nuoto o camminando sul
fondo sabbioso la dove era possibile, per raggiungere l’obbiettivo a terra, in
questo caso una vecchia fortezza di cui si era abusivamente impossessato un
vassallo ribelle auto-proclamatosi conte di quelle terre. Enrico, per via della
sua statura e della sua corporatura, s’era dimostrato particolarmente adatto
all’esplorazione e, seguito due compagni, andava in avanscoperta per verificare
quale fosse lo stato delle difese nemiche.
Si
lanciarono in acqua, dopo aver salutato l’ufficiale in comando ed i compagni,
le loro vesti erano di cuoi leggero, fredde ma impermeabili, ed indossavano
solo gli elmetti di bronzo. Con sé avevano giavellotti, assicurati alle spalle, dei sica
per il corpo a corpo ed avvolti in pesanti panni, Enrico aveva delle torce
ricoperte da pece. Tenendo la testa e le spalle fuori dall’acqua, camminarono
fino a raggiungere la spiaggia.
“Aspettatemi qui.” Ordinò ai suoi compagni,
una coppia di giovani trasferitisi da poco ai classiari. Affidò loro due delle
quattro torce e si diresse verso la rocca, in perlustrazione.
I
classiari potevano essenzialmente assolvere a due funzioni, anche se alcune
volte, non in quel caso, erano utilizzati anche come scorte via mare: portare
supporto dalla costa ad eventuali truppe di terra, oppure tentare l’incursione
in territorio nemico; per entrare nel IV° Classiari Enrico aveva dovuto
guadagnarsi un encomio del suo ufficiale superiore nel Regio Esercito e
superare un difficile esame, seguito da un ancor più difficile addestramento;
non aveva mollato, nemmeno quando era allo stremo così come Aloisio gli aveva
insegnato, così come la sua volontà dentro gli comandava.
Si
appiattì contro il terreno, strisciando tra la bassa vegetazione e la sabbia
umida, aguzzando la vista e solo quando fu sicuro, tornò indietro dai suoi
compagni.
Le
torce segnalarono via libera. C’erano solo quattro guardie sul sentiero e di
quelle si sarebbero occupate lui ed i suoi compagni, in modo rapido ed
efficiente, così come oramai era abituato a fare.
9
I
suoi compagni, persino l’ufficiale in comando, ascoltarono assorti “Le Gesta di
Cautino da Montefortino”, una della canzoni di gesta più note ed amate dai
soldati: si parlava di onore, cameratismo e di una morte epica, al servizio
della nobile causa del bene; le dita di Enrico dolevano un poco ma non lo diede
a vedere, perché desiderava solo regalare ai suoi commilitoni un po’ di svago,
mentre godevano di quei preziosi attimi di tranquillità.
Finita
che fu l’esecuzione tutti applaudirono, commossi e, conoscendo bene l’animo dei
suoi compagni, dopo aver ringraziato, eseguì per loro una quadriglia dai ritmi
allegri, aiutato da un altro soldato che cominciò a percuotere con consumata
maestria un salterello e poi da un giovinetto, una recluta, che iniziò a
soffiare in una siringa pastorale.
Ci
furono canti, e i corni, che s’usavano in quella regione settentrionale in
luogo dei nappi, vennero riempiti rapidamente d’odorosa birra e vino speziato
e, con altrettanta rapidità, vennero vuotati.
Al
fine, Enrico, cedette alla stanchezza e s’alzò, le gambe un po’ intorpidite,
lasciando il suo posto ad un musico locale, che pizzicando una cetra un po’ più
grande della sua riprese il tema da dove lui l’aveva lasciato.
I
suoi stavano danzando con alcune delle cameriere e con donne ivi venute per
allietare i loro animi ed alleggerire un poco i loro borselli.
Era
normale: molti di loro non vedevano le mogli o le promesse spose da mesi e il giorno
del congedo era ben lontano; Enrico era sovrappensiero quando si trovò innanzi
lei.
Capelli
biondo cenere, tagliati corti, una veste sobria, tinta d’un verde scuro e orlata
con un motivo a foglie, rosse e marroni, occhi celesti, intensi come un cielo
estivo, un volto piacevolmente ovale e due labbra rosee e carnose. Non era
bellissima, non certo come quelle dame di cui si favoleggia nei racconti degli
ufficiali che avessero avuto modo di frequentare il palazzo di qualche
nobiluomo.
Aveva
dalla sua però linee morbide e desiderabili curve, un profumo dolce, come
quello delle foglie d’acanto e miele mischiati insiemi, lo sguardo che si fissò
in quello di lui.
“Arrossite?
Non posso credere che un soldato coraggioso, un classiare del falco di mare
possa arrossire per una donna come me.” Lo stuzzicò divertita lei.
Resosi
conto del calore che gli colorava le guance provò vergogna per sé stesso.
“La
vostra bellezza, madonna, mi secca la gola e annichilisce la mia favella.”
Mormorò lui.
“Madonna?” La sua risata fragorosa lo lasciò
ancor più spiazzato.” Nessuno mi ha
mai chiamato madonna e nemmeno voi dovete, anche se mi fa molto piacere.
Ditemi, soldato dal ‘si raffinato eloquio, come v’appellate?”
“Enrico.”
“Il
Re della Casa.”
“Come?”
“Non
ditemi che non conoscete il senso del vostro stesso nome?” Fece lei ancor più
divertita.
“Sinceramente,
lo ignoravo.” Ammise lui, sempre più in difficoltà, stringendo a sé la cetra,
tentando disperatamente di evitare che lo sguardo indugiasse troppo sulla
generosa scollatura dell’altra che, accortasi della cosa, per nulla
infastidita, sporse in avanti il suo bel vedere.
“Vuol
dire anche Re del Regno ma avete capito cosa intendo. Ditemi, mio Re, avete una
promessa ad attendervi al vostro ritorno a casa?”
“No
…, nessuna promessa …” pensò alla sua
Laura e al fatto che i genitori di lei non si fossero mai pronunciati sui suoi
discreti tentativi di prodursi in una richiesta ufficiale.” Ed invero, nessuna
casa ad attendermi.” Si rabbuiò un poco nel dirlo. Lei, abituata a ben altri tipi
d’uomo, veterani che di lupanare ne avevano visitati in abbondanza, rimase
colpita da quel suo cambio d’umore e subito gli venne naturale carezzargli il
viso, gesto da cui lui, sebbene in imbarazzo, non rifuggì.
“Voi
avete conosciuto il campo di battaglia, nevvero? Eppure non avete ancora
conosciuto il calore che una donna può dare ad un uomo.”
“No
…” Confessò.
“Non
vergognatevene. Siete giovane. Molto giovane e forse troppo per conoscere la
morte per come l’avete conosciuta voi. L’animo degli uomini è però cosa
difficile da capirsi ma non i loro bisogni e voi, Enrico, siete nel fiore degli
anni, vigoroso e bisognoso d’essere educato nelle cose dell’amore.”
“Amore?”
“Certo.
Non pensiate male di me. Non parlo a vanvera dell’amore ma voi ne avete un idea
più simile a quella che ne possono avere i bambini mentre il vostro corpo ed il
vostro rossore, indicano che siete pronto ad impararne anche gli altri
significati.” Si fece d’appresso,
premendosi contro di lui.” Anche
altro mi dice che siete ben maturo per questa lezione. Non temete e lasciatevi
guidare.”
Enrico
non disse più nulla, le parole soffocate da un intenso bacio, il calore che si
diffondeva ovunque, la sensazione d’esser vivo e fragile allo stesso tempo.
Lei
lo trasse in una cella li vicina, da poco liberata da una coppia e lo fece
distendere su d’un giaciglio aiutandolo
nello sfilare le vesti.
Enrico
si preparò ad apprendere una lezione importante nella vita d’un uomo e avrebbe
poi di certo potuto affermare che la sua era stata un’insegnante devota e
zelante.
Continua